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irriducibile ‘realtà’

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 65-75)

“Socrate: Ho trovato una di quelle cose rifi utate dal mare; una cosa bianca e della più pura bianchezza; pulita, e dura e dolce e leggera. Brillava al sole sulla sabbia appianata, che è scura e cosparsa di scintille. La presi, ci soffi ai sopra e la sfregai sul mantello; e la forma singolare fermò ogni mio altro pensiero. Chi ti ha fatto? Pensai. Non assomigli a nulla, eppure non sei informe. Sei trastullo della natura, tu priva di nome e a me giunta, per ordine divino, fra le sozzure rifi utate stanotte dal mare?”

Paul Valery, Eupalinos o l’architetto, in “Tre dialoghi”, SE, Milano 2012, p. 92. 1.

C’è la realtà? O anche: c’è davvero qualcosa al di là della mia convinzione che le cose esistano?

Una questione antica, che ultimamente è tornata al centro dell’attenzione a partire dagli esiti di un percorso fi losofi co come quello pazientemente disegnato in questi anni da Mau- rizio Ferraris.

Si dice (vedi Hegel) che il passaggio dalla fi losofi a antica e medioevale a quella moderna sarebbe stato contrassegnato dal- la convinzione secondo cui la realtà esterna (che esisterebbe in quanto tale, indipendentemente dal pensiero che la pen- sa) – quella stessa che, un tempo, il pensiero riteneva di poter senz’altro conoscere tramite la sensibilità e l’intelletto – sareb- be diventata (almeno da Cartesio in poi) indiscutibilmente pro- blematica. Insomma, dall’identità immediata di certezza e verità si sarebbe passati all’opposizione di certezza e verità: nel senso che quel che noi sapevamo delle cose (certezza) non sarebbe

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più corrisposto, immediatamente ed aproblematicamente, alle cose per quel che esse sarebbero state in se stesse.

Con Kant, poi, ci si sarebbe addirittura convinti del fatto che la cosa in sé (la cosa per quel che essa sarebbe in se stessa) fosse irrimediabilmente “inconoscibile”. La cosa in sé, ossia quella stessa che appare e si manifesta fenomenicamente in accordo con la rete categoriale di cui è fatto l’Io (in virtù delle funzioni a priori della sensibilità e dell’intelletto), ma che non appare mai, a noi, per quel che essa è in se stessa; ossia, in relazione alla totalità dell’altro da sé. E dunque, nella sua verità. O anche, indipendentemente dalla rete di funzioni determinanti ed a priori cui è fatto ogni soggetto. Vale a dire: indipendentemente dalla fi nitezza dei riferimenti di cui ogni volta possiamo ‘realmente’ servirci nell’opera di determinazio- ne di questa o quella realtà.

La cosa, insomma, non appare mai per quel che essa sarebbe in se stessa; e dunque per quel che essa potrebbe dire, di sé, solo in riferimento alla totalità delle sue “determinanti”. Per quel che essa sarebbe, cioè, là dove, con la medesima, riuscissero ad appa- rire tutte le supposte “condizioni di determinazione”.

Eppure, per Kant, questa cosa ‘incondizionata’ (in quanto comprensiva di tutte le sue “determinanti”) è la stessa che sta davanti a noi nella forma fi nita (e per ciò stesso menzognera) che di norma riconosciamo, ovunque ci capiti di incontrare qualcosa che ci muova alla rifl essione.

Ma che, purtuttavia, non abbiamo mai la sensazione di co- noscere davvero, nella “sua” verità. Anche perché l’assolutez- za dell’orizzonte in cui ci si ritrova comunque inscritti sembra destinato a presentarsi ogni volta, nella cosa e in relazione alla cosa, al modo di una vera e propria assolutizzazione delle sue (della cosa) più evidenti determinatezze.

Offrendosi così ad una inguaribile, nonché nostalgica, soli- tudine, che ci vedrebbe ‘soli’ e costretti a farci testimoni di vere e proprie, nonché autentiche, voci assolute dell’assoluto.

