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QUEI MERCOLEDÌ A TRIESTE

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 83-99)

Nei suoi ultimi libri (anche in quello del maggio 2015 sulla Mobilitazione totale prodotta dal web) Maurizio Ferraris insiste sui temi della documentalità e della registrazione quali opera- tori sociali che caratterizzano la nostra attualità, dunque anche sul protagonismo della memoria come caratteristica antropo- logica e come dispositivo centrale.

Vorrei partire da qui per osservare che se è vero che solo la cultura può diventare lo strumento per resistere criticamente alla “chiamata” che ci arriva dal web in ogni momento della giornata e nessuno di noi escluso, trattenendo – per così dire – la nostra risposta al comando, è altrettanto vero che se guar- diamo dentro a questa arma che sarebbe la cultura diffusa in una molteplicità di pratiche e di istituzioni, compresi i libri, gli interventi e le lezioni (non solo quelle all’università), scopria- mo un imponente defi cit proprio di memoria. Perciò, il libro che a me piacerebbe scrivere potrebbe intitolarsi Amnesie.

L’enorme deposito di tracce registrate di cui oggi disponia- mo contiene lacune vistose e preoccupanti: non ci ricordiamo di quello che è successo solo ieri e spesso la cosiddetta cultura non si impegna per riempire le lacune ma le adopera per legit- timare strategie di oblio o semplici dimenticanze. La questione è grossa e merita molta attenzione. La richiamo qui per incor- niciare un ricordo felice, che riguarda Maurizio Ferraris e me, che vorrei sottrarre al silenzio: magari si tratta di un silenzio adeguato all’esiguità dell’evento, o forse no.

La scena è Trieste, Istituto di Filosofi a della Facoltà di Let- tere, via dell’Università 7, secondo piano, stanza dei docenti di Estetica e di Storia della fi losofi a contemporanea, quella di

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Gillo Dorfl es e che poi diventa la stanza mia e di Maurizio, a scrivanie affacciate, quando Dorfl es va in pensione. Più preci- samente la scena è un tavolo nero ovale intorno al quale pote- vano sedere, un po’ fi tte, quindici persone. Ma spesso eravamo anche di più, letteralmente accalcati, ogni mercoledì alle ore 15, e davamo vita a dibattiti tutt’altro che sonnolenti, anzi viva- ci, noi due, quelli che collaboravano con noi, alcuni neolaure- ati, alcuni laureandi, talora qualche esterno.

Ogni anno – e sono stati tanti, quasi due decenni di incon- tri tra gli anni Ottanta e i Novanta (non aggiungo “del secolo scorso” perché a me pare ieri) – si sceglieva un argomento ab- bastanza unitario e ogni mercoledì qualcuno faceva un’intro- duzione cui seguivano un dibattito scandito in due manche di tre o quattro interventi con risposte, e quindi una discussione senza regole prefi ssate, cioè libera. Si arrivava alla svelta alle 18 e magari si tirava fi no alle 19, quando bisognava sloggiare. Ricordo anche che qualche volta, alle soglie dell’estate, i nostri “mercoledì fi losofi ci” si svolsero all’aperto, in luoghi più ame- ni, in un paio di occasioni anche in riva al mare.

E allora? Tutti hanno sempre messo in piedi simili seminari e ancora oggi è una pratica comune. Sì, ma lì accadeva qualcosa che nessuno dei partecipanti o dei protagonisti potrebbe ricor- dare come banale routine universitaria: avveniva un incessante incontro/scontro di posizioni di pensiero in un momento storico straordinariamente denso di motivazioni fi losofi che e di apertu- re di pensiero (altro che “rifl usso” susseguente ai militanti anni Settanta e ai già mitici anni che portarono al ’68!). La traccia che ho tra le mani è il volumetto intitolato Intorno a Lévinas (Uni- copli, Milano 1987), nella cui seconda parte (una novantina di pagine) viene riportato in sostanza quello che si disse nei “mer- coledì” tra il 1985 e il 1986, attraverso gli interventi di Graziella Berto, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Giovanni Leghissa, Fabio Polidori (e altri), che sviluppavano l’in- put che avevo io stesso proposto. È solo un sintomo, un pezzetto del nostro lavoro collettivo, ma abbastanza signifi cativo per capi- re cosa intendo quando dico “incontro/scontro”.

