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La reale novità del Nuovo Realismo

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Academic year: 2021

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IN DIALOGO CON

MAURIZIO FERRARIS

A cura di Luca Taddio

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MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Isbn: 9788857534459 © 2016 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935

In copertina opera di Riccardo De Marchi, “testo bruciato”, 2011. Progetto Grafi co: Marco Brollo

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INDICE

I. LASVOLTAREALISTADELLAFILOSOFIA 9

Da Via del Lazzeretto Vecchio verso un nuovo realismo di Luca Taddio

II. DOCUMENTALITÀ: VITAEISTITUZIONE 25

di Petar Bojanić

III. L’OSTERIA 33

di Paolo Bozzi

IV. STATODILEGITTIMAEMERGENZA 41

di Leonardo Caffo

V. UNFILOSOFONELTEMPODELLAPOST-FILOSOFIA 47

di Felice Cimatti

VI. PRIMIINCONTRI 53

di Giorgio Derossi

VII. ILREALISMOCOMEPROBLEMAFILOSOFICO 65

Argomenti a favore di un’unica irriducibile ‘realtà’

di Massimo Donà

VIII. DIBICENTENARI, PARRICIDIEADDII:

GOODBYE KANTDI MAURIZIO FERRARIS 75

di Riccardo Martinelli

IX. QUEIMERCOLEDÌA TRIESTE 83

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X. ILREALISMOEILMITODELREALISMO 89

di Emanuele Severino

XI. LAREALENOVITÀDEL NUOVO REALISMO 99

di Enrico Terrone

XII. AILIMITIDELPOSSIBILE 117

Achille C. Varzi

POSTFAZIONE 135

Un uomo di molti libri di Mario De Caro

ILLUSTRAZIONE 139

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Luca Taddio (Editore e Filosofo)

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L

UCA

T

ADDIO

LA SVOLTA REALISTA DELLA FILOSOFIA

Da Via del Lazzaretto Vecchio

verso un nuovo realismo

La questione del realismo risale alla mia primissima forma-zione a Trieste, in via del Lazzaretto Vecchio, presso il Dipar-timento di Filosofi a. Torno con la memoria a quegli anni per ricostruire le ragioni che mi hanno portato a dialogare attorno al Nuovo realismo con Maurizio Ferraris. Cominciai a maturare una posizione realista durante il mio secondo anno di Filosofi a – era l’anno accademico 1996-1997 – quando un amico, Mar-cello Losito, mi condusse a lezione per la prima volta da Paolo Bozzi. Marcello, più di me, aveva “quel pallino”. Il primo anno avevo frequentato il corso di Filosofi a contemporanea tenuto da Pier Aldo Rovatti, con Gianni Vattimo additato come il più signifi cativo esponente della corrente cosiddetta del “Pensiero debole”. Da Rovatti avevo appreso molte cose; ancor oggi gli sono debitore di un certo modo di intendere la fenomenologia (e di problematizzare la fi losofi a), ma soprattutto della cono-scenza di autori quali Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty – senza dimenticare Paci e Melandri, a cui sono ancora legato. Tuttavia, le premesse teoriche del Pensiero debole e del Post-modernismo non mi hanno mai del tutto persuaso.

Inconsciamente, penso di aver sempre ricercato, prima nell’arte e poi anche nella fi losofi a, qualcosa di stabile: un “as-soluto atemporale” nell’arte e una “verità assoluta” nella fi lo-sofi a, due cose che non esistono: oggi direi che esistono solo relativamente, riferendomi con ciò tuttavia ad una “relatività” che non conduce, come ritiene Vattimo, alla negazione della verità, ma che rappresenta invece l’unico valido presupposto per poter affermare una verità. Qual è questo presupposto? È

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10 In dialogo con Maurizio Ferraris

il sistema di riferimento implicito, nel linguaggio e nell’agire, che si istituisce a partire dal nostro corpo, ossia il primo sistema di iscrizione al mondo che emerge dalla nostra “forma di vita”. Ho cominciato a occuparmi di fi losofi a studiando Heidegger e Nietzsche: al tempo, Ferraris aveva appena concluso la sua esperienza triestina (e postmodernista) e tornava a Torino, dopo aver dedicato l’ultimo corso al concetto di “volontà di po-tenza” in Nietzsche. Sentii parlare a lungo gli studenti di que-sto corso. Ho ricominciato a leggere solo di recente autori che allora avevo abbandonato – poiché ai miei occhi erano i princi-pali responsabili del “relativismo postmoderno” dilagante –, mi riferisco a Nietzsche in primis, ma anche a Freud e Foucault che oggi, con Deleuze, ritengo essere “attrezzi” indispensabili per ripensare il rapporto tra estetica, metafi sica e un nuovo reali-smo. (Il che può sembrare strano, visto che proprio Nietzsche è stato uno dei bersagli del Nuovo realismo).

Ho abbracciato la fi losofi a alla ricerca di qualcosa di assolu-to, ma, quando ero appena al primo anno di università e nem-meno avevo propriamente iniziato a studiarla, già mi veniva presentato un quadro in cui tutto, o quasi, era “soggettivo”. A peggiorare la situazione, il “mondo”, mi si diceva, si era fat-to “favola”: non c’erano più “fatti”, ma solo “interpretazioni”. Dulcis in fundo, sempre all’interno di questo quadro fi losofi co, non c’era più posto per la “verità”: essa se ne era andata via, sparita assieme alle certezze e alla stabilità che portava con sé. “Una volta”, raccontava Rovatti, “avevo una tartaruga chiamata ‘scienza’; un giorno la lasciai in giardino… Da allora la cercai a lungo, ma la tartaruga se n’era andata – e non la ritrovai più”. L’immagine era perfetta; non applaudire a questo delizioso quadretto signifi cava non capire nulla di fi losofi a. Ciò impli-cava necessariamente il doversi rifugiare nella fi losofi a della scienza o lo sposare la fi losofi a analitica. Per me, insomma, si-gnifi cava fi nire dalla padella alla brace.

Come probabilmente avviene a molti di coloro che si iscri-vono al corso di laurea in Filosofi a, tra i miei pensieri di allo-ra albergavano domande sul senso della vita, o meglio, sulla mancanza di senso nella vita. Domande, queste, tipiche di un giovane pseudo-intellettuale vestito di nero e corroso dal

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con-L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 11 sumismo degenere degli anni Ottanta – forse. Sta di fatto che, non essendo mai riuscito ad accogliere nemmeno come ipotesi l’idea di “dio”, ero alla ricerca di un senso stabile nelle cose. Avvicinandomi alla fi losofi a dopo studi artistici, la pretesa di una “razionalità” era un’esigenza fondamentale; non c’era po-sto per me né per la fede né per l’inconscio (anche se, su que-sto secondo punto, sbagliavo). Ritenevo la religione una sorta di “bisogno antropologico” atto a spiegare quanto rimaneva oscuro alla razionalità: il senso della vita e ciò che l’uomo non riesce ad accettare, la propria morte, il suo divenire nulla. Da allora non ho cambiato granché idea, ma l’ignoranza che ac-compagnava i miei primissimi passi all’interno della metafi sica non mi consentiva di vedere con chiarezza e nella sua comples-sità la portata teoretica del pensiero teologico, né di cogliere il profondo nesso fra dubbio, fi des e ratio.

Una naturale propensione allo scetticismo – e poi al pensie-ro critico – mi portapensie-rono a confpensie-rontarmi con i pensatori più diversi, da Platone a Hegel, percorrendo le tortuose strade del pensiero occidentale, e riservando anche qualche breve scorri-banda altrove. Dubbi, solo dubbi mi hanno accompagnato per anni, e anche oggi le cose non vanno poi meglio – ma questa è un’altra storia. Il relativismo di allora mi riconduceva sempre allo stesso punto: Nietzsche sembrava portarmi di fronte a uno specchio per farmi ammettere la cosa più evidente di tutte, os-sia che ogni cosa è relativa, che non esistono “verità assolute”.

Volendo soffermarci ancora un poco in questo amarcord, rammento che un primo incoraggiamento a coltivare queste giovanili e vaghe elucubrazioni esistenziali l’avevo trovato in Rocco Brienza, professore di Filosofi a dell’educazione. Certo, non avevo ancora compreso che per essere dei seri fi losofi bi-sognava specializzarsi e saper rispondere all’interrogativo: “tu di cosa ti occupi?”. In fondo è ovvio – ed era ovvio persino al me di allora – che non c’è mai abbastanza tempo per poter-si occupare di tutto. Il punto è saper cogliere i tratti essenziali – impliciti nel domandare – che giacciono nello sguardo critico d’insieme che da sempre caratterizza la fi losofi a. Se quest’ulti-ma dovesse rinunciare ad una tale visuale, nello stesso istante verrebbe meno la sua ragion d’essere. Rocco ebbe vita facile

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12 In dialogo con Maurizio Ferraris

a incoraggiarmi a continuare a occuparmi di fi losofi a: in essa avevo individuato ciò che deve esprimere quel “tratto essenzia-le” della vita. L’unica cosa certa era che non avrei voluto essere da nessun’altra parte se non lì, a studiare giorno e notte quella materia per certi versi oscura, ma così attraente, fatalmente af-fascinante. Brienza cercava di convincermi che l’università non era il luogo giusto per pensare liberamente, anzi: “Essere intel-ligenti in questo luogo”, ripeteva, “è un difetto”. All’epoca, ero convinto che scherzasse.

