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UN FILOSOFO NEL TEMPO DELLA POST-FILOSOFIA

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 47-65)

In questa nota propongo di prendere in considerazione Maurizio Ferraris come una “fi gura” esemplare dello Spirito del nostro tempo. Non parlerò quindi della sua proposta fi lo- sofi ca, ampiamente studiata e dibattuta, quanto di quello che mi sembra il signifi cato di Maurizio Ferraris in quanto intellet- tuale/fi losofo nell’epoca della post-fi losofi a. Cominciamo con una defi nizione: la post-fi losofi a è quell’epoca dello Spirito in cui il valore della fi losofi a non è più scontato. In altri momenti della storia la fi losofi a, e i fi losofi , avevano valore di per sé; una certa fi losofi a o un certo fi losofo poteva essere fortemente criticato, e tuttavia questa rimaneva una critica ‘locale’, che in nessun modo avrebbe coinvolto l’intera fi losofi a come impresa conoscitiva ed etica. Questo non signifi ca che la fi losofi a fosse necessariamente considerata la più nobile attività umana, né la più importante; il punto è che la fi losofi a doveva occuparsi di tante cose, ma non di giustifi care la propria esistenza. Oggi non è più così. Direi al contrario che la preoccupazione ‘fi loso- fi ca’ principale del tempo della post-fi losofi a è invece il tentati- vo, sempre più faticoso e affannoso, di convincere i non fi losofi che la fi losofi a ha buone ragioni per esserci.

Faccio qualche esempio, per provare a spiegare meglio questa ipotesi. Da qualche anno è stato esteso anche ai saperi umani- stici, e in particolare alla fi losofi a, il principio in base al quale i “prodotti” dei professori universitari di fi losofi a - libri, articoli, atti di convegno – devono essere valutati. Non starò qui a di- scutere di quanto sia giusto, ed effi ciente, il meccanismo della valutazione, il punto è che un libro di fi losofi a, ad esempio, è ora un “prodotto”, che come una lavatrice o un’estrazione dentaria,

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può e deve essere valutato e comparato con altri “prodotti” simi- li. Non è importante sapere come si fa questa valutazione, quello che conta è che anche un lavoro fi losofi co è considerato un pro- dotto come un altro. Una lavatrice è migliore di un’altra, perché consuma meno, è più veloce, costa meno della concorrenza, e così via. Un libro di fi losofi a ‘vale’ se viene pubblicato in una col- lana ‘prestigiosa’ di un editore importante, se la scelta della sua pubblicazione è stata decisa da un comitato anonimo di esperti, e vale ancora di più se è scritto in inglese. Ogni criterio vale quanto vale, se ne può discutere, rimane che ormai un libro di fi losofi a è un “prodotto”. La stranezza di questa defi nizione di- venta evidente se si prova ad applicare questa denominazione a libri come La Repubblica di Platone o la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Vorrei che fosse chiaro che non sto sostenendo che l’i- dea sia sbagliata, perché in un mondo in cui tutto viene valutato, dall’operatore del call center al fornitore dell’energia elettrica do- mestica, non si vede perché la fi losofi a dovrebbe rimanere fuori. Che poi questo sia un bel mondo è tutta un’altra questione, ma non di questo ci occupiamo in questa nota.

Il problema, però, è proprio questo, in fondo. La domanda fi losofi ca sarebbe: è giusto un mondo in cui tutto viene valu- tato, ossia un mondo in cui tutto, compresi gli esseri umani e i libri di fi losofi a, ha un prezzo? Ma questa è la domanda fi losofi ca che è sempre più diffi cile porsi, proprio perché i fi losofi sono troppo occupati a scrivere libri che possano essere ben valutati, e un libro è valutato bene se non si pone domande di questo tipo. In effetti il sistema di valutazione dei “prodotti” fi losofi ci è congegnato in modo tale da rendere sempre più diffi cile fare il fi losofo. Ad esempio, ogni “prodotto” deve rientrare in uno schema classifi catorio molto rigido, che forse vale per la ricerca tecnologica, ma è davvero poco adatto per il lavoro fi losofi co, che invece si muove fra discipline e saperi diversi. Ecco allora il dilemma: si pubblica per ricevere un buon punteggio nella valutazione, oppure si scrive un buon libro di fi losofi a? Il para- dosso è che sempre più il raggiungimento del primo obiettivo allontana il raggiungimento del secondo, e viceversa. Ma non si tratta solo di un problema di valutazione. Quando ero studen- te universitario di fi losofi a, fi ne anni ’70 primi anni ’80, i miei docenti non si preoccupavano in nessun modo degli studenti.