Nel 1983 era uscito da Feltrinelli il reading sul Pensiero debole, curato da Gianni Vattimo e da me, nel quale si tentava di com-

P.A. Rovatti - Quei mercoledì a Trieste 85 porre in un progetto culturale il meglio della fenomenologia e il meglio dell’ermeneutica nell’orizzonte di una pretesa “crisi della ragione”, aprendo a nuove letture di Nietzsche e di Heidegger, e ascoltando in questa chiave altre voci come quella di Derrida o di Lévinas stesso. E poi c’era l’apporto della rivista “aut aut”, pro- prio quando Ferraris cominciò a darle contributi decisivi in qua- lità di redattore e animatore fi losofi co. Ed era anche l’epoca in cui scoprivamo l’importanza del lavoro di Foucault e l’esigenza irrinunciabile di coniugare ricerca fi losofi ca e analisi storica dei dispositivi di potere. Senza dimenticare l’interesse per la psicana- lisi in generale e per il pensiero di Lacan in particolare… Tutto ciò rimbombava e si coagulava, magari anche disordinatamente, nei nostri “mercoledì” nei quali era normale che convivessero posizioni e ascendenze diverse, anzi quasi le cercavano. Era una “militanza” fi losofi ca che non aveva più bisogno di qualifi carsi come politica, ma che, ciò nonostante, era un mettersi in gioco, pubblicamente, nel privato di quella stanza.

Non so se questo fosse vero anche per Maurizio, ma per me quei pomeriggi erano appuntamenti perfino più attesi delle lezioni che tenevo, quasi la ragion d’essere del mio stare in un ambito universitario, nel quale mi sono sempre sentito un po’ stretto. Percepivo il prodursi di un elemento formativo che successivamente non si è più ripetuto con tale intensità nella mia esperienza di docente. Funzionava anche come una “politica dell’amicizia” poiché non c’era dubbio che lì crescesse un gruppo assai poco istituziona- le che non separava mai con un confine netto lo studio e una certa estetica/etica dell’esistenza soggettiva. D’altron- de Ferraris, negli sporadici contatti che abbiamo avuto di recente, mi ha ripetuto che degli anni di Trieste passati as- sieme sente una particolare nostalgia, e credo che “i merco- ledì” vi abbiano la loro parte.

Senza il sottile agonismo filosofico di noi due e delle no- stre – per così dire – squadre, quegli incontri avrebbero perso il loro charme, il che avvenne puntualmente. Negli anni Novanta inoltrati, dalle ceneri dei “mercoledì”, prese vita il mio Laboratorio di filosofia contemporanea con altri orizzonti e un progetto diverso: si cominciò con un impor-

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tante seminario pubblico sull’eredità di Franco Basaglia, si passò attraverso un incontro internazionale a vent’anni dal- la morte di Foucault e poi un convegno che faceva il punto sulle nascenti “pratiche filosofiche”, per approdare all’at- tuale Scuola di filosofia di Trieste varata nel 2014 e ispira- ta a un pensiero critico ancora a venire, il tutto con uno sguardo decisamente esterno rispetto all’università, mentre Maurizio Ferraris, ordinario di Filosofia teoretica a Torino, fondava lì il suo Laboratorio di ontologia, stava diventando una stella di prima grandezza nel firmamento filosofico e lanciava il manifesto del suo “nuovo realismo”.

