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LA REALE NOVITÀ DEL NUOVO REALISMO

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 99-117)

Questo intervento è una rielaborazione del mio testo “Il rea- lismo senza intuizioni è libresco. A proposito di Realismo? Una questione non controversa di Franca D’Agostini”, pubblicato nel giugno del 2014 su Micromega – Il rasoio di Occam. Ora come allora, l’obiettivo è spiegare – contro gli scettici e i critici – per- ché il Nuovo Realismo proposto da Maurizio Ferraris rappre- senta una reale novità nel dibattito fi losofi co contemporaneo.

“Proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni”

Realismo? Una questione non controversa di Franca D’Agostini (Bollati Boringhieri, 2013) consta di una pars destruens e di una pars construens. Nella prima, si sostiene che il Nuovo Realismo non porta da nessuna parte. Nella seconda, si stabilisce qual è il realismo realmente nuovo di cui sarebbe invece profi cuo discutere.

Secondo D’Agostini, il dibattito innescato dall’articolo di Maurizio Ferraris, “Manifesto del Nuovo Realismo” (8 agosto 2011) è viziato da un “fraintendimento capitale”, che consi- ste nella “sistematica confusione fra realismo metodologico e realismo metafi sico” (p. 19). D’Agostini identifi ca il realismo metafi sico con la tesi per cui “qualcosa è reale, o anche: esistono fatti” (p. 166), e ritiene che si tratti di una tesi “non controversa”, che nessuno ha mai preteso di mettere seriamente in discus- sione. Per capire come mai, basti considerare quel passo della Metafi sica in cui Aristotele osserva che per un vero antirealista metafi sico non farebbe nessuna differenza andare a Megara o buttarsi in un pozzo; dato che per tutti quanti l’alternativa fra

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Megara e il pozzo è cospicua, se ne inferisce che non ci sono antirealisti metafi sici.

L’antirealista metafi sico dunque non esiste e non è mai esi- stito – al limite, se mai è esistito, è caduto dentro a un pozzo e non si hanno più sue notizie. Ma allora, com’è possibile che persista un dibattito come quello sul Nuovo Realismo, in cui alcuni fi losofi criticano l’antirealismo metafi sico attribuendolo ad altri fi losofi ? Ovvero: “Quale ‘realismo’ è un realismo che si defi nisce contrapponendosi a un antirealismo inesistente, mai sostenuto da nessuno?” (p. 65).

Qui uno potrebbe obiettare: ma come? Non è stato proprio Nietzsche, uno dei fi losofi più infl uenti nell’era contempo- ranea, ad aver sostenuto che “non ci sono fatti, solo interpre- tazioni”? Non era forse Nietzsche un antirealista metafi sico? E non lo sono dunque, in qualche misura, quei fi losofi come Heidegger, Deleuze e Vattimo che hanno convintamente svi- luppato l’antirealismo nietzschiano?

La replica di D’Agostini si articola in due mosse. Primo, Nietzsche non faceva sul serio, perché nell’aforisma 22 di Al di là del bene e del male, in cui scrive “non ci sono fatti, solo in- terpretazioni”, subito dopo precisa: “voi direte: anche questa è un’interpretazione; e io vi risponderò: ebbene, tanto meglio!”. Per D’Agostini si tratta di una “precisazione autoironica” (p. 35) che neutralizza la portata metafi sica dell’asserto nietzschia- no. Tuttavia nell’aforisma 22 di Al di là del bene e del male, dove si trova la “precisazione autoironica”, Nietzsche non enuncia la tesi “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma si limita a polemizzare, con toni humeani, contro la nozione di causalità usata dagli scienziati. La tesi “proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni” si trova invece nei Frammenti postumi, ed è asserita in tutta serietà, senza nessuna precisazione autoironica a smorzare l’antirealismo metafi sico.

Sebbene Nietzsche non stesse scherzando nel sostenere che non ci sono fatti, si potrebbe sempre sostenere che stavano scherzando i suoi seguaci novecenteschi. Scherzavano nel sen- so che non sostenevano davvero un antirealismo metafi sico, bensì quello che D’Agostini chiama antirealismo metodolo- gico, cioè il rifi uto del principio per cui “bisogna richiamar-

E. Terrone - La reale novità del Nuovo Realismo 101 si alla realtà, fare riferimento alle cose come stanno” (p. 19). Gli antirealisti metodologici, insomma, non negano che esista la realtà; mettono soltanto in discussione che sia opportuno occuparsene. Secondo D’Agostini, l’esistenzialismo di Heideg- ger, l’ermeneutica di Gadamer e il pensiero debole di Vattimo sono tutte varianti dell’antirealismo metodologico, le cui radici affondano nella fi losofi a trascendentale di Kant – della cosa in sé non è dato sapere, accontentiamoci di quel che passa il convento, ovvero i fenomeni, le apparenze, le interpretazioni.