Poi l’idealismo ci avrebbe costretti a riconoscere che nulla, in verità, esiste al di fuori del pensiero che pensa e delle sue sempre determinate espressioni. E che quella tra pensiero e realtà si costituisce come una relazione di perfetta cor-rispon- denza o identità “mediata”.

M. Donà - Il realismo come problema fi losofi co 67 Ma cosa signifi chi questo per l’idealismo è cosa tutt’altro che scontata. Potremmo discuterne per pagine e pagine… così come potremmo discutere per ore e ore nel tentativo di capire cosa comporti davvero per Descartes il riconoscimento della problematicità di quel che sappiamo, del mondo.

Le questioni chiamate in causa da dispute intorno alle quali ci si continua ad accapigliare da secoli sono evidentemente assai più complesse di quanto sembra poterci far intendere qualsivo- glia schematizzazione di impronta meramente manualistica.

Non è certo un caso che, sullo statuto di attendibilità pos- seduto da quel che sembra esistere al di fuori di noi, ma che in verità non si sa mai bene (ancora oggi) come e dove esista, si continui a discutere da secoli.

Di sicuro, comunque, c’è almeno questo: che si tratta di un tema decisivo, intorno al quale saranno destinate a scontrarsi ancora a lungo le più diverse prospettive fi losofi che. Onore al merito, dunque, a Maurizio Ferraris per aver avuto il coraggio di riportare al centro dell’attenzione la questione relativa al senso della realtà.

Fatto sta che la discussione s’è di recente notevolmente al- largata, ed ha coinvolto fi nanche un fi losofo che potremmo defi nire sostanzialmente estraneo alla contrapposizione tra sostenitori del realismo e alfi eri dell’ermeneutica: ossia, Ema- nuele Severino.

Molte le voci che si sono nel frattempo aggiunte a que- sto intenso e appassionato dibattito; penso ad esempio a un bell’articolo di Luca Taddio, uscito sulle pagine del “Corriere della Sera” e volto a mettere in rilievo alcuni interessanti ele- menti di consonanza tra la posizione di Severino e quella di Ferraris.

2.

La vita è un sogno, sosteneva qualcuno in piena epoca ba- rocca; ma anche se la vita fosse un sogno, potremmo rilevare, bisognerebbe comunque presupporre una realtà ‘altra’ dalla vita; che, sola, ci autorizzerebbe ad attribuire alle cose della

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quotidianità una natura sostanzialmente onirica (anche il fi lm Matrix sarebbe tornato su tale questione).

D’altro canto, va anche rilevato: e se tutto fosse interpretazio- ne, di cosa potrebbe mai dirsi interpretazione, l’interpretazione?

Il fatto è che nessun serio rappresentante dell’ermeneu- tica potrebbe mai credere che la convinzione secondo cui “tutto sarebbe interpretazione” implichi la rinuncia a conside- rare ‘reale’, anzi realissima, quanto meno l’interpretazione. Ché, se anche tutto fosse interpretazione, dovremmo pur ri- conoscere che almeno l’interpretazione sia reale. Altrimen- ti, si tratterebbe del semplice sogno di un visionario. Insom- ma, se tutto fosse interpretazione, almeno l’interpretazione dovrebbe essere reale.

Ragion per cui, neppure l’ermeneuta più incallito può ritenere che non vi sia realtà. Che tutto, cioè, sia opinio- ne infondata e priva di consistenza (anche perché, per po- ter riconoscere qualcosa come privo di consistenza si dovrà comunque aver nozione di qualcos’altro di cui l’opinione infondata non saprebbe appunto rintracciare le caratteristi- che fondamentali).

In ogni caso, chi potrebbe mai negare il fatto che spesso, in forza di una semplice interpretazione, molte persone fi nisco- no per perdere fi nanche il lume della ragione? Si pensi agli effetti devastanti (e realissimi, dunque) che può produrre un sentimento come la gelosia; fondata quasi sempre su un’inter- pretazione in base alla quale, a determinati atteggiamenti, ven- gono attribuiti dei signifi cati in palese contrasto con quello esplicitamente riconosciuto dal soggetto dei medesimi.