Solo pochi anni prima non sapevo nemmeno che cosa fosse la fi losofi a. Da ragazzo volevo fare il regista, un sogno coltivato, fi n da quando avevo dodici anni, tra fi lm, musica e pochi libri – la dislessia aveva ritardato di molto il mio incontro con i libri. Ricordo ancora quando a tredici anni pensai che tutto avrei fatto nella vita tranne che leggere un libro dall’inizio alla fi ne. Ora mi trovo a fare l’editore. Andando ancora più a ritroso con la memoria vi è, tra i vari ricordi di un’infanzia trascorsa felice, una spiacevole esperienza ricorrente: prima di coricarmi mi as-saliva un senso di nulla, l’idea che un giorno sarei stato niente. Prima di addormentarmi, questa rifl essione mi rendeva triste fi no alle lacrime; non avevo nemmeno dieci anni. La stessa in-quietudine, in modo più o meno frequente, mi accompagnò per tutta l’adolescenza: un destino segnato, oppure – e le due cose non si escludono – molto lavoro per uno psicanalista.

La scelta dell’università è sempre problematica, per chiun-que. Pur non essendoci la crisi odierna (correva l’anno 1993), qualcosa già mi suggeriva una certa prudenza, così decisi di iscrivermi a Economia. Poche lezioni furono suffi cienti per realizzare che dovevo cambiare, e scegliere qualcosa di meno noioso. Visitai il Dipartimento di Filosofi a, allora in via del Laz-zaretto Vecchio, un po’ come scusa per saltare la lezione di Analisi 1 e un po’ per avere tempo da spendere a fi anco di un’attraente matricola di Scienze dell’Educazione, incontrata per caso alla stazione. Così mi ritrovai ad assistere alla mia pri-ma lezione di fi losofi a; il tepri-ma, nemmeno a farlo apposta, era sulla nozione di “angoscia” in Heidegger, che descriveva quel sentimento (autentico) di nulla che mi aveva da sempre ac-compagnato sin dall’infanzia. Ne rimasi folgorato. Tutte le

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do-L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 13 mande che, come un’ombra, mi avevano seguito, avevano ora un nome: fi losofi a. Inutile indugiare oltre, quel giorno com-presi con chiarezza che la cosa migliore era… dialogare coi morti: decisi così di cambiare subito corso di studi. Continuai a seguire per intero quel primo corso tenuto da Renato Cri-stin. Dopo quell’epocale disvelamento dell’essere, mi aspettava un’esperienza altrettanto folgorante: l’ora successiva di lezione (o giù di lì) era tenuta da Pier Aldo Rovatti, che quell’anno aveva deciso di dedicare interamente il corso al libro di Mer-leau-Ponty Il visibile e l’invisibile. Sempre nel piano di studi del primo anno decisi di inserire tra i vari esami anche un insegna-mento dedicato a Frege e Wittgenstein: confesso però che feci fatica a capire l’insegnante – e non solo per il dialetto triesti-no cui triesti-non di rado ricorreva per spiegare il fi losofo austriaco. Di fronte a questi giganti del ’900, la giovane studentessa che avevo accompagnato quel primo giorno presso il Dipartimento aveva perso ogni interesse.

Con Merleau-Ponty cominciai a interpretare il concetto di “fede percettiva” non come qualcosa che andava accolto sem-plicemente – per fede, appunto –, bensì come qualcosa di cui il pensiero fatica a dubitare. (Una “fatica” denunciata dallo stesso Cartesio). L’ordine estetico-percettivo è altro rispetto all’ordi-ne dei concetti e a quello del pensiero. Da Paolo Bozzi appresi una fenomenologia diversa da quella “tradizionale” di matrice husserliana. Ritrovai peraltro qualche studente che frequen-tava, su suggerimento di Rovatti, il corso di Bozzi; un fatto, questo, ai miei occhi abbastanza curioso. Era facile riconoscere tra il pubblico questi studenti, poiché essi ponevano sempre le domande più brillanti – e fuori luogo! Per arrivare in studio da Bozzi (dove si tenevano le lezioni) bisognava percorrere un paio di rampe di scale in più, e dalla vecchia sede del Diparti-mento di Filosofi a risalire fi no al dipartiDiparti-mento di Psicologia. Oltre a storie leggendarie di antiche osterie triestine, lì appresi anche la Psicologia della percezione e la tradizione gestaltista. Bozzi fu sia un eccellente psicologo sperimentale che un fi ne fi losofo: le sue lezioni erano una trama intessuta di esperimen-ti e, al contempo, di pura speculazione teorica. Uno dei fi losofi più menzionati a lezione era Wittgenstein. Filosofi a e scienza

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14 In dialogo con Maurizio Ferraris

stavano assieme e facevano parte di un discorso unitario, di un unico ragionamento. Tornai a occuparmi di Merleau-Ponty e dell’ultimo Wittgenstein, quello della fi losofi a della psicologia, ma da un’angolatura diversa; vedevo gli esperimenti della Ge-stalt come esempi, cioè come oggetto di possibile speculazione critica tanto per me, quanto per Wittgenstein e Merleau-Ponty. Fatti oggi come ieri evidenti che guidavano i ragionamenti. Sempre in quel periodo, lessi Mach. Su suggerimento di Boz-zi, diedi un esame con Giorgio Derossi, che allora occupava la cattedra di Filosofi a teoretica, e teneva un corso proprio su Mach ed Einstein; il dialogo e il confronto con Derossi non cessa ancora oggi di essere profi cuo. E nemmeno quello con Mach, a dir la verità. Tutto ciò per dire che la fenomenologia che appresi allora non fu propriamente ortodossa rispetto alla tradizione husserliana, anzi, in seguito sono giunto alla conclu-sione che essa è una vera e propria “fenomenologia eretica”.

La fenomenologia mi servì per analizzare un primo sistema di riferimento, quello corporeo-percettivo, che non mi condus-se a relativizzare ogni cosa, bensì a oscondus-servare le parti sostan-zialmente stabili di una realtà in divenire. Tale dimensione estetico-percettiva possiede una propria Gestalt, ossia forme di auto-organizzazione che non sono date dal pensiero o dal lin-guaggio, bensì già strutturate là fuori, nel mondo direttamente visibile. Un conto è vedere, altro è pensare, come ci insegnava un libro di Kanizsa. Bozzi, infatti, amava ripetere le parole del suo maestro: “se proprio vogliamo che l’occhio pensi, almeno lasciamolo pensare a modo suo”. Lo studio di alcuni fenomeni gettò luce sull’idea che quanto viene direttamente osservato è indipendente dall’attività di pensiero che lo accompagna: l’illusione di Müller-Lyer, il quadrato di Mach, il movimento beta, il triangolo di Kanizsa erano tutti esempi che mi fecero intendere come questi fenomeni avessero sede nel mondo lì fuori e non nella mia testa. L’indipendenza di questi fenomeni dalla mia volontà me li fece riconoscere come “fatti”, fenomeni reali iscritti nel visibile sotto osservazione: una dimensione più ampia e ricca di qualità espressive rispetto a quanto la mera de-scrizione di ciò che risulta fi sicamente presente possa rendere ragione. Qualche anno fa, parlando con Maurizio, mi disse che

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L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 15 per lui, a differenza di Bozzi, il triangolo di Kanizsa è qualcosa di “soggettivo”; ribadii con inguaribile realismo che preferivo parlare di forme di auto-organizzazione che scopriamo nel mondo e non nel “soggetto” (mi pare che poi anche Maurizio abbia convenuto su questo punto). Infatti, non dipende da noi vedere, “in senso stretto”, il triangolo, bensì da rapporti metri-ci propri della confi gurazione. In questo senso il triangolo di Kanizsa c’è: è una proprietà emergente della materia, anche se sul foglio, da un punto di vista fi sico, troviamo unicamente tre cerchi incompleti. Le tre fi gure geometriche non compongo-no necessariamente un triangolo; esso emerge solo in determi-nate condizioni. Tale emergenza dipende dalla confi gurazione e non dall’intenzione del “soggetto”. I cosiddetti “stimoli dista-li” stanno alla realtà, rispetto all’apparenza, così come i foto-grammi della pellicola stanno al fi lm direttamente esperito. La “realtà” del cinema è data da quella presunta “apparenza”: non c’è cinema nella pellicola, così come non c’è alcun triangolo (Gestalt) nello stimolo distale. La realtà del mondo esterno è un fenomeno complesso e non riducibile: possiede un unico piano di senso, quello dell’esperienza diretta. Tale complessità si può pienamente comprendere e ricondurre al concetto di “per-cept-percept coupling” (Bozzi-Epstein). Il “fenomeno” incontrato è anche il luogo delle “interpretazioni”: noi intendiamo gli altri, anche quando affermano qualcosa di diverso, proprio perché con essi condividiamo un mondo. Se non vi fosse qualcosa di comune, di natura extralinguistica, non sarebbe possibile comprendere l’espressione dei diversi punti di vista sul mondo. Possiamo parlare di “fenomeno” in modo legittimo come sino-nimo di “esperienza immediata”, per non identifi care la perce-zione con gli stimoli fi sici: il fenomeno implica il ritorno alla “cosa stessa”. Possiamo dire che le illusioni ottico-geometriche sono altrettanto reali del “triangolo di Kanizsa”, che un qua-drato ruotato diventa un’altra fi gura, che il “movimento beta” ci fa vedere il movimento di una cosa etc.: sono tutti aspetti della medesima realtà, osservabile. Per lo stesso motivo dicia-mo che l’unità del dicia-movimento delle immagini al cinema è al-trettanto reale delle immagini statiche della pellicola. Per dirla con Bozzi, non usciamo mai dagli “osservabili in atto”.