F. Cimatti - Un fi losofo nel tempo della post-fi losofi a 49 Ad esempio, mettevano in programma libri spesso introvabili, e le loro lezioni erano il più delle volte incomprensibili, appunto perché un fi losofo non doveva preoccuparsi di farsi capire, pro- prio perché il valore della sua fi losofi a era intrinseco; se io, ma- tricola universitaria, non capivo, erano problemi miei. Ricordo un professore di logica che scriveva alla lavagna linee e linee di complicatissime formule, e poi concludeva: “la dimostrazione è triviale”, quindi dovevamo trovarla noi, e la lezione fi niva lì. Che poi gli studenti che superassero l’esame fossero pochissimi non era un suo problema, perché, ancora una volta, la fi losofi a valeva di per sé, indipendentemente dagli studenti. A quel professore non veniva in mente il pensiero che avesse degli obblighi verso la società che gli pagava lo stipendio, attraverso le tasse, e che gli permetteva di scrivere libri spesso pubblicati da editori che ricevevano un fi nanziamento dalla stessa università per essere pubblicati. Se la fi losofi a vale di per sé, tutto questo non conta.

Un altro segnale dello stato precario della fi losofi a è da ve- dere nei continui rimproveri che gli stessi fi losofi muovono al proprio lavoro, considerato come astratto e lontano dal quel- lo più strettamente scientifi co (se non direttamente tecnico). In particolare è il rapporto con la scienza ad essere sentito da molti fi losofi come problematico; l’accusa è sempre la solita, la fi losofi a non è (abbastanza) scientifi ca, e solo recuperando uno stretto rapporto con la scienza potrà mantenere un ruolo nel sistema della conoscenza. Che gli scienziati non abbiano alcun bisogno di una fi losofi a siffatta non passa mai per la testa a questi infelici fi losofi . Rimane il fatto che anche da questo punto di vista molti fi losofi ritengono che sia possibile giusti- fi care l’esistenza della fi losofi a solo accettando una posizione subordinata rispetto a quella della scienza.

Ancora pochi anni fa la situazione era del tutto rovesciata. Ma tutto questo è, appunto, il passato. Ormai la fi losofi a non viene più sentita come qualcosa che abbia un valore intrinse- co. Certo, ci sono ancora moltissimi fi losofi che non avvertono questo passaggio, un passaggio davvero “epocale”, e che con- tinuano a fare fi losofi a come si poteva fare in Italia negli anni ’50. Ma il fatto che non se ne siano accorti non signifi ca affatto che il cambiamento non ci sia stato, signifi ca solo che non se ne sono accorti. I loro allievi, se ne hanno, se ne sono già ac-

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corti, e hanno capito che bisogna trovare un modo diverso di fare fi losofi a, se si vuole che la fi losofi a, e i saperi umanistici in generale, rimangano nelle università. Un discorso a parte è per coloro, sono pochi ma ci sono, che fanno fi losofi a senza stare nell’università. Il caso più importante è quello di Giorgio Agamben (che è stato professore universitario solo per un bre- ve periodo), ma si tratta appunto di un caso straordinario, che non può essere preso come punto di riferimento.