Resta però la sensazione, avvertita in vari ambiti, che alcuni postmodernisti abbiano sostenuto in tutta serietà che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. D’Agostini cerca di spiegare questa sensazione nei termini di una trama ordita da alcuni cospiratori, in particolare il fi sico americano Sokal, il fi losofo americano Rorty e il fi losofo italiano Ferraris. Costoro avreb- bero screditato il pensiero postmodernista attribuendogli un antirealismo metafi sico che nessuno si era mai sognato di soste- nere, e addirittura avrebbero infl uenzato alcuni fi losofi post- modernisti sospingendoli verso posizioni equivoche. Ad esem- pio, segnala D’Agostini, “dalla metà degli anni ottanta […] Vattimo, sotto l’infl uenza congiunta di Rorty e Ferraris […], sembra dimenticare le basi trascendentali della sua formazio- ne” (p. 70). Sotto l’infl uenza congiunta, le basi trascendentali si sfaldano, i fatti diventano interpretazioni, il mondo favola: “La vera essenza, se si può dir così della volontà di potenza è ermeneutica, interpretativa. La lotta delle opposte volontà di potenza è anzitutto lotta di interpretazioni. Ciò corrisponde al divenire favola del mondo vero: non c’è altro che il mondo apparente, e questo è il prodotto delle interpretazioni che cia- scun centro di forza elabora” (Vattimo 1985, p. 96).

L’antirealismo metafi sico si rivela in tal senso il frutto di una cospirazione, con i pensatori postmodernisti travisati o addirit- tura plagiati dai dottor Mabuse di fi ne secolo. In questa spie- gazione mabusiana del postmodernismo c’è però qualcosa che non torna. Prendiamo ad esempio quel brano di Il secolo breve in cui Eric Hobsbwam scrive: “Tutti i postmodernisti hanno in comune uno scetticismo essenziale circa l’esistenza di una realtà oggettiva” (1994, p. 600). Anche Hobsbawm era fi nito

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sotto l’infl uenza congiunta di Rorty, Sokal e Ferraris? Pare stra- no. Più probabile che il grande storico avvertisse qualcosa di profondamente nocivo in quegli atteggiamenti che, in un arti- colo successivo egli stesso caratterizzerà come “mode intellet- tuali postmoderne nelle università occidentali, soprattutto nei dipartimenti di letteratura e antropologia, le quali insinuano che tutti i fatti’ che pretendono di avere un’esistenza obiettiva sono soltanto costruzioni intellettuali” (1997, p. 18). A volersi fi dare di Hobsbawm, gli antirealisti metafi sici nelle università occidentali c’erano per davvero, e probabilmente c’era anche qualche professore di fi losofi a che riforniva di antirealismo metafi sico i colleghi letterati e antropologi, i quali, a loro volta, spacciavano mode antirealiste ai propri studenti. È diffi cile sta- bilire con certezza se questo traffi co di antirealismo sia oggi del tutto esaurito, ma se anche fosse, non sembra così deplorevole vigilare affi nché non faccia ritorno.

“Le intuizioni senza concetti sono cieche”

L’argomento di D’Agostini contro il Nuovo Realismo segue questo schema: (1) nessuno ha mai sostenuto seriamente che non ci sono fatti; (2) il Nuovo Realismo si limita a criticare chi sostiene che non ci sono fatti; dunque (3) il Nuovo Realismo parla del nulla. Abbiamo visto che la premessa (1) è discutibile. Tuttavia, anche a volerla prendere per buona, resta comunque un problema ben più serio nella premessa (2), perché il Nuovo Realismo non si limita a criticare la tesi di Nietzsche per cui non esistono fatti, ma critica anche la tesi di Kant per cui le intuizioni senza concetto sono cieche.