Da tempo i nostri sentieri si sono parecchio divaricati e quasi non sembra immaginabile l’esperienza che ho appe- na ricordato. Oggi, nell’epoca della registrazione, avrem- mo tra le mani ogni suo segmento discorsivo, e invece ne è rimasto poco, quasi nulla. Una piccola amnesia in un oriz- zonte di grandi amnesie. So che ricordarla adesso potrà produrre poco più che un’emozione. Ma, se anche avessi- mo a disposizione tutti i documenti di quegli incontri così puntuali e così insistiti nel tempo, le cose non cambiereb- bero. Su quella stagione culturale abbiamo steso uno spesso velame, quasi si sia trattato di un abbaglio collettivo nato negli anni Sessanta e in seguito scongiurato. Ma occorre- rà pur guardare con attenzione dentro questa scatola, sulla quale si pretende che un pesante coperchio culturale sia già stato definitivamente calato, perché non possiamo re- cidere con un colpo netto le radici della nostra complicata attualità filosofica.

Mi sono limitato a un’osservazione che potrebbe appari- re di dettaglio, e cioè il fatto che qualunque documentazio- ne avessimo a disposizione non restituirebbe il vissuto col- lettivo, piccolo quanto si vuole, al quale ho alluso in queste righe. Chiedo a Maurizio Ferraris, che ha condiviso con me tale “vissuto”, come sia possibile farlo diventare un oggetto sociale, in definitiva qualcosa di “morto”, senza perderne la parte più importante che lui e io conosciamo bene, anzi perfettamente. Dovremmo limitarci a constatare che la ab- biamo inesorabilmente perduta? Certo, l’abbiamo perduta,

P.A. Rovatti - Quei mercoledì a Trieste 87 ma eccoci di fronte a un bivio, avallare questa perdita o lavorare per salvarne qualcosa? Affrettandoci ad archivia- re la perdita, cosa guadagniamo? Non sarebbe preferibile, proprio per rallentare la risposta al comando del dispositi- vo, fare un bilancio di cosa abbiamo perduto e di quanto possiamo riattivare e ripresentificare?

Ecco come potrebbe cominciare un altro di quei merco- ledì, postumo ma non impossibile…

Emanuele Severino

E

MANUELE

S

EVERINO

IL REALISMO E IL MITO DEL REALISMO

1

Cresce il rifi uto dell’affermazione di Nietzsche (peraltro in genere male intesa) che “non esistono fatti ma solo interpre- tazioni”. Nietzsche non è un “realista”. Ma implicitamente il bersaglio in Italia si allarga a Heidegger e a Gadamer, e anche a chi, come Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, ha lavorato sulla scia di questi pensatori, a partire appunto da Nietzsche. È ora – sostiene Maurizio Ferraris – di far rivivere su scala mondiale i “fatti”, la “verità”, il “realismo”.

Se è lecito annotarlo, c’è anche chi, da più di mezzo secolo va dicendo che il senso autentico della verità non è investito dalla crisi inevitabile a cui è andata incontro la “verità” quale è intesa lungo la storia dell’Occidente, e quindi anche dal “rea- lismo”. Ma Ferraris vuol far rivivere “fatti”, “verità” e “realismo” dando come cosa per sé evidente (almeno così sembra) che la realtà esista indipendentemente dalla coscienza umana, la quale sarebbe però capace di conoscerla con verità, scorgendo appunto i “fatti”, ed essendo quindi una certezza che ha come contenuto la verità. Con fatica, si potrebbe far rientrare questo modo di pensare in ciò che Hegel chiamava appunto “identità di certezza e verità”. Non dubito che Ferraris (e Eco) l’abbia- no presente. Con fatica, dico, tuttavia, perché il senso comune non è la conferma fi losofi ca del senso comune.

Anche per le scienze della natura la realtà esiste indipen- dentemente dall’uomo. Da qualche millennio questo è anche il comune modo di pensare dei popoli, il loro “senso comune”.

1 Testo tratto da La potenza dell’errare, ringraziamo l’Autore e la casa editrice Rizzoli per averci concesso di utilizzare il testo.

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Ma ben prima della scienza è la fi losofi a, sin dai suoi inizi, a ri- fl ettere sul rapporto tra l’essere umano e la realtà – e sul signifi - cato di queste due dimensioni. Prevale, con la grande fi losofi a classica (Platone, Aristotele), la conferma del senso comune. E più tardi tale conferma sarà chiamata “realismo”. La prospetti- va espressa dal principio di Protagora che “l’uomo è la misura di tutte le cose” (e che quindi la realtà dipende dal modo in cui l’individuo pensa e vuole) resta a lungo emarginata.