Per tutti gli altri si tratta di capire come continuare a fare fi lo- sofi a nel tempo della post-fi losofi a. Il caso di Maurizio Ferraris, da questo punto di vista, è esemplare. La sua carriera accademica comincia come quella di un fi losofo “classico”, che si occupa di temi fi losofi ci tradizionali, pensati per un pubblico di fi losofi di professione. Ma Ferraris capisce che questo modo di fare fi losofi a non è più attuale, non intercetta più lo spirito del tempo. In effet- ti è sempre più evidente che un fi losofo, oggi, per farsi conoscere e leggere, deve sempre più diventare un personaggio pubblico. Nel ’900 l’Italia ha già conosciuto due fi gure di questo tipo, Be- nedetto Croce, e Umberto Eco. Ma il primo è diventato un per- sonaggio pubblico proprio in quanto fi losofo-fi losofo (al punto che Croce non ha mai insegnato all’Università), nel tempo in cui la fi losofi a era ancora un valore di per sé. Il caso di Umberto Eco è diverso, la post-fi losofi a era già cominciata, anche se in forme molto meno accentuate di quelle attuali. Il punto è che Eco è un intellettuale universale, è anche un fi losofo, ma certamente non solo un fi losofo (lo straordinario successo dell’Eco romanziere lo conferma). Qui interessa invece il fi losofo-fi losofo. Maurizio Fer- raris capisce prima e molto meglio di tanti altri che fare fi losofi a oggi signifi ca diventare anche una fi gura pubblica, che parla e interviene sui giornali, per poi approdare in televisione. La tesi che sostengo è che Ferraris è un importante fi losofo del nostro tempo non nonostante il suo essere diventato anche una fi gura televisiva – come pensa chi invidia il suo successo – bensì proprio perché ha portato la fi losofi a fi n dentro la Tv. Il Ferraris televisivo, cioè, non è una aggiunta al Ferraris fi losofo, ma la continuazio- ne della fi losofi a con altri mezzi. Mi permetto qui una parentesi personale, perché anche io, sebbene in modo meno evidente, da molti anni lavoro anche “fuori” della fi losofi a, per il programma

F. Cimatti - Un fi losofo nel tempo della post-fi losofi a 51 radiofonico Fahrenheit, di Radio3. Proprio come conduttore di Fahrenheit ho seguito il festival di Filosofi a di Modena, Carpi e Sas- suolo praticamente dall’inizio (l’esistenza stessa di un Festival di Filosofi a si può collegare alla “crisi” della fi losofi a, perché rientra fra le iniziative necessarie per riportare attenzione, cioè pubblico, audience, sulla fi losofi a). In tutti questi anni ho potuto constatare quanto il tipico professore di fi losofi a italiano non sia abituato a parlare per farsi capire (problema peraltro piuttosto diffuso fra gli intellettuali italiani). La differenza maggiore è con gli studiosi stranieri, in particolare statunitensi, che senza bisogno di essere esortati né incoraggiati parlano da subito con lo scopo di farsi ascoltare e capire da tutti. Un solo esempio, per chiarire il punto: a Modena la postazione di Fahrenheit è all’aperto, e durante le di- rette è presente un pubblico. Mentre non è mai successo di dover dire ad un ospite straniero di guardare nella direzione del pubbli- co, il tipico professore italiano si rivolge al suo collega, come se il pubblico, appunto, non ci fosse. Non si tratta di maleducazione, bensì di un’eredità del tempo in cui il lavoro fi losofi co era princi- palmente rivolto alla fi losofi a, non agli ascoltatori. Il fi losofo par- la, o meglio parlava, al fi losofo.

Certo, accostare la fi losofi a al pubblico, all’audience, all’esi- genza di farsi capire, il rischio è evidente: la fi losofi a smette di essere fi losofi a-fi losofi a, e diventa qualcos’altro. Perché, lo sappiamo, il fi losofo in televisione è una voce come le altre, come il caso umano e la escort pentita, il prete e il politico, bla bla bla. Il rischio è questo, nessuno lo ignora. Ma non è l’unico rischio, c’è anche quello contrario, di una fi losofi a, che per timore di perdere la sua purezza, smette semplicemente di es- serci, diventando una disciplina per eruditi, o per ricchi fi gli di americani, che prima di dedicarsi alle cose serie, si permettono di ‘spendere’ un paio di semestri sulla cultura classica.

Maurizio Ferraris è forse il primo fi losofo italiano che ha com- preso che per fare fi losofi a, nel tempo della post-fi losofi a, non basta più essere un fi losofo e parlare agli altri fi losofi , occupan- dosi dei fi losofi del passato. Occorre diventare una fi gura del tempo, ossia una fi gura pubblica. La televisione è la continua- zione con altri mezzi della Fenomenologia dello spirito. Perché cosa c’è, in fondo, di più reale di una immagine televisiva?