D’Agostini concentra tutte le sue energie a mostrare che la critica nuovo-realista ai fatti inesistenti di Nietzsche va fuori bersaglio, ma trascura completamente la critica alle intuizioni cieche di Kant. Eppure è proprio su questo punto che si inne- sta la dimensione propositiva del Nuovo Realismo: l’esplorazio- ne delle conseguenze ontologiche della psicologia ecologica di Gibson (1979) e della fi sica ingenua di Bozzi (1990). La tesi fondamentale, in tal senso, è che la nostra esperienza condi-

E. Terrone - La reale novità del Nuovo Realismo 103 visa del mondo non riguarda fenomeni, apparenze, interpre- tazioni, bensì fatti veri e propri. Kant aveva torto a sostenere che le intuizioni senza concetto sono cieche. La maggior parte delle intuizioni ci vede benissimo, senza bisogno di concetti di complemento. L’essere umano in fi n dei conti è un animale, e come gli altri animali è in grado di percepire la realtà senza bisogno di apparati concettuali. Dunque, per rispondere alla domanda ontologica fondamentale, ‘che cosa c’è?’, non oc- corre per forza rivolgersi ai fi sici dei bosoni o ai metafi sici dei tropi. Le nostre intuizioni ci informano con suffi ciente appros- simazione su come stanno le cose nel mondo reale. Per quel che riguarda le regioni dell’essere da cui dipende la nostra vita e la nostra felicità, la fonte primaria dell’ontologia può essere benissimo la nostra esperienza condivisa del mondo.

L’idea che l’esperienza non raffi guri il mondo ma piuttosto ci connetta al mondo svolge un ruolo cruciale anche in altri ambiti della fi losofi a contemporanea, ad esempio nelle teorie causal-in- formazionali della mente (Dretske 1981) e del signifi cato (Evans 1982), ma soprattutto in quelle fi losofi e della percezione (Lowe 1996, Putnam 1999, Martin 2002, Noë 2004, Searle 2015) che, svi- luppando le intuizioni di Gibson, sostengono il realismo diretto – la posizione per cui i sensi ci mettono direttamente in relazione con i fatti del mondo reale. Di questi dibattiti, tuttavia, nel libro di D’Agostini non c’è traccia. Ad esempio si osserva che nel realismo interno di Putnam “‘il pensiero del fuori’ resta metodologicamen- te escluso” (p. 133), ma non si tiene conto che Putnam, muoven- do dal realismo interno al realismo diretto, trova un modo per includere nella sua concezione della realtà il “pensiero del fuori”. A scorrere le pagine di Realismo? sembra che la fi losofi a della percezione sia rimasta ferma alla vecchia, e ormai screditata, teoria dei sense data. In particolare, D’Agostini si sofferma su una forma di empirismo che a suo dire “è considerata nella tradizione (e nella fi losofi a analitica) dominante, primaria”, e che “è la base del cosiddetto fenomenismo scettico”, caratterizzan- dola nei termini seguenti: “tutto quel che chiamo R [reale] sembra stare nel qui e ora della mia esperienza, dunque l’R non è realmente R, ma è piuttosto ‘mi risulta R’ o ‘credo che sia R’” (p. 130).

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Ora, questo fenomenismo scettico era forse “dominante, pri- mario” ai tempi di Cartesio o di Berkeley, magari lo era ancora ai tempi di Mach o di Russell, ma di sicuro non lo era più per Austin, Grice e Strawson, come non lo è più per gran parte dei fi - losofi analitici contemporanei che si occupano di percezione. In particolare, il fenomenismo scettico non ha nulla a che spartire con il Nuovo Realismo, che ha come punti di riferimento impre- scindibili il lavoro di psicologi come Gibson e Bozzi, per i quali il fenomenismo scettico era il principale obiettivo polemico. In tal senso suona madornale l’affermazione di D’Agostini per cui il Nuovo Realismo “si presenta come una forma di empirismo settecentesco” (p. 192), cioè come un avatar contemporaneo del fenomenismo scettico. Questa affermazione – vala la pena di ri- badirlo – suona madornale perché la teoria della percezione su cui si basa il Nuovo Realismo è proprio agli antipodi dell’empi- rismo settecentesco e del fenomenismo scettico.