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Il recupero dell’atteggiamento ingenuo è il primo decisivo passo per comprendere la percezione: spogliarci dai precon-cetti per non confondere ciò che sappiamo sulle cose con il modo attraverso cui le esperiamo. Non percepiamo la percezio-ne, ma esperiamo direttamente le cose e il mondo esterno. La percezione è la nostra esperienza immediata in prima persona. Un conto è “spiegare” la percezione, altro è percepire. Dobbia-mo sospendere (mettere tra parentesi) ciò che la scienza ci ha insegnato sul mondo se vogliamo comprendere il senso stesso della percezione. Questo è quanto i pittori, secondo Merleau-Ponty, hanno da insegnare ai fi losofi : i primi possono educare i secondi a guardare il mondo. Per tutta la vita Cézanne scan-daglia il visibile alla ricerca della “cosa stessa”. Quest’intuizio-ne mi portò a scoprire Magritte, oggetto, per me come per Massimo Donà, di lunghe rifl essioni. A partire dagli scritti di Magritte, proposi a Bozzi e a Derossi di laurearmi sul rapporto tra arte e percezione. Poco tempo dopo appresi che Ferraris, dopo essere tornato a Torino, aveva avuto una sorta di “svolta teoretica” dal “postmodernismo” al “realismo”: era uscito il suo Estetica razionale. Vidi Ferraris accogliere Bozzi come un “mae-stro”: erano le premesse per un nuovo realismo.

Questi aneddoti autobiografi ci spiegano, almeno in parte, perché mi son trovato a dialogare con Maurizio attorno al Nuo-vo realismo. Ho apprezzato la “sNuo-volta” di Ferraris per diverse ragioni, non ultimo il merito di aver portato alla luce una serie di studi che fi no ad allora erano rimasti in una nicchia riser-vata agli addetti ai lavori. I libri che seguirono Estetica raziona-le aprirono un dibattito inedito in Italia. Ferraris, durante la preparazione dei suoi libri, veniva a Trieste, dove si tenevano diversi seminari su temi affi ni; il più signifi cativo era diretto da Serena Cattaruzza e intitolato “Husserl in laboratorio”. Vi partecipavano psicologi sperimentali e fi losofi in una irripeti-bile (o quantomeno da allora irripetuta) interazione – tra gli animatori degli incontri ricordo almeno G. Derossi, F. Parac-chini, G.B. Vicario, P. Bozzi, R. Martinelli, M. Sinico, G. Pa-rovel, P. Spinicci. Quei luoghi rappresentavano un metodo di lavoro peculiare, e per alcuni furono il segno distintivo di una scuola fenomenologica di matrice realista. Alcuni libri di

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Mau-L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 17 rizio hanno esplicitato tesi solo in parte presenti nel pensiero di Bozzi (penso in modo particolare all’ontologia), il quale si è sempre volutamente limitato a tracciare le linee guida di una metodologia e di un’epistemologia per una fenomenologia sperimentale (o scienza degli osservabili). L’affermazione del mondo esterno in chiave ontologica, l’incompatibilità del re-alismo bozziano con Kant, messa in luce da Ferraris in Good Bye, Kant!, rappresentarono “un sorpasso a destra” rispetto alla mia posizione di allora e anche rispetto a quella di Bozzi. Non voglio conferire troppo peso all’infl uenza che Bozzi può avere avuto sul pensiero e sul progetto fi losofi co di Ferraris – que-sto spetterà semmai a lui stabilirlo –; ho tuttavia voluto sotto-lineare il rapporto di continuità che li lega. In più occasioni ho manifestato a Maurizio l’opportunità di portare avanti una “scuola realista”, vista la specifi cità di questa tradizione.

In Bozzi vi era la costante tendenza ad assegnare “verità” all’apparire, pur sapendo che la scienza, e la “verità” che essa persegue, nasce per determinare prima di tutto ciò che non è possibile cogliere direttamente attraverso l’osservazione. La “verità”, secondo una consolidata tradizione fi losofi ca, appar-tiene alla sfera del giudizio e del pensiero, non al fatto feno-menicamente esplicito, come voleva Bozzi. Questa convinzione a proposito della verità del fenomeno è tuttavia stata sfumata dallo stesso Bozzi, se si considera che egli era pronto a ricono-scere che la percezione delle cose, a rigore – essendo precate-goriale – non è né vera né falsa: è un “fatto” ricco e complesso che ci si offre come piano d’appoggio, relativamente stabile, per la verità dei nostri giudizi e delle nostre scoperte.

Lo schema S-D rappresenta la possibile naturalizzazione della fenomenologia: indica lo spazio logico delle ricerche “causali” e, allo stesso tempo, l’indipendenza dell’indagine fenomeno-logica dall’esperienza immediata (phi) che, a rigore, non trova posto all’interno dello schema. Bozzi sostiene una posizione che egli stesso ha defi nito nei termini di un “realismo moni-stico critico”. L’approccio di Bozzi riprende l’impostazione di Mach e, soprattutto la metodologia di Kanizsa, al fi ne di creare una epistemologia per una scienza degli osservabili, non per una più generica teoria della conoscenza (perseguita dal

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sotto-18 In dialogo con Maurizio Ferraris

scritto) né per farne un’ontologia o una metafi sica. Questo il punto decisivo su cui si diramano e articolano diverse posizioni di matrice realista, e le differenze tra la mia posizione e quel-la di Maurizio. Ferraris percorre l’ipotesi di un realismo che vorrebbe andare oltre quello “ingenuo” professato da Bozzi, in grado di comprendere un piano ontologico più ampio rispetto all’esperienza diretta. Ma la realtà sottostante il piano di osser-vazione non è qualcosa di pienamente evidente, richiede l’ap-porto del piano epistemologico. Il mio realismo estetico si limi-ta invece al “dato incontrato” – per una teoria della conoscenza di matrice realistico-relativistico – e dipende principalmente da tre concetti ripresi dalla “fenomenologia sperimentale”: “esperienza immediata”, “percept-percept coupling” e “spoiling”.

1) Nell’esperienza immediata non vi è alcun dubbio scettico, quest’ultimo nasce piuttosto da conoscenze scientifi che, ossia dalla scoperta che la nostra esperienza del mondo esterno di-pende dal cervello. Mettendo tra parentesi ciò che sappiamo sul mondo ci ritroviamo in una posizione simile a quella dei Greci, per dirla con Hegel, di identità tra “certezza” e “verità”. Possiamo riscoprire lo sguardo del “realista ingenuo” attraver-so l’epoché fenomenologica: del mondo non possiamo, come il pittore, dubitare veramente, esso ci appare là fuori e in questo apparire non vi è traccia di alcuna forma di dipendenza del mondo dal soggetto. Solo con l’istituzione moderna del “sog-getto” è possibile formulare il dubbio e, di conseguenza, con-cepire il mondo come “rappresentazione soggettiva”. Per dirla sempre con Hegel: è grazie a Cartesio che si asserisce il venire meno dell’identità tra “certezza” e “verità”, e il conseguente prendere piede del problema della giustifi cazione dell’esisten-za di un mondo esterno. Dubitare del mondo implica avalla-re un sapeavalla-re e delle scoperte scientifi che che oltavalla-repassano la condizione originaria del “soggetto” in relazione all’ambiente circostante.

2) Il fenomeno del percept-percept coupling non è riducibile a un piano diverso da quello fenomenologico (la complessità del fenomeno va colta per come appare nella sua interezza). Assumendo un criterio di localizzazione del fenomeno ciò che conta è dove e non “che cos’è” la realtà (uno spunto teorico

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L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 19 che devo a M. Losito, e poi mi pare ripreso, in modo diver-so, da Ferraris in “Realismo positivo”, dove viene defi nito nei termini di un “principio”, anche se non è un principio ma più propriamente un criterio che ci aiuta a comprendere e chiarire il signifi cato di realtà).

3) La metodologia dello spoiling ci consente di individuare le variabili che rappresentano le condizioni di emergenza di un dato fenomeno. Condizioni che non sono né “pure”, né “astratte”, né possono essere trattare come “trascendentali”: sono invece tratte dall’esperienza e in essa iscritte. Le “varia-bili”, individuate dalla fenomenologia sperimentale, deter-minano l’apparire fenomenico e il modo in cui i “fenomeni” interagiscono: vere e proprie “reazioni chimiche” di matrice fenomenologica.