Giorgio Derossi (Filosofo)

G

IORGIO

D

EROSSI

PRIMI INCONTRI

In speciali occasioni come questa la memoria risveglia quasi costrittivamente antichi ricordi “rivelatori”, sopiti ma non di- smessi, di emblematici “primi incontri”. Ne rievocherò alcuni in ordine cronologico.

Giovane studente, all’inizio del mio primo anno del Corso di Laurea in Filosofi a nella Facoltà di Lettere dell’Universi- tà di Trieste mi stavo avvicinando al vecchio palazzo di via dell’Università 7, dove essa aveva la sua sede, con l’ansiosa cu- riosità del neofi ta alla sua prima “lezione”, quando fui colpito dalla visione di un prete magro di non alta statura, racchiuso in una severa veste talare, che scendeva da una via laterale con passo rapido e come completamente assorto nei propri pensieri. Ritenni lì per lì che fosse uno dei sacerdoti residenti nel non lontano Seminario, ma subito dopo lo rividi seduto in cattedra e lo ascoltai esporre, con voce sommessa ma vibran- te, il programma del Corso di Storia della fi losofi a imperniato sulla “genesi del criticismo kantiano”. Cominciai così a riceve- re da Mariano Campo, uno dei massimi studiosi di Kant come venni poi a sapere, il mio “battesimo” kantiano, a cui seguì un anno dopo la “confermazione” impartita da un altro studioso di non minore vaglia: Vittorio Mathieu, “chiamato” da Torino dopo la prematura scomparsa di Francesco Collotti, siciliano come Campo, e uno dei più rigorosi custodi dell’ortodossia gentiliana, com’era apparso con solare evidenza nel suo ul- timo Corso di Filosofi a teoretica dedicato all’intransigente confutazione dell’”eterodosso” Ugo Spirito. Mathieu mi col- pì per la sua diversità da Collotti, sia esteriore – era di età giovanile e proveniente dall’altro capo d’Italia, dal Piemonte

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savoiardo – sia culturale e fi losofi ca, testimoniata dal Corso centrato su H. Bergson, a cui aveva dedicato approfonditi stu- di non privi di sottili analisi critiche. In seguito però emerse nei suoi corsi e seminari la sua profonda conoscenza di Kant, che risalta in maniera magistrale in una nutrita serie di ben noti e rinomati studi.

Così il “cerchio magico” kantiano, persino geografi co (dalla Sicilia al Piemonte) e generazionale, sembrava chiudersi. Ri- maneva però aperto ai miei occhi ancora “ingenui” un varco, e proprio all’inizio della Critica della Ragion pura, dove le te- matiche fondamentali della costituzione degli “oggetti”, dell’a- priori, della “realtà empirica”, dei “fenomeni”, del “noumeno”, ecc. s’intrecciano in maniera tanto stimolante quanto schema- tica. Un varco aperto soprattutto dalla mancata rilevanza in tale intreccio della “percezione” (Wahrnehmung). Cominciavo infatti a familiarizzarmi con la “percezione” focalizzata in chia- ve fenomenologica soprattutto da M. Merleau-Ponty e nell’am- bito della percettologia teorico-sperimentale d’ispirazione “ge- staltica”. Mi avevano aperto gli occhi al riguardo – è il caso di dirlo – le lezioni e le osservazioni in particolare di G. Kanizsa e di P. Bozzi, fra i più acuti e innovativi rappresentanti della “fe- nomenologia sperimentale”, non a caso considerata in seguito sempre più un valido supporto nell’elaborazione fi losofi ca di un “nuovo realismo”.