Ma, proprio perché conforma il senso comune, il “realismo” fi losofi co non è il senso comune. La fi losofi a, infatti, viene alla luce evocando un senso prima sconosciuto della parola “veri- tà” – il senso che domina l’intera tradizione dell’Occidente dai Greci a Hegel, a Einstein; cioè la verità come “scienza” (epi- stéme) incontrovertibile, fondata su principi primi innegabili e per sé evidenti; e il realismo fi losofi co ritiene che il senso comune abbia verità. Ma è la fi losofi a a conoscere la verità del senso comune, non il senso comune.

Per avere un esempio della potenza e complessità concet- tuale del realismo fi losofi co si tenga ancora sott’occhio (cfr. sezione prima, cap. III) questo passo dell’Etica Nicomachea di Aristotele: “Ciò di cui abbiamo scienza non può essere diversa- mente da come; delle cose che possono essere diversamente, invece, quando siano fuori dalla nostra osservazione, rimane nascosto se esistano o no”. (La parola “osservazione” traduce la parola theoréin: l’osservazione appunto, la manifestazione del mondo, che accade con l’esistenza dell’uomo.) Si può dire che in questo passo sia addirittura anticipato quell’importante atteggiamento del pensiero contemporaneo che è la “fenome- nologia” fondata da Edmund Husserl, per la quale è verità tut- to ma anche solo ciò che è osservabile (manifesto, immediata- mente presente, sperimentabile); e quindi non è possibile che, con verità, venga affermato qualcosa intorno a ciò che non è osservato. Proprio per questo la fenomenologia non è una con- ferma del nostro senso comune. Aristotele non riconoscerebbe ciò che pure si è sviluppato dal proprio seme; eppure la sua è una critica radicale del senso comune in quanto sussistente al di fuori della conferma che l’epistéme gli dà: tutto ciò che esso dice non è “scienza” (epistéme). Inoltre, per Aristotele, la

E. Severino - Il realismo e il mito del realismo 91 realtà di cui c’è scienza e che quindi esiste indipendentemente dall’uomo è più ampia della realtà di cui, secondo la “fenome- nologia” c’è scienza (e anche Husserl intende la fi losofi a come “scienza rigorosa”). La scienza è infatti, per Aristotele (come per l’intera tradizione occidentale) anche scienza di Dio, “me- tafi sica”.

Il “realismo” fi losofi co greco si è sviluppato nella fi losofi a patristica e scolastica (Agostino, Tommaso ecc.) e quindi nella dottrina della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane, e poi nel Rinascimento e nella stessa fi losofi a moderna prekan- tiana, che però procede a una forma più elaborata di conferma del senso comune. E il realismo è stato messo in questione da Kant e dall’idealismo, per poi riaffacciarsi in varie correnti del- la fi losofi a degli ultimi due secoli, Marx e marxismo compresi. Si continua a dire che ci si è liberati della cultura idealistica. Ma quanti conoscono l’idealismo da cui ci si deve liberare? Per l’idealismo (e il neoidealismo italiano) è fuori discussione (come per il realismo) che la natura esiste indipendentemente dalle singole coscienze degli individui umani. È dalla coscien- za “trascendentale” (liquidata con troppa disinvoltura) che la natura non è indipendente.

La scienza, si diceva sopra, è realista. E la “fi losofi a analitica” sostiene per lo più che per sapere come sia fatto il mondo bi- sogna rivolgersi alla scienza moderna (che non è più epistéme). Sennonché, se il “realismo” della scienza moderna non vuol es- sere semplice, ingenuo “senso comune”, allora è una tesi fi loso- fi ca è cioè quel realismo fi losofi co la cui potenza e complessità concettuale e i cui rapporti con le concezioni non realistiche sfuggono completamente al moderno sapere scientifi co – e sarebbe un peccato se sfuggissero anche al “nuovo realismo”, stando al modo in cui esso è stato presentato.