Se implichiamo un sistema di riferimento fenomenologico, possiamo considerare l’apparire fenomenico come una classe più ampia rispetto a quella del piano fi sico-materiale: il trian-golo di Kanizsa, le illusioni ottiche, i fenomeni di trasparenza ecc. non trovano posto in una descrizione fi sico-materiale del mondo. Un approccio “fi sicalista” non è dunque in grado di ricomprendere né spiegare un’ampia gamma di fenomeni che pure fanno parte del nostro ambiente circostante. “Phi” non coincide col “cervello”, bensì indica l’apparire diretto del mon-do. L’indipendenza della dimensione fenomenica entro una matrice realista è garantita dal fatto che le variabili “dipenden-ti” e “indipenden“dipenden-ti” che costituiscono l’apparire del fenomeno sono localizzate nel mondo. A sua volta, il soggetto percipiente è trattato, nella prassi della fenomenologia sperimentale, come un’“invariante”. In questo senso, l’apparire di cui parliamo non dipende dal soggetto, ma rappresenta un “piano di immanenza” che si stabilizza come “interno” o “esterno” sulla base della mo-dalità del dato fenomenico incontrato. Un piano di realtà ester-no-interno che comprende alberi, cose, persone, ma anche colori, sfumature, illusioni, immagini postume, sino al dolore del mal di denti. Questo in estrema sintesi è quanto ho ricavato dalle mie indagini teoriche sulla fenomenologia sperimentale e messo in luce in Fenomenologia eretica attraverso il chiarimento della nozione di “esperienza immediata”. Tale indagine è

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avve-20 In dialogo con Maurizio Ferraris

nuta attraverso l’analisi di due autori in particolare: Merleau-Ponty e Wittgenstein. Due fi losofi che, che per quanto diversi, hanno condiviso un certo interesse per la “Psicologia della for-ma”. Attraverso questi due autori si è inteso operare congiun-tamente un chiarimento sia concettuale sia percettivo a partire dai medesimi casi: possiamo dire che le nostre osservazioni si sono ancorate ai medesimi fatti sotto osservazione. Gli esempi che ho utilizzato, in primis l’esempio del cubo che costituisce un motivo ricorrente nella succitata ricerca, hanno una funzio-ne paradigmatica e non meramente esemplifi cativa.

Il fenomeno (l’esperienza immediata) contiene un grado di complessità non riducibile a qualsivoglia parte dello sche-ma S-D. Si potrebbe dosche-mandare, con Searle: se vi sono dei fe-nomeni con proprietà non riconducibili al piano sottostante, come per esempio il triangolo di Kanizsa, ci troviamo in tal caso già in una forma di dualismo? L’emergere di proprietà da diversi livelli del reale non implica necessariamente un dua-lismo: dall’organizzazione autopoietica della materia possono emergere relazioni e proprietà nuove. Il caso del triangolo di Kanizsa può essere trattato alla stregua di un qualunque altro fenomeno di emergenza entro una teoria della complessità di matrice monista-realista. L’affi orare di queste proprietà non implica alcun dualismo. “Phi” incarna la dimensione fi sica del soggetto attraverso l’esperienza immediata del mondo: l’unico piano di realtà a cui abbiamo direttamente accesso. Ci trovia-mo al punto limite di questa ricerca – e dell’indagine stessa di Bozzi. Questo è anche il punto in cui divergono, per esempio, le strade mie, di Bozzi e di Ferraris (strade che conducono a diverse forme di realismo). Come abbiamo già ribadito, Bozzi non ha chiarito sino in fondo il raccordo in chiave “realista-monista” tra lo spazio trans-fenomenico sottostante e il piano fenomenico primario, tra il piano ontologico e il piano dell’e-sperienza immediata, ben consapevole che un tale passo, se non fondato, avrebbe minato l’intero impianto epistemologico faticosamente costruito in funzione di una scienza degli osserva-bili interamente inscritta nell’esperienza immediata. Se, infat-ti, circoscriviamo l’indagine alla fenomenologia sperimentale, il problema non si pone. Da un punto di vista epistemologico,

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L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 21 ovvero nella prospettiva di una teoria della conoscenza, pos-siamo affermare di trovarci di fronte a un’unica realtà confor-me al realismo ingenuo; tuttavia, non possiamo espandere il nostro realismo ingenuo oltre la dimensione del visibile. Non possiamo, quindi, estendere questo realismo oltre le soglie per-cettive senza incorrere in evidenti contraddizioni e aporie che dipendono, come ho cercato di mostrare in Fenomenologia ere-tica, dal mutare del sistema di riferimento implicito. Tutto ciò che oltrepassa l’esperienza diretta diventa immediatamente una rappresentazione della realtà o l’elaborazione di informazio-ni tratte dall’esperienza stessa (dati, misure, concetti, modelli ecc.). Se facessimo collimare l’esperienza immediata (di per sé “inemendabile”) col piano “ontologico” (ciò che c’è) e la scienza col piano “epistemologico” (ciò che sappiamo) ci tro-veremmo nella scomoda posizione di dover sostenere che non esistono tutte le cose che oltrepassano l’esperienza, oppure, dovremmo estendere (come fa Ferraris) il piano ontologico oltre l’esperienza immediata. In tal caso, l’ontologia è chiama-ta giuschiama-tamente a rappresenchiama-tare una classe più ampia rispetto all’esperienza immediata: in tal caso possiamo dire che ci sono anche le particelle, i quark, gli atomi ecc. Ma in base a cosa possiamo affermarlo? L’esistenza della particella non è più qualcosa di inemendabile, almeno non lo è secondo il parame-tro di inemendabilità tratto dall’esperienza immediata. Dato che una parte di “ciò che c’è” non rientra nell’esperienza ed è affermato solo indirettamente sulla base di ciò che sappiamo e scopriamo, dovremmo allora, da capo, riproblematizzare il rapporto tra scienza ed esperienza. In ogni caso, ciò crea un cortocircuito all’interno della distinzione, operata da Ferraris, tra un’ontologia inemendabile e un’epistemologia emendabi-le. Se, invece, l’ontologia la volessimo far coincidere con l’espe-rienza immediata, allora tutto ciò che oltrepassa l’espel’espe-rienza (come gli atomi, i quark e le particelle) non farebbe più parte dell’ontologia (di ciò che c’è). La dimensione del reale non direttamente esperibile avviene grazie alla “scienza” (ciò non riguarda la “fenomenologia sperimentale”) e quindi attraverso il surrettizio intervento del piano epistemologico. L’indagine di Bozzi si è arrestata alla dimensione dell’esperienza fi

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naliz-22 In dialogo con Maurizio Ferraris

zata alla pratica della fenomenologia sperimentale; ribadiamo che è a partire da questo punto che il realismo del sottoscritto prende una direzione diversa rispetto all’ontologia di Ferraris e all’approccio ontoscopico delineato da Giorgio Derossi. Si apre per noi un altro campo di indagine, questa volta “metafi sico” e non più solo “epistemologico”, incentrato sull’individuazio-ne di costanti responsabili del comportamento della materia. Il piano di immanenza “estetico” (realismo ingenuo) rappre-senta un “sistema chiuso” relativamente stabile che va così ad integrarsi – implicando un altro sistema di riferimento – al pia-no ontologico (e poi metafi sico) che rappresenta l’insieme più ampio: la totalità dell’esistente. Il problema tradizionale del realismo è sempre stato la sua problematica collocazione “tra-scendente”: il mondo delle idee, il terzo regno, il mondo-tre etc. L’inizio della conoscenza si dà nell’apparire dell’esperienza immediata: questo piano del reale relativamente stabile è stato oggetto delle nostre rifl essioni, e il suo limite ci ha condotto, attraverso Gilbert Simondon, verso un nuovo realismo, di natura “metastabile”. Le mie attuali indagini teoriche si concentrano attorno al tentativo di coordinare in modo coerente il piano dell’esperienza con la metafi sica di stampo “materialista razio-nale” (ripresa da Gaston Bachelard e delineata da Marcello Lo-sito; si veda la postfazione al mio Verso un nuovo realismo). Tale approccio mira al defi nitivo abbandono delle nozioni tuttora insuperate di realtà “trascendente” e di condizioni pure “tra-scendentali”. Il problema dell’inizio gnoseologico discusso in Fenomenologia eretica deve trovare un suo corrispettivo metafi si-co e ontologisi-co. In Verso un nuovo realismo sono indicati i tratti principali di questa nuova fase di ricerca.

* * *

In questa occasione ho voluto ricostruire il percorso che mi ha portato a dialogare con Maurizio: l’ho fatto solo apparente-mente in modo “paradossale”, sottolineando cioè i punti di di-vergenza tra la sua impostazione e la mia. In realtà, è noto che le differenze si avvertono con maggiore intensità proprio in coloro che sentiamo vicini. Ho inteso il Nuovo realismo come

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L. Taddio - La svolta realista della fi losofi a 23 un progetto fi losofi co la cui ambizione consiste nell’oltrepas-sare i confi ni del postmodernismo, nell’andare oltre le forme stantie di “soggettivismo”, verso una metafi sica priva di “assolu-ti”, ma, al contempo, capace di ridefi nire un orizzonte di senso ove l’interpretazione linguistico-concettuale si coordina, da un punto di vista epistemologico, a “fatti” osservabili. Possiamo ri-scoprire un mondo che non collima con le sue rappresentazio-ni, un pensiero che non collima con l’essere, un apparire non riducibile al pensiero e al linguaggio. Un “mondo sociale” in cui poter affermare dei “valori”, senza per ciò stesso implicare “assoluti”, elementi di “trascendenza” e senza ricadere in una posizione “nichilista”.