E così arriviamo a un altro “primo incontro”, di molto suc- cessivo, quello con Maurizio Ferraris, che vidi appunto per la prima volta percorrere, come a suo tempo M. Campo, via dell’Università anche lui molto serio e concentrato – così alme- no sembrava dal suo lento procedere a capo chino, come chi cerca agostinianamente la verità “in interiore homine”. Questa sua apparizione mi ricordava anche quella sopra evocata di V. Mathieu, per l’età giovanile e la provenienza torinese. E mi ricordava pure un altro comune amico torinese, G. Vattimo, fautore del “pensiero debole”. Sul versante epistemologico, quest’ultimo orientamento sembrò in seguito, a me come ad altri, abbastanza compatibile per certi versi col falsifi cazioni- smo popperiano che in defi nitiva fonda il metodo e il sapere scientifi ci su un’appropriata “discussione critica” delle teorie,

G. Derossi - Primi incontri 55 in contrasto con la presunta certifi cazione procurata dalla “ve- rifi cabilità” neopositivistica. Ad alcuni fi losofi d’ispirazione religiosa un simile ridimensionamento del pensiero “forte” scientifi co appariva funzionale a un rafforzamento della com- ponente fi deistica della religione: sia di una fede “forte” sia anche, al contrario, di una fede a sua volta “debole”, di un “cre- dere di credere”, per dirla con lo stesso Vattimo.

I prepotenti sviluppi della scienza moderna e contempora- nea apparivano diffi cilmente compatibili con l’idealismo e il neoidealismo postkantiani, come aveva messo in chiaro – alme- no così mi era sembrato – il gentiliano Collotti nell’ultimo suo Corso intitolato “Filosofi a e scienza in U. Spirito”, nel quale aveva cercato di confutare con infl essibile intransigenza le tesi “eterodosse” del fi losofo calabrese, che avevano avuto allora un notevole seguito. Sicché, come possibile alternativa all’in- terpretazione “debole” di tali sviluppi sembrava doversi ripro- porre ancora una volta quella kantiana. Ma l’eco degli ultimi Zurück zu Kant! appariva ormai affi evolita se non spenta, pur es- sendo stata fatta riecheggiare ancora da qualche esponente del neopositivismo e marginalmente da Popper e da altri. Zurück zu Kant!: questa patetica invocazione era risuonata spesso nei Corsi di M. Campo dedicati alla corrente dei Neokantiani (i vari Cohen, Natorp, Cassirer, ecc.) affermatasi nella seconda metà del secolo XIX. In particolare mi aveva attratto l’articola- to e ingegnoso tentativo operato da E. Cassirer di dimostrare la compatibilità del criticismo con i metodi e i risultati delle scienze sia fi siche sia umanistiche. Uno sforzo meritorio e am- mirevole, che però era andato a incagliarsi sullo scoglio dell’”a priori”, delle “categorie” che – per quanto ridimensionate – risultavano ineluttabilmente ostacolare piuttosto che favorire una incisiva indagine con nuovi più effi caci attrezzi concettuali e sperimentali (come p.es. i Gedankenexperimente fruttuosamen- te impiegati da Mach, Einstein, ecc.) sugli inaspettati, ardui problemi emersi dagli avanzamenti della ricerca stessa.

Tentativi meritori, quelli dei Neokantiani, dal punto di vista di un “pensiero forte” inteso, sulle orme di Kant, a consolidarsi non in opposizione ma in collaborazione con il pensiero scien- tifi co. La teorizzazione kantiana peraltro era stata presto giu-

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dicata “debole” dagli idealisti in quanto basata sull’infondato presupposto del caput mortuum costituito dalla “cosa in sé”. La fondazione “trascendentale” del sapere e del rigore scientifi ci era stata pagata a caro prezzo, con l’obbligata ammissione di una “realtà” innegabile ma inconoscibile. Come sottolineato da Kant, nella scienza i principi e i concetti fondamentali de- vono potersi applicare all’esperienza sensibile: ma sulla “cosa in sé”, quale causa delle sensazioni, la scienza non ha né può avere alcuna presa sensibile. Il rimedio idealistico consisterà – com’è ben noto – nel sostenere che la presa sensibile può e deve essere sostituita da quella “razionale”, secondo il sintetico dettato hegeliano: “ il reale è razionale e il razionale reale”. Il pensiero vivo, dialettico, toglie “ragion d’essere” al caput mortu- um della cosa in sé, perché l’unica, totale, realtà è il pensiero

Nel documento La reale novità del Nuovo Realismo (pagine 47-65)

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