D’Agostini insiste giustamente sul fatto che per il Nuovo Re- alismo “quel che conta è la lettera, e non lo spirito […] quel che conta è l’apparenza” (p. 67), ma non si rende conto che, nella prospettiva di Gibson e Bozzi (come d’altra parte in quel- la di Strawson e Evans) “l’apparenza” non si riduce a mera im- pressione soggettiva, e costituisce invece la connessione fonda- mentale che lega i soggetti al mondo. Dunque interrogare il mondo partendo da quel che ci dice l’esperienza non signifi ca, contrariamente a quanto suggerisce D’Agostini, “confondere e sovrapporre epistemologia e ontologia” (p. 153). Sarebbe così soltanto se si adottasse una concezione fenomenista scet- tica dell’esperienza, in base alla quale – come nota D’Agostini stessa – risulta impossibile “‘uscire’ dal campo defi nito dell’e- sperienza, per esplorare che cosa c’è fuori” (p. 132). Invece l’ontologia nuovo-realista, nel fondarsi sulle teorie della per- cezione di Gibson e Bozzi, sostiene esattamente il contrario: la percezione non consiste nel proiettare un fi lm ingannevole dentro la mente, ma proprio nell’esplorare che cosa c’è fuori.

In questa prospettiva, le intuizioni senza concetti non sono cieche, dunque le apparenze che condividiamo mediante la percezione sono la strada maestra verso l’ontologia (verso l’e- splorazione di quel che c’è fuori). L’esperienza ci mette in con-

E. Terrone - La reale novità del Nuovo Realismo 105 tatto con la realtà con un’immediatezza che sfugge alla logica, al linguaggio e alla scienza (un punto che si ritrova anche in La crisi delle scienze europee di Husserl).

D’Agostini presuppone che ogni ontologia che si basi sull’e- sperienza si riduca a epistemologia empirista o peggio ancora a fenomenismo scettico. Ma questa non è un’argomentazio- ne, bensì una petizione di principio che trascura il dibattito contemporaneo in psicologia e fi losofi a della percezione, nel quale risulta cruciale la tesi per cui i sensi ci forniscono un ac- cesso diretto e non-concettuale alla realtà. Insomma, D’Ago- stini attribuisce erroneamente al Nuovo Realismo una teoria della percezione antiquata per poi concludere che il Nuovo Realismo è antiquato per colpa di questa teoria della perce- zione.

Metà fi sica e metà logica

La debolezza della pars destruens di Realismo? non ne infi cia tuttavia la pars construens, che consiste nella proposta di un realismo “realmente nuovo” (p. 191) – quel che si potrebbe defi nire un Nuovissimo Realismo. Sebbene la critica al Nuovo Realismo vada fuori bersaglio, nulla esclude che il Nuovissimo Realismo rechi in sé virtù tali da renderlo preferibile rispetto al suo rivale. Ma in che cosa consiste la novità?

Il Nuovo Realismo si proponeva come un’ontologia, cioè una catalogazione del dominio dell’essere, una schedatura delle entità delle quali la nostra esperienza condivisa ci assi- cura l’esistenza. Invece il Nuovissimo Realismo adombrato da D’Agostini ha le parvenze di una metafi sica, cioè un’indagine sulle strutture ultime di quel che esiste. Il nuovo-realista vede- va un tavolo (o un documento, o un telefonino) e si chiedeva che genere di oggetto fosse, quale ruolo svolgesse, a quali altri oggetti assomigliasse; insomma, cercava di collocarlo nella pro- pria mappa, come fa un cartografo quando si imbatte in una nuova isola. Invece il nuovissimo-realista non è interessato alle mappe, e vuole sapere piuttosto come è fatto il tavolo, se sia davvero un tavolo o piuttosto uno sciame di particelle “a forma

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di tavolo”, e quali siano i costituenti ultimi del tavolo, quelli per cui è davvero il caso di parlare di realtà in senso stretto.

A questo punto uno potrebbe dire: d’accordo, Nuovo Rea- lismo ontologico e Nuovissimo Realismo metafi sico sono due generi di ricerca differente, che possono benissimo coesistere e cooperare nell’analisi dell’essere, come l’architetto e il fab- bricante di mattoni cooperano nella costruzione di un edifi - cio. Perché mai creare una contrapposizione confl ittuale dove potrebbe esserci, e di fatto c’è, complementarietà e coopera- zione? Filosofi come Achille Varzi sostengono proprio una po- sizione siffatta, per cui fra ontologia e metafi sica sussiste una forma di cooperazione virtuosa. Ma a D’Agostini questa divisio- ne del lavoro fi losofi co non sta bene: “Non condivido del tutto alcune conclusioni di Varzi: per esempio, ‘che uno possa limi- tarsi e esplicitare il proprio credo ontologico senza imbarcarsi in speculazioni metafi siche di sorta’. Ho l’impressione che sia diffi cile dire: ‘ci sono P’ senza preoccuparsi di come siano ef- fettivamente fatti i P” (p. 189).