L’idea di un “nuovo realismo” era nell’aria. Lo dimostra quanto è avvenuto dopo Deleuze, con Badiou, ma, soprattutto, con l’opera di Meillassoux e il dibattito sul “Realismo specula-tivo” (quel movimento che si è andato formando a partire dal convegno tenutosi al Goldsmiths College di Londra nell’aprile del 2007 – tra i nomi che vi hanno partecipato segnaliamo: Ray Brassier, Iain Hamilton Grant, Graham Harman). Il Nuovo re-alismo va ricondotto a questa cornice più ampia del dibattito internazionale. La “svolta realista” rappresenta prima di tutto un oltrepassamento della “svolta linguistica”. Rispetto a quanto avvenuto altrove, vedo nella tradizione italiana una peculiarità che mi porta a pensare che si possa parlare di una vera “scuo-la” che ha origine dalla tradizione triestina e in particolare da Gaetano Kanizsa e arriva sino a Ferraris per poi sfociare nel dibattito internazionale in corso. Si tratta di una storia com-plessa, ancora tutta da scrivere. La storia e le storie prendono le loro pieghe, come un sasso che ruzzola giù da un pendio ha le sue traiettorie non semplici da prevedere; al di là della meta-fora, diremo che gli eventi non rispecchiano necessariamente i nostri desideri. Infatti, il Nuovo realismo, a partire dall’or-mai famoso articolo di giornale pubblicato sulle pagine di “Re-pubblica” l’8 agosto 2011, non si è ancora affermato come una “scuola” di pensiero, ma il dialogo con Maurizio continua e il sasso non è ancora giunto al termine della sua corsa.

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Petar Bojanić

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DOCUMENTALITÀ:

VITA E ISTITUZIONE

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Nel gennaio del 1997 – ci trovavamo all’Hotel Lutetia – il no-stro mentore comune, Jacques Derrida, mi ha presentato a Mau-rizio Ferraris. Avevo appena cominciato il mio Dottorato con Derrida all’EHESS e proprio quel giorno Maurizio aveva annun-ciato a Jacques Derrida la laurea honoris causa che gli sarebbe sta-ta conferista-ta l’anno seguente dall’Università di Torino. Conosce-vo bene il laConosce-voro scientifi co di Maurizio: aveConosce-vo tutti i suoi libri, tutti i suoi saggi pubblicati in “aut aut”. Avevo imparato piuttosto presto a leggere l’italiano per poter comprendere Vico e Dante, ma anche per leggere Vattimo, Rovatti e Ferraris. Più tardi, nel gennaio del 2009, mentre compievo alcune ricerche alla British Library, scrissi a Maurizio – ricordo che stavo lavorando sulla teoria dei documenti e, in genere, dei testi scritti. Alcuni anni dopo, ci incontrammo di nuovo, presso La Closerie des Lilas, questa volta con uno dei più grandi detrattori di Derrida, Pascal Engel. Da allora io e Maurizio abbiamo fatto molte cose insieme, in molte città e partecipando a numerosi convegni, discutendo di realismo, di Jacques Derrida, di documentalità, architettura, astrazione. Abbiamo incontrato molti pseudo-nemici – e quasi-amici – della decostruzione. Maurizio ha dovuto star a sentire le più improbabili lezioni da parte degli innumeri violenti e mali-ziosi lettori di Derrida. Fin dapprincipio Maurizio s’è opposto a quei fi nti ‘eredi’ di Derrida che, istericamente e in modo fri-gido, ripetono a pappagallo le sue stesse frasi senza emendarle in nulla e senza parimenti trasformarle in qualcosa di nuovo. Documentalità è teoria derridiana della lettera e della scrittura, 1 Traduzione di Marcello Barison.

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26 In dialogo con Maurizio Ferraris

ma sviluppata. E di più: chiunque abbia sentito le sue lezioni – o seguito con attenzione le sue strategie di lettura e di pensiero – potrebbe testimoniare sia del realismo che della fedeltà al senso comune di Jacques Derrida.

Prima che io tenti di spiegare brevemente che cosa, a mio pa-rere, Ferraris sta facendo col suo progetto relativo alla Documen-talità – in che modo egli è fedele a una grande impresa concet-tuale che ha preso avvio circa cent’anni fa, e in che modo egli la sviluppa e la porta a compimento, e perciò la trasforma (il libro di Paul Otlet, Constitution mondiale (1917), è apparso all’inizio del secolo scorso, seguito da La Cité mondiale (1927), da Traité de Documentation, pubblicato nel 1934, e dalla creazione del Mun-daneum, ideato a Bruxelles nel 1920 – quest’ultimo era stato ini-zialmente concepito nel 1895 quando era stato fondato l’Institut International de Bibliographie. Da quell’epoca la ‘documenta-zione’ era andata imponendosi come scienza globale e Suzanne Briet (Qu’est-ce que la documentation?, Paris 1951) aveva provato a introdurla come vera e propria disciplina alla Sorbona, riceven-do però un drastico rifi uto: “la riceven-documentation n’existe pas”); prima, dicevo, che io ponga alcune questioni e, prendendo le mosse dall’espressione di Ferraris “fenomenologia dell’istituzio-nale”, insista nel sollevare alcuni dilemmi circa la relazione tra istituzione e documentazione, e circa la teoria dell’istituzione in Searle e Ferraris, mi si conceda brevemente di spiegare il titolo di questo mio contributo e di formulare con più precisione il paradosso e la latente diffi coltà che insorge tra ciò che chiamia-mo ‘vita’ e ciò che chiamiachiamia-mo ‘istituzione’ (concetto al quale io aggiungo qui quelli di documento e documentazione).

È possibile spiegare la connessione tra documentazione e isti-tuzione facendo qui riferimento al titolo della Seconda Parte del volume di Maurice Hauriou Aux sources du droit, “La vie du droit”, “La théorie de l’institution et de la fondation. Essai de vitalisme social”. Questo titolo ci dice che in realtà le istituzioni non vivono (piuttosto, è come se vivessero), e il motivo di ciò è appunto la documentazione. Essa, quindi, può essere equipara-ta con la pseudo-viequipara-ta delle istituzioni. Hariou, contemporaneo di Paul Otlet, è invero dell’opinione opposta: proprio perché le norme limitano la vita e spesso si oppongono ad essa, le

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istituzio-P. Bojanić - Documentalità: vita e istituzione 27 ni, nel preservare la vita, hanno successo nell’infondere alle leg-gi realtà e vitalità (non c’è bisogno di richiamare la distinzione, operata da Otlet, tra documentazione normativa e descrittiva). In questo o nell’altro modo, la relazione tra vita e istituzione, così come l’importanza di istituzioni per la preservazione della vita, possono essere problematizzate con due esempi.

In primis, vorrei citare un passaggio da Georges Renard che si trova proprio all’inizio della sua prima conferenza sulla teo-ria dell’istituzione.2 Renard, giurista di prim’ordine e teorico

dell’istituzione in Francia che ha saputo estendere i confi ni dell’istituzionalismo di Maurice Hauriou, fa riferimento a un pensatore cinese. In questo testo, Renard sostiene di non fare appello ad alcun tipo di sentimentalismo lirico, ma di star ten-tando una sorta di “psicologia sperimentale”. Associato a poche frasi di Tommaso d’Aquino, questo passaggio potrebbe essere il primo punto di riferimento per approcciare la fondamentale domanda con cui Renard inizia il suo ciclo di conferenze: che cos’è l’istituzione? Ecco Renard, o meglio: le parole dell’anoni-mo pensatore che egli cita:

Amo la mia vita, ma amo altresì le persone che mi sono pros-sime; coloro il cui sangue mi corre nelle vene; i miei, la cui anima si gonfi a di gioia al profumo della stessa terra natale, i miei che recano, incisa sulla fronte, la fi erezza degli stessi ri-cordi e delle stesse speranze, i miei che, uniti a me stesso, non rappresentano che un unico corpo spirituale. Sono uno di loro e in loro c’è qualcosa di me stesso. Amo la vita, ma la mia vita è coinvolta nella vita dei miei, poiché siamo sulla stessa barca... Amo la vita, ma amo anche la mia famiglia, la mia patria, la ci-viltà di cui sono tributario, la chiesa cui pertiene il meglio della mia anima; e se non posso preservare entrambi ad un tempo, sacrifi cherò la mia vita e preserverò il bene comune che vale più della mia stessa vita.3

2 Queste conferenze sono state pubblicate in G. Renard, La théorie de

l’institution. Essai d’ontologie juridique, Sirey, Paris 1930. Il passaggio citato

in seguito si trova alle pp. 31-32 (traduzione mia).