Si aggiunga che la scienza intende fondarsi sull’“osservazio- ne”. Ma la gran questione è che la realtà – che per la scienza esisterebbe egualmente anche se l’uomo non esistesse (l’uo- mo è dice la scienza, compare soltanto a un certo punto dello sviluppo dell’universo) –, in quanto esistente senza l’uomo è per defi nizione ciò che non è osservato dall’uomo, ciò di cui l’uomo non fa esperienza: non può esserci esperienza umana

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di ciò che esiste quando l’umano non esiste. Quindi l’afferma- zione che la realtà è indipendente dall’uomo fi nisce anch’essa con l’essere una semplice fede, o quella forma di fede che è considerata come “altamente probabile”.

Comune al “nuovo realismo” e al “pensiero debole” di Vat- timo e Rovatti è comunque l’istanza politico-morale, messa in primo piano. Si accusano reciprocamente di favorire il totalita- rismo. Ora, la fi losofi a – come il mito e poi la scienza moderna – è nata, sì, per difendere l’uomo dal dolore e dalla morte do- vuti alla natura e alla lotta tra gli uomini. In questo senso la fi lo- sofi a (come il mito e la scienza), nascendo dalla paura, è mossa da un’istanza politico-morale. Ma la fi losofi a si accorge che il rimedio non può essere quello inaffi dabile del mito, ma deve avere “verità”, e la “verità” non può fondarsi sulla dimensione politico-morale. Per la sua assoluta spregiudicatezza la “verità” deve chiedersi perché la violenza dei più forti debba essere bandita. E deve saper rispondere. Altrimenti essa è semplice edifi cazione. Un’ultima osservazione a proposito di Nietzsche. La sua tesi che non esistono fatti ma solo interpretazioni non va intesa in senso assoluto: riguarda solo un certo insieme di eventi. Infatti, che il divenire del mondo esista non è per Nietz- sche un’interpretazione affi data da ultimo alle decisioni stori- che e quindi cangianti dell’uomo: che il divenire (la storia il tempo) esistano è per Nietzsche – anche per Nietzsche – l’in- controvertibile verità fondamentale in base a cui è necessario negare ogni realtà eterna immutabile, “divina” che sovrasti il divenire e lo domini e guidi. Questa “verità” è la Grande Fede al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente e, ormai, del pianeta. La fede che da tempo i miei scritti invitano a dar conto del suo incontrastato potere.

Persiste il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea. Da parte mia continuo a richiamare quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero fi losofi co del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica – destinata a questo dominio no- nostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, po- litica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa)

E. Severino - Il realismo e il mito del realismo 93 non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla fi losofi a. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo, cioè ogni Essere e ogni Verità immutabi- le della tradizione metafi sica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di supe- rarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace.

Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente il pensiero di Nietzsche. Ma anche quello di Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti fi gure fi losofi che, di cui tuttavia continuamente si parla. Inve- ce su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella fi losofi a di lingua inglese, sia in quella “conti- nentale”, di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema fi loso- fi a-tecnica a cui accennavo. Infatti, nonostante i luoghi comu- ni, la fi losofi a gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, “reaziona- rio”, rispetto alla progressiva emancipazione planetaria del- la tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarifi cazione dei motivi che producono quel silen- zio. Qui vorrei però limitarmi – come ho incominciato a dire – al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni.

Per Gianni Vattimo, sostenitore della fi losofi a ermeneutica (Heidegger, Gadamer ecc.), l’”antirealista”, cioè la critica alla “concezione metafi sica della verità” sarebbe una “scoperta” di Heidegger (Della realtà, Garzanti 2012; p. 100). Si tratta del- la critica alla defi nizione di “verità” come “corrispondenza” tra intellectus e res, tra “l’intelletto” e “la cosa”. In tutto il libro Gentile non è mai citato. Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella defi nizione. In sostanza egli argomentava – per sapere se l’intelletto corri- sponda alla cosa, intesa come “esterna” alla rappresentazione

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