In questo modo, Realismo? mette l’ontologia di fronte a un bivio: o confl uire nella metafi sica oppure ridursi a epistemo- logia, a teoria della conoscenza. Questo aut-aut sembra però basarsi su un presupposto che abbiamo già visto essere inac- cettabile: la svalutazione dogmatica dell’intuizione e della per- cezione, ridotte al rango di fenomenismo inaffi dabile, mero sfarfallio della soggettività. Se le intuizioni senza concetti sono cieche, allora per parlare di quel che c’è (cioè fare ontologia), occorre andare a vedere da che cosa è composto quel che c’è (cioè fare metafi sica). Tuttavia questo esito è inevitabile solo se si presuppone, come fa D’Agostini, il dogma fenomenista per cui la percezione non è uno strumento affi dabile di cono- scenza della realtà. Se invece si rifi uta il dogma fenomenista, e si riconosce che le nostre intuizioni ci forniscono un accesso diretto a regioni importanti della realtà, allora l’ontologia può tracciare le sue mappe del mondo senza bisogno di ricorrere al microscopio della metafi sica.

Occorre poi aggiungere che la riduzione dell’ontologia alla metafi sica mediante il dogma fenomenista, su cui si regge tut- to il discorso di Realismo?, sembra risultare problematica non

E. Terrone - La reale novità del Nuovo Realismo 107 solo per l’ontologia che viene ridotta, ma anche per la metafi - sica che la riduce. Se le intuizioni non sono affi dabili, allora la metafi sica, nell’indagare i costituenti ultimi della realtà, dovrà fare affi damento su qualcos’altro. Su che cosa? Ecco la rispo- sta: “quando chiedo se e come questi oggetti esistano, e quale sia la loro costituzione interna, in base alla quale possiamo dire che sono esistenti, allora è naturale che io faccia riferimento alla fi sica, o ad altre scienze […] Se domando: ‘come è fatta la realtà?’ e voglio dare una risposta fi losofi a, ma scientifi ca (in- tendendo per scienza una ricerca basata sul ‘mondo in comu- ne’, come dice Kant, e non sulle mie esperienze individuali), allora devo certamente confrontarmi con la realtà così come è essenzialmente esaminata dalle altre scienze, ed essenzialmen- te dovrò dare fi ducia alla fi sica” (p. 153).

Nel ridurre l’ontologia alla metafi sica, il Nuovissimo Re- alismo fi nisce per ridurre la metafi sica alla fi sica. Il realismo “realmente nuovo” scolora così nel fi sicalismo, la tesi per cui l’unica metafi sica degna di nota è la fi sica – tutto quel che c’è da dire sulla realtà, ce lo può dire la fi sica. È arduo però capire che cosa ci sia di “realmente nuovo” in questa tesi, che è stata il principale leitmotiv fi losofi co del Novecento, sia sul versante neopositivista-pragmatista, per cui la fi sica liquidava la metafi - sica, sia sul versante esistenzialista-ermeneutico, per cui fi sica e metafi sica si rivelavano le due facce di una stessa medaglia della quale ci si voleva sbarazzare.

D’Agostini stessa sembra rendersi conto che il Nuovissimo Realismo non può limitarsi a riproporre il fi sicalismo, e nella parte conclusiva del libro corre ai ripari proponendo una serie di rimedi. Il primo tentativo, in tal senso, consiste nell’intro- duzione della nozione di scienza totale: “il concetto di ‘scien- za totale’ ci spiega bene quale sia la ‘scienza’ di cui parliamo in metafi sica quando diciamo che la scienza ci offre informa- zioni sulla realtà. La scienza totale è semplicemente l’impre- sa scientifi ca nella sua totalità […] Dunque quando parliamo di scienza in metafi sica ci confrontiamo nei singoli casi con la scienza attuale, ma la concepiamo (idealtipicamente) come ‘scienza completa’” (p. 155). In questo modo però il Nuovissimo Realismo rischia di trasformarsi in un fi sicalismo messianico:

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la metafi sica come attesa speranzosa della fi sica dell’avvenire, o come profezia dell’avvento dell’idealtipo della scienza com- pleta. Non sembra una prospettiva particolarmente entusia- smante per i fi losofi , ai quali si attribuisce una vago ruolo di

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