3 “J’aime la vie, mais j’aime aussi les miens ; les miens dont le sang coule dans mes veines, les miens dont l’âme s’est dilatée au parfum de la même terre natale, les miens qui portent sur le front la fi erté des mêmes souvenirs et des mêmes espérances, les miens qui ne sont avec

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28 In dialogo con Maurizio Ferraris

Renard non offre alcuna notizia circa l’origine del testo. (La traduzione è completamente teologizzata, cosa che mi inte-ressa profondamente, poiché implica una specifi ca valorizza-zione, una scelta e un fi ne preciso). In ogni caso, mi sembra che questo testo indichi il problema che, latentemente, emer-ge nella relazione tra vita e bene comune (e, secondo Renard, il bene generale e il bene comune sono sinonimi di istituzione).

Il secondo esempio che desidero qui menzionare va recupe-rato all’inizio del libro di Suzanne Briet del 1951, Qu’est-ce que la documentation?, là dove parla dell’antilope (un “animale viven-te”, che non è un documento) e dell’“antilope catalogata” (che è stata messa in una gabbia nello zoo e, in tal modo, è diven-tata un documento). Mentre quest’esempio chiama in causa solo apparentemente la vita e la libertà dell’“animale vivente”, esso mostra a priori e ad un tempo la prossimità di istituzione e documentazione, così come la diffi coltà di differenziarle. Mi è impossibile, in queste sede, anche soltanto abbozzare la costru-zione di un legame sistematico tra documento e istitucostru-zione. Tutto ciò che posso fare è enumerare due ‘momenti’: il primo è l’intenzione, da parte di Otlet, di organizzare la documenta-zione (l’organisation de la documentation), attività che ha valenza istituzionale, razionale e mondiale (o globale) – perché non si dimentichi che i documenti rappresentano una realtà – sono realia –, e che la documentazione dovrebbe essere completa e perfetta – identica con l’organizzazione del mondo e della vita in generale (la vie générale); il secondo ‘momento’ concerne il fatto che esiste, per esempio, un certo lavoro documentazio-nale, o che atti documentazionali precedono l’emergere di un nuovo soggetto quale una corporation o un’istituzione. (Se mol-ti di noi decidessero di cosmol-tituire un’azienda, quest’intenzione potrebbe essere messa in atto soltanto attraverso documenti).

moi qu’un même corps spirituel. Je suis l’un d’eux, et il y a en eux quelque chose de moi-même. J’aime la vie, mais ma vie est engagée dans la vie des miens, car nous sommes embarqués… J’aime la vie, mais j’aime aussi ma famille, ma patrie, la civilisation dont je suis tributaire, l’Eglise qui tient le meilleur de mon âme ; et si je ne puis garder les deux à la fois, je sacrifi erai ma vie, et je garderai le Bien commun qui vaut plus que ma vie.”

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P. Bojanić - Documentalità: vita e istituzione 29 ‘Istituzionalizzare’ qualcosa signifi ca allora anzitutto docu-mentarlo? Nella Sezione 5.1.1, Documenti, del suo libro Documen-talità, Ferraris scrive:

Proseguire nel dettaglio la fenomenologia dell’istituzionale e della differenza rispetto al sociale mi sembra una operazio-ne relativamente secondaria rispetto a un punto di maggiore sostanza, ossia mettere in evidenza il ruolo che, nella realtà sociale e a maggior ragione nella realtà istituzionale, viene as-solto dai documenti. Così, una teoria degli oggetti sociali, e della loro specializzazione in oggetti istituzionali, evolve natu-ralmente in una teoria del documento.4

Mi sembra che nel suo testo Ferraris menzioni quest’espres-sione, “fenomenologia dell’istituzionale” (istituzionalità dell’i-stituzione), una sola volta, e che è alquanto appropriato, per me, insistere ancora una volta su alcune diffi coltà che incon-triamo ricorrendo alla parola o all’immagine dell’istituzione. Vorrei sostenere, contro Ferraris e con Searle, che la teoria o fenomenologia dell’istituzione (Searle menziona l’“ontologia dell’istituzione” o l’ontologia della creazione dell’istituzio-ne5, “fenomeno istituzionale” o “fenomeni istituzionali”6)

rap-presenta sempre il compito più diffi cile nella costruzione di un’ontologia sociale, benché la teoria dell’istituzione sia an-cora in fase di elaborazione o stia anan-cora attraversando la “sua prima infanzia”.7 È interessante che sia il progetto husserliano

che quello di Searle siano contrassegnati da una resistenza co-mune rispetto a ciò che è scritto e annotato, nonostante che in

4 M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza,

Roma-Bari 2009, p. 298.

5 Cfr. J. Searle, Les institutions sont-elles dans la tête ? Entretien avec John

Searle, in “Tracés”, 17, 2, p. 252 (traduzione M. B.): “Non mi sono

diffuso lungamente sulla questione dell’imitazione in The Construction

of Social Reality poiché essa non occupa un posto centrale: non cercavo

di mostrare come nascano nuove istituzioni per imitazione di quelle più vecchie, ma piuttosto di determinare l’ontologia della creazione e del mantenimento di queste istituzioni”.

6 J. Searle, Social Ontology: Some basic principles, in “Anthropological

Theory”, 6, 1, p. 23.

7 J. Searle, What is an Institution?, in “Journal of Institutional Economics”,

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30 In dialogo con Maurizio Ferraris

entrambi sia reperibile l’abbozzo di una timida documentalità: in Searle è presente l’idea di una “documentazione uffi ciale”, in Husserl quella dell’“Ausweis”, il certifi cato.

Ma i poteri deontici terminano nel punto un cui la società, in sé più ampia, richiede qualche documentazione uffi ciale: essi mancano di un potere deontico assoluto. Il to collettivo non è abbastanza. Ci dev’essere un riconoscimen-to uffi ciale operariconoscimen-to da qualche ente, esso stesso supportariconoscimen-to da un riconoscimento collettivo, e devono esserci degli indicatori di status emessi dall’ente uffi ciale.8

Cent’anni prima Husserl aveva lo stesso problema con il rico-noscimento reciproco o collettivo. Questo il suo suggerimento:

Come accade che quest’essere-padrone-e-servo (Herr-und-Diener-sein) s’impone come situazione di fatto? Io m’accorgo di Johann, il mio servo. Con ciò io non lo percepisco ancora come il mio servo, se si vuol qui usare la parola ‘percepire’. Si tratta di una certifi cazione (Ausweisung), di un ‘adempimento’ (‘Erfüllung’). Ora, il certifi cato (Ausweis) risiede nella dichiara-zione di riconoscimento (Anerkenntnis) di B, nel fatto che egli sia intenzionato a seguire la mia volontà per ciò che concer-ne questa e quest’altra prestazioconcer-ne, che sia cioè intenzionato a eseguire questa e quest’altra obbligazione di cui si è fatto carico; ed eventualmente il certifi cato risiede semplicemente in questo: che, a tutti gli effetti, nell’esecuzione del mio ordine egli riveli di sottomettersi a me in senso proprio.9

Due brevi appendici scritte da Husserl cent’anni fa e dedica-te all’ontologia sociale, alla comunità e alle norme, sono incre-dibilmente convergenti con le intenzioni di Searle. Possiamo dire senza riserve che queste appendici sono già un preciso abbozzo del lungo sforzo portato avanti da Searle verso una nuova ontologia politica e sociale. D’altra parte, sono interes-sato all’importanza della teoria dei documenti – o della

do-8 Ivi, p. 15 (traduzione M. B.).

9 E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Erster Teil: 1905-1920

(Husserliana XIII), Kluwer Academic Publishers, The Hague 1973, p. 104 (traduzione M. B.).

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P. Bojanić - Documentalità: vita e istituzione 31 cumentazione – di Ferraris per la creazione di istituzioni – o dell’istituzione come tale –, per creare una buona istituzione, ma altresì per la costruzione di una nuova teoria dell’istituzio-ne. Sicché, nel rispondere alla domanda posta in preceden-za – ‘Istituzionalizpreceden-zare’ qualcosa signifi ca allora anzitutto do-cumentarlo? –, è mia intenzione comprendere il progetto di Ferraris in primis come una necessaria aggiunta all’ontologia di Searle, come anzi ciò che ad essa manca, e su molteplici livelli (il più importante dei quali concerne il fatto che il documento intensifi ca l’effetto normativo dell’uso del linguaggio poiché contiene esplicitezza e stabilità: è dato in modo inequivocabi-le, una volta e per tutte).10 Ma vorrei anche argomentare che,

nel futuro, questo progetto potrebbe ‘incorporare’ gli stessi importanti tentativi teoretici che lo precedono. In particolare, vorrei sostenere che il futuro di questo progetto è nell’ambito della teoria giuridica e politica, nella comprensione di ‘strut-ture istituzionali’ veramente ultime e di vasta portata. Ferraris, quale erede e sostenitore del grande progetto di Paul Otlet, il Mundaneum, oltrepassa “il governo come struttura istituzionale ultima”11 e pone al posto dello stato l’Europa, La Cité mondiale

o La République mondiale.12

10 M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, cit., p. 183.

11 J. Searle, Social Ontology and Political Power, in Freedom & Neurobiology. Refl ections on Free Will, Language and Political Power, Columbia

University Press, New York 2007, p. 96; si veda anche J. Searle, Making

the Social World. The Structure of Human Civilization, Oxford University

Press, Oxford 2010, p. 161.