Probabilmente, va detto che, a questo punto, tutto divente- rebbe più facilmente decifrabile se modifi cassimo radicalmen- te i termini della questione.

Forse, cioè, non si tratta di credere o meno all’esistenza di una realtà ‘altra’ dalle mie convinzioni intorno alla realtà.

E d’altra parte anche la dimostrazione che dovesse riuscire a mostrarci in modo incontrovertibile che c’è davvero una realtà al di là del mio esprimermi intorno ad essa, sarebbe comunque un modo di esprimersi intorno alla realtà. Da questo punto di vista, Severino ha perfettamente ragione.

M. Donà - Il realismo come problema fi losofi co 69 Insomma, è quanto meno azzardato credere di poter dimo- strare (cioè, di mostrare con il pensiero) l’esistenza di una real- tà altra dal pensiero.

3.

E se provassimo dunque a sostituire l’alternativa ‘realtà-in- terpretazione’ con il confl itto tra potenza e impotenza del pen- siero?

Come potremmo infatti non distinguere ciò di cui potrò prima o poi essere in grado di rendere ragione da ciò di cui non potrò invece mai rendere, in alcun modo, ragione?

Insomma, caro Maurizio, cari amici e colleghi, io abbando- nerei senza alcuna titubanza il lessico sin qui utilizzato nel di- battito intorno al nuovo realismo.

Il fatto è che qualcosa di non riducibile all’interpretazione esiste, eccome! Ma non tanto perché l’interpretare sia in grado di rendere ragione della sua (di questo qualcosa) irriducibilità. Di tale irriducibilità, infatti, il pensiero può al massimo prendere atto, ma mai “indicare la ragione”. Altrimenti non si trattereb- be di una reale “irriducibilità” al pensiero e al suo logos.

E se defi nissimo “interpretazione” tutto ciò di cui fossimo in grado di rendere ragione?

Tutto ciò di cui il pensare-interpretare fosse in grado di ren- dere ragione iuxta propria principia.

Ma quali sono i principia che consentono al pensare di rende- re ragione di qualcosa… o meglio, di questo o quell’interpreta- to? Uno, innanzitutto: quello che Aristotele defi nisce appunto ‘principio primo’: o anche, principio di non contraddizione.

E di cosa, allora, il pensiero, fondato sul principio di non contraddizione, non sarebbe in grado di rendere ragione? Del fatto imprevisto che potrebbe sempre capitarmi? Della valanga che potrebbe travolgere un intero paese? Dell’eventuale cadu- ta di un meteorite? Del fatto che la sua compagna sia stata ca- pace di tradirlo con il suo migliore amico?

No… sarebbe puerile chiamare in causa fatti di questo ge- nere; che, in linea di principio, posso sempre propormi di

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ricondurre (magari, prima o poi, anche riuscendoci) ad una qualche, per quanto incerta, ragione. Per quanto possa non sentirmi ancora in grado di farlo.

Insomma, il mio non saper rendere ancora ragione del loro accadi- mento può sempre corrispondere ad un impedimento acciden- tale e dunque ‘temporaneo’. Che non indicherà mai una vera e propria “impossibilità”.

D’altronde, nessun limite fattuale potrà essere considerato (dal pensiero) “defi nitivo” e insuperabile.

Ragion per cui il vero limite insuperabile (del pensiero) va cer- cato in tutt’altra direzione. E se si vuole chiamare tale limite “realtà”, lo si faccia pure! basta intendersi.

Eccolo, dunque, l’unico limite sicuramente insuperabile per il pensiero – peraltro costituito da qualcosa che non sta affatto al di là del pensare (costituendosi ogni al di là come un “pensa- to” – e solo quello disegnato dal “pensare” come un orizzonte all’interno del quale, sempre in base al principio di non contraddi- zione, si potrà essere al di qua piuttosto che al di là, e quindi sempre altri da “altro”). Ritrovandosi il medesimo, piuttosto, inviolabilmente custodito nel cuore più profondo del pensare medesimo. Ossia, nel suo ‘principio primo’.