12 P. Otlet, Traité de documentation: le livre sur le livre, théorie et pratique,

C.L.P.C.F., Liège 1989, p. 419 (traduzione M. B.): “L’istituzione è un libero raggruppamento di forze della volontà, una federazione di organismi, un’unione di associazoni nazionali e internazionali”. Il libro di Ferraris è strutturato nello stesso modo del libro di Otlet – anche i capitoli sono indicati alla stessa maniera. Entrambi i libri cominciano con citazioni di poesie: quello di Ferraris apre con Mallarmé, mentre i versi in esergo al libro di Otlet sono di Verhaeren.

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L’OSTERIA

Nessuno, entrandoci come quotidiano cercatore di un bic-chiere di vino, pensa seriamente che l’osteria sia il luogo in cui prende corpo la celebrazione dell’atto, l’autoposizione dello Spirito dispiegata nei suoi fondamentali momenti. Eppure è così. Non sto a questionare su tali momenti, poiché i fi loso-fi sono in disaccordo sugli elenchi; mi basta dimostrare che nell’osteria vive la logica dell’astratto, la logica del concreto, l’estetica e la religione. (Una tetrade come tante altre). Né im-porta fi ssare una gerarchia di superamenti e d’inveramenti.

Il dispiegamento dello Spirito, naturalmente, non ha luogo solo nelle osterie. C’è gente addirittura pagata per allestirlo, altrove, in istituzioni accademiche, in comodi studi affollati di libri e carte scritte, in aule modernissime o vecchiottamente or-nate, in incontri preparati e recitati davanti a un pubblico che poi interviene, oppure nati dal caso e tuttavia felicissimi, p.e., tra uno scienziato e un musicista che si incontrano in treno; ma anche nel cortile di una scuola elementare tra i ragazzini e un maestro, a una mostra di fotografi a, attorno a un pianofor-te. Solo una piccola parte dell’umanità partecipa a queste ce-lebrazioni, però: i professionisti della cultura, nel meglio e nel peggio, e in casi remoti e pieni di fascino anche il farmacista e il medico condotto.

Esiste intanto un’ampia parte dell’umanità che resta esclusa dall’autoposizione dell’atto in atto, in quanto è trattenuta al-trove da impegni di importanza meno vistosa, ma assolutamen-te non trascurabile: per esempio arare seminare e mieassolutamen-tere, o badare alle bestie; costruire o aggiustare oggetti meccanici di varia dimensione; guidare il tram, il camion, la locomotiva;

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fo-34 In dialogo con Maurizio Ferraris

rare biglietti, battere timbri su fogli appropriati e scambiarne esemplari attraverso appositi sportelli; scavare nella profondità della terra, vos non vobis.

Metà di questi lavori, oltre che occupare tempo, producono la fatica. L’accesso allo Spirito non è agevole per chi ha fatto fatica. Le ore del riposo chiedono di essere rispettate; la sog-gettività empirica invia chiarissimi messaggi alle braccia, alle gambe, alla schiena, e nella sua parte più nobile si forma un vuoto leggermente nebbioso.

L’unità dello Spirito è in questo modo pregiudicata: ma immediatamente si ricostituisce a un livello inferiore, seb-bene sia diffi cile porre differenze di dignità là dove ogni misura non può non essere se non meramente astratta, e sussumibile nella realtà del concetto solo per la mediazione di un trapasso qualitativo.

Il trapasso, nel nostro caso, è nella determinatezza dell’o-steria.

È lì che va la gente esclusa dalla fruizione istituzionale dei beni della cultura, gente che ha imparato poco a scuola e che ha potuto rifl ettere sul mondo quando già gli avevano messo in mano un martello o una vanga, e già si trovava il naso otturato dai trucioli e gli orecchi immersi nella musica delle presse.

Ma lo spirito spinge i suoi confi ni oltre ogni pensabile con-dizione avversa, e c’è chi sostiene che sia Lui a produrre le condizioni avverse con lo scopo di mettere alla prova le facoltà migliori degli uomini nei quali empiricamente s’incarna. Così, oltre ogni diffi coltà, i momenti dello Spirito – come prepotenti istinti biologici frustrati da severe repressioni infi sse nell’habi-tat, e resistenti con la caparbietà della conservazione dell’ener-gia – nell’osteria si dispiegano in nuove fi gure, di cui i frequen-tatori si fanno porfrequen-tatori, attori, protagonisti.

Guardate i prodigi della logica dell’astratto: talvolta, in una mano di tressette basta un giro solo di carte: fatta l’apertura ognuno dei quattro giocatori sa già tutto, che cos’hanno gli altri, che giochi ne sarebbero seguiti quale sarebbe stato il pun-teggio alla fi ne. Tutto ciò è saputo, come in un’unica mente, e commentato dalle più menti con smozzicati discorsi che ca-piscono solo loro, cementati da “se... allora…”, “poiché non...

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P. Bozzi - L’osteria 35 allora...” (ma bisogna sentirli in dialetto), “tu hai questo e que-sto”, “dopo doveva venir giù quest’altro”; è data per scontata l’assenza dell’errore per distrazione, è ammesso l’errore di calcolo, il di scostamento della complicata matrice che distri-buisce quaranta carte su quattro colonne legando, attraverso il caso, ognuno dei valori nelle più svariate relazioni logiche a tutti gli altri, in uno schema che deve essere noto solo in base a quelle poche carte ora aperte lì sulla tavola, tra mac-chie di vino: è ammesso, quell’errore, ma come vergogna per chi lo ha compiuto. Sfi do ogni professore di logica a trattare con tanta disinvoltura una matrice così, alla lavagna, cavandola alla cieca da un libro di esercizi. La logica dell’astratto fa delle loro menti un’unica mente; essi vedono insieme la mostruosa matrice e rincorrono tra righe e colonne i sottili giochi del-la probabilità e deldel-la necessità fi ssate nello schema e generate dalla prima distribuzione delle carte. Le parole che volano e i rimproveri, le spiegazioni al più tonto, il pugno sul tavolo sono puro furor mathematicus.

Perciò il parroco e le mogli detestano le carte; nei paesi si insegna ai bambini che le carte sono del diavolo. Esse talvol-ta, quando sono molto usate, hanno un odore di vecchi libri, anzi di libri antichi; le loro fi gure hanno la bellezza di remote illustrazioni magiche, fi ni nel tratteggio, le facce inespressive, i colori semplici, quasi sovrapposti a mano.

La logica dell’astratto trapassa nella logica del concreto, o dialettica, quando dalla battaglia delle carte gli uomini per-vengono alla battaglia tra le intuizioni sul mondo; general-mente, quando si infognano a discutere della loro condizione di servi. C’è dietro il partito, o la fede, un pezzo di giornale, una amara saggezza, l’aggressività come istinto, ma anche i conti fatti di casa, quanto si guadagna e si spende, quan-to guadagna e spende il padrone, se è servo a sua volta e di che cosa. Uno che crede di essere un soggetto, in osteria, e ne ostenti troppo i modi, troverà colui che con rude veridicità gli mostra il suo stato di oggetto, di strumento degli altri. Una presunta astuzia diventa la vergogna di una ingenuità, un pas-so avanti nei salari del pas-sommerpas-so si converte in una ridicola o colpevole sottomissione; tu furbo in quanto furbo sei stupido;

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36 In dialogo con Maurizio Ferraris

tu capo in quanto capo sei strumento; tu, che credi di aver fatto, hai fatto che facessero; hai creduto che, ma in verità – ti sembra che, ma vedi adesso: la macchina delle apparenze mostra il suo funzionamento, e dietro si vede il progetto vero che la fa andare così.

Questi ribaltamenti, e spesso con quella tipica aggressività da osteria, trattenuta e insultante (“tenetemi, che se no lo di-struggo”) e trattenuta per far continuare il gioco all’infi nito, è interamente fondata sul dialogo, che costituisce, come è noto, il fondamento sia storico sia teoretico della dialettica. Il dia-logo come scambio di idee, o solo di battute, o solo di senti-menti; non solo di aggressione, ma di dolce ubriaca e buona comprensione, tutta svolta tra gli sguardi, senza che le parole abbiano importanza; o il dialogo come soliloquio collettivo, dove ciascuno parla di sé, fraternamente incurante di quanto l’altro ha detto. Ma in simili casi ogni attore ha dentro di sé il suo dialogo e questo si vede nell’interrompersi del discorso, nell’improvvisa perplessità del parlante, nel suo rispondere a qualcosa che lui stesso aveva detto prima.

La molteplicità dei dialoghi compresenti attende l’unifi ca-zione a un livello superiore, con gli interlocutori presi a due a due, a tre a tre, o a tre da una parte e due dall’altra, e via avanti; a sua volta l’empiricità di queste distinzioni numeriche si dovrà convertire nella sintesi di una dialogicità totale e corale, che di fatti per brevi attimi si realizza, anche con danni per le sup-pellettili. Ma questi momenti sono in realtà rari e non possono durare a lungo, cosicché con violenza o senza violenza l’unità della sintesi si autodistingue nelle sottostanti dialogicità parzia-li, tanta è la luce sul mondo che essa sprigiona. E per questo il parroco e le mogli detestano la politica, citano casi di gente che si e rovinata con la politica, e si suggerisce che anch’essa sia stata inventata dal diavolo.

Il momento dell’estetica ha le sue radici immerse nel vino. Che cos’è l’estetica se non il momento dello spirito in cui si attua la trasfi gurazione della realtà esterna e l’am-plifi cazione delle forme della realtà interna? E quando può permettersi uno che lavora di trasfi gurare gli strumenti e gli oggetti della sua opera, nel momento di realizzarla, o il

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P. Bozzi - L’osteria 37 proprio equilibrio interiore mentre sposta cose pesanti in cooperazione con altri?

Il vino è il farmaco che, verso sera, avvia la necessaria trasfi -gurazione del reale, dopo ore e ore di contorni netti e ragio-namenti precisi, trasmessi da parole appropriate che le attività materiali dettano. Poiché domani il lavoro ritorna, c’è fretta di realizzare il momento estetico. Il farmaco fa effetto in breve, poi ci sarà il sonno a cancellare buona parte delle sue tracce. I contorni degli oggetti materiali perdono la loro cogente univo-cità; la localizzazione che li vincola nello spazio diventa labile: una cosa può essere più in qua o più in là, e il gesto progettato per raggiungerla mostra e in certo modo misura questa labilità. I colori sono spesso attenuati, ma a volte ravvivati da una inten-sità insolita; le luci diventano più forti e crude, le ombre più profonde, come buchi aperti su spazi retrostanti e senza con-fi ni. Le cose del giorno sono costanti: di forma, di grandezza, di luminosità; oltre il velo del vino buono, solitario o loquace, perdono quella costanza e la forma può improvvisamente mu-tare, la grandezza aumentare in un subitaneo avvicinamento (per esempio le facce talvolta si avvicinano ingigantite al be-vente, quasi maschere piene di insospettati dettagli), le luci gi-rano a modo loro, perché sono ormai ornamenti dello spazio, non banali mezzi per vederci.

Questa è pittura; involontaria, se vogliamo, anzi certamente, ma è pittura. Fruizione e creazione nello stesso istante. Ed è anche teatro, in cui gli ingredienti della pittura montano uno spazio drammatico, dove hanno svolgimento i dialoghi della dialettica, i calcoli fermi della logica, le fughe laterali dell’ag-gressività e della simpatia.

L’ordine del pensiero, dipendentemente dalle trasforma-zioni creatrici dell’occhio e dell’orecchio, trova il coraggio di rompersi, e perciò il pensiero diventa eloquente a dispetto de-gli impacci della lingua. Scardinata la grammatica, madre di ogni repressione, ecco che le idee trovano nuove vie di con-giunzione, associando cose lontanissime eppure indicibilmen-te legaindicibilmen-te, come è proprio della poesia. E le oggettive diffi coltà di comunicazione – dovute al peso della lingua, all’indiscer-nibilità tra rumori esterni e fonazione propria, parole altrui,

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38 In dialogo con Maurizio Ferraris

grezzi ronzii imprigionati nella scatola cranica – vengono supe-rate da sguardi d’intesa profondamente eloquenti, portatori di certezza, sentimenti che si toccano, occhiate che rassicurano della comunicazione assolutamente compiuta. La parola giusta non viene, ma tu hai capito meglio che se io l’avessi detta.

L’aria, oltre che di fumo, è impregnata di canto. La musica dotta vuole che le note siano intonate, e con ciò perde defi niti-vamente quel mezzo espressivo che nasce dall’attrito fra i suo-ni, dalla costante incertezza dei rapporti tra le vibrazioni che il vino scolla una dall’altra, lasciando a ciascun cantore l’indipen-denza della sua solitudine coordinata alle solitudini altrui dalla casualità creatrice, anche se uno segna il tempo col bicchiere e tutti si guardano tra loro con intesa intensa, come leggendo nei lampi degli occhi i neumi di un nascosto graduale. Cantare stonando è l’invenzione della dissonanza. A che altra armonia dovrebbero le loro voci obbedire?

Il prete e le donne condannano il vino. Quanti si sono rovi-nati a furia di bere. Le mogli e il prete vedono subito oltre il delicato velo dei sapori e delle musicali trascolorazioni quan-ta rovina discenderà dal non aver avuto presenti con ossessiva continuità le aspre e costanti fattezze delle cose.

Infi ne la religione, o il momento delle totalità, attraversa questi tre inveramenti con il suo particolare ritmo dialettico. Mai sentite bestemmie come in osteria; questi ruvidi rutti che accompagnano con meccanica necessità la defi nizione ostenti-va dell’iniquità cosmica.

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Leonardo Caffo

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L

EONARDO

C

AFFO

STATO DI LEGITTIMA EMERGENZA

“Il problema autentico è risvegliare nell’individuo quel tanto di consapevolezza capace di generare in lui il desiderio di divenire libero, intelligente, autorealizzato e pienamente consapevole”

O. Rajneesh, L’immortalità dell’anima

Emergenza1, l’ultimo libro di Maurizio Ferraris, è il senso di

un percorso. Un racconto, un segnavia, un bilancio. Ho letto il manoscritto, durante le fasi di lavorazione e scrittura, decine di volte: quello che è un modus operandi tipico di Maurizio, il confronto di idee, talvolta addirittura di obiezioni da parte dei suoi allievi, compone un affresco di cui poi il libro riesce a tenere conto. L’emergenza, qualitativa e quantitativa, è quella della realtà che viene a galla attraverso un processo evolutivo, spontaneo, che conduce dal Big Bang all’umano in modo im-prevedibile e inaspettato. Il senso della vita di Maurizio, a mio avviso, è tutto in questo argomento: le cose, semplicemente, accadono. Storcerà il naso, colui che non posso non chiama-re “maestro”, a essechiama-re avvicinato da me al pensiero orientale eppure anche lui, come Derrida o Deleuze, – in quella che è la fase più matura del suo pensiero – si avvicina all’unità delle cose. Che la si chiami “animalità”, come in Derrida che non a caso è oggi quasi più studiato in Vietnam2 che in Francia, o

“emergenza”, il senso è analogo: dove sta la vita in quanto vita? Quel fascio di luce, direbbe Heidegger riferendosi all’essere, che attraversa ogni cosa?

1 M. Ferraris, Emergenza, Einaudi, Torino 2016.

2 Cfr. M. McQuillan, Extraordinary Rendition: Derrida and Vietnam, in “Theory and Event” 12 (1) (2009).

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42 In dialogo con Maurizio Ferraris

Il percorso di Maurizio, l’ho raccontato molte volte,3 è un

sentiero a ostacoli: dal pensiero della differenza, attraversan-do ermeneutica e ontologia sociale, fi no al realismo, segue un obiettivo per molti oscuro. Questo obiettivo, che in parte esor-cizza la morte e in parte la ricorda, altro non è che la presa di coscienza di essere viventi periferici. Tutte le critiche ricevute durante l’esposizione del realismo, in fondo, si concentravano su questo: perché, Maurizio, ci costringi a osservare la realtà o, addirittura ad accettarla? Come puoi tu, proprio tu che hai studiato con Gadamer, Derrida e Vattimo, obbligarci a un mon-do resistente e spesso ingiusto? L’emergenza come teoria, in parte, spiega anche questo: le cose accadono, ma noi siamo liberi – in quello che è una forma di compatibilismo Ferraris invita ad accertarsi delle cose prima, e solo dopo a cambiarle. Contro Foucault, in fondo, ci dice che il sapere che critica, se prima non conosce, critica a vanvera.

Ho imparato questo da lui, oltre l’ovvia preparazione stori-co fi losofi ca che il stori-contatto stori-con uomo che stori-conosce a memoria ogni riga di Kant possa donare: prima studiare, poi fi losofare. L’ho visto arrabbiarsi infi nite volte, a convegni o anche sem-plicemente durante una lettura nel suo studio che affaccia sulla Mole Antonelliana di Torino, alla scoperta di una sov-versione disonesta intellettualmente delle teorie di un qual-che fi losofo. L’ho visto arrabbiato quando leggeva o ascoltava argomenti su Derrida antirealista o animalista, su Heidegger come uomo di sinistra, sulla fi losofi a analitica come unico pensiero possibile o spesso, più semplicemente, su Palazzo Nuovo (la sede della nostra università) come esempio di ar-chitettura bella, pratica, o utile.4 Questa rabbia, questa

pas-sione, è il senso di una vita spesa a fare della fi losofi a una ragione di sopravvivenza: siamo il frutto dell’evoluzione, del caso, e l’emergenza da cui proveniamo e anche, spesso,

un’e-3 In modo più esplicito e completo nei miei L. Caffo, “La necessità di lasciar tracce”, in M. Ferraris, Filosofi a Globalizzata. A lezione da Maurizio

Ferraris, a cura di L. Caffo Mimesis, Milano – Udine 2013, pp. 93 - 105

e in L. Caffo, Il postumano e la ciabatta: ermeneutica e antropocentrismo, in “Rivista di Estetica”, n.s. 60 (2016), pp. 36-42.

4 Ne argomenta diffusamente in M. Ferraris, “Palazzo nuovo e altre folies”, in Costellazioni estetiche, Guerini, Milano 2013, pp. 157-164.

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