Finendo addirittura per coincidere con quest’ultimo. Sì, perché il principio primo, proprio in quanto ‘vero’, e per ciò stesso inconfutabile (infatti, come ci ha mostrato una volta per tutte Aristotele, chiunque voglia proporsi di negarlo, è co- stretto a presupporlo, sì da rendere ineludibilmente apparente la sua “negazione” – secondo la struttura propria dell’elenchos), non potrà mai venire in alcun modo giustifi cato dal pensiero.

Solo esso, dunque, non ha altri, o nemici, da cui distinguer- si. Non ha cioè un “altro” rispetto a cui determinarsi appunto nella forma della non-contraddizione.

Ma, se la “contraddizione” è impossibile (infatti, per porsi come contraddizione, la contraddizione è costretta a “distin- guersi” – non contraddittoriamente – dalla non contraddizione), neppure la non-contraddizione potrà mai determinarsi; neppure essa, cioè, riuscirà a distinguersi dalla contraddizione.

Perciò “sarà costretta a negarsi”. Negando in ogni caso di essere quel che dice d’essere.

M. Donà - Il realismo come problema fi losofi co 71 Perché le manca l’altro rispetto a cui determinarsi – d’altron- de, è proprio essa la legge che impone a tutto, anzi a tutto quel che esiste ed è in qualche modo reale, di distinguersi da qual- cosa d’altro, ossia da qualcosa che, solo in quanto ‘altro’, può valere come sua determinante.

In modo tale che fi nanche la “sua” (del principio di non contraddizione) negazione sia costretta a conformarsi alla legge in cui tale principio per l’appunto consiste. E dunque a non “distinguersi” dal medesimo.

Ma, se così stanno le cose, il principio del logos non si rappor- ta mai alla ‘contraddizione’.

Ché, quest’ultima, proprio distinguendosi dal principio, fi - nisce per conformarsi al suo dettato – sì da non costituirsi mai al modo di una vera e propria “contraddizione”.

Ecco perché, proprio in quanto principio di tutto, la legge della non-contraddizione non sarà mai principio di tutto. Da cui una radicale aporia.

D’altronde, non riuscendo mai a determinarsi come richiesto dal suo stesso nomos – tanto potente da costringere a sé qual- sivoglia contraddizione… sino a ritrovarsi privo di una reale “alterità” in relazione a cui misurare la propria determinatezza –, ossia, proprio in quanto principio intrascendibile, la “non- contraddizione” non potrà che ‘negare’ la stessa intrascendibili- tà destinata a dirne (vedi Gentile) la più vera natura.

Essa, cioè, non riesce a normarsi, perché, a mancarle, è pro- prio quell’altro “contraddittorio” che, solo, potrebbe consentir- le di costituirsi come principio di non contraddizione piuttosto che come principio di contraddizione.

Ecco, solo o innanzitutto di questa “aporia”, il logos fondato sul “principio di non contraddizione” non potrà mai rendere ragione. Il logos, cioè, non potrà mai rendere ragione innanzitutto della propria determinatezza; in quanto non sarà mai quella da cui il logos continuerà comunque a credere di essere costituito. Ecco, proprio questo fa, della “metafi sica”, ossia del sapere che guarda ai principi primi – quelli non riconducibili alla for- ma determinata propria di ogni realtà –, l’unica forma di cono- scenza in grado di farci incontrare una realtà “non riducibile”, in alcun modo, a “interpretazione”.

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Ossia, una realtà di cui il pensiero non potrà mai rendere ragione, se non altro in quanto proprio essa responsabile in pri- mis della più perfetta indistinguibilità tra il suo (del logos o pen- siero) trionfo assoluto (come quello espresso dalle prospettive ermeneutiche, fi nanche pensate nella loro più alta declinazio- ne, come quella gentiliana) e il suo irredimibile naufragio.

Un naufragio che ci rende necessariamente esposti ad un “reale”, che, per quanto lo si possa “pensare”, non si lascerà mai spiegare dal pensare medesimo, o, quanto meno, dai suoi comunque ‘infondati’ princìpi.

Riccardo Martinelli (Filosofo, Università di Trieste)

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