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LA GRANDEZZA DEL SENTIRE E LA POESIA COME CONSOLAZIONE

Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino

evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni […] servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo, e non trattando né

rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta.

(Zibaldone, 259-260)

La contrapposizione, sostenuta da Leopardi nella prima fase del suo pensiero, tra la bontà della natura e la negatività della ragione ha un’identità storica e cronologica nelle figure degli antichi e dei moderni: gli antichi sono felici perché sono ancora vicini alla natura, l’infelicità dell’uomo moderno deriva dal suo allontanamento da essa. Se la natura è buona perché illude l’uomo che la felicità è raggiungibile, allora gli antichi possono essere felici solo in quanto illusi: ad essi infatti la felicità “non pareva un sogno come a noi pare”935, bensì credevano che fosse realmente conseguibile (“certamente speravano, mentre noi disperiamo, di poterla conseguire”936). Perciò in questa fase Leopardi ritiene che il dolore degli antichi sia diverso dal dolore dei moderni. Per gli antichi l’infelicità è accidentale, poiché è dovuta solo ai mali esterni, pensati da essi come accidentali (“mali evitabili e non evitati”937) rispetto al problema della felicità. “L’uomo può essere anche infelice

accidentalmente per forze esterne […]. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli dagli altri individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec. Quest’infelicità non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l’infelicità antica”938. Gli antichi cioè credevano che quella accidentale fosse l’unica forma di infelicità che potesse colpire l’uomo: “in quasi tutti i libri antichi (…) s’incontrano molte sentenze dolorosissime […]. Ma esse per lo più derivano dalla miseria particolare ed

935 Zibaldone, 77 936 Zibaldone, 77 937 Zibaldone, 77

184 accidentale di chi le scriveva”939. L’accidentalità dell’infelicità faceva di essa

qualcosa di legato alle disgrazie individuali: agli antichi le sventure “pareano mali tutti propri di quello a cui sopravvenivano”940. L’infelicità riguardava “il

disgraziato”941, l’individuo a cui accidentalmente tali disgrazie capitavano, non il

genere umano in quanto tale. Gli antichi pensavano di conseguenza che la felicità fosse sostanziale, poiché ritenevano che l’uomo in quanto tale, sostanzialmente, potesse essere felice: “I quali antichi quando erano travagliati dalle sventure, se ne dolevano in modo come se per queste sole fossero privi della felicità: la quale essi stimavano possibilissima a conseguire, anzi propria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse”942.

L’uomo moderno si è allontanato dalla natura, e quindi ha perduto quelle illusioni che la natura benigna aveva posto nell’uomo affinché non conoscesse la sua costitutiva infelicità: “La natura non volea che sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lo può soddisfare”943. L’irruzione della ragione, che ha fatto conoscere all’uomo moderno “il voto delle cose e le illusioni e il niente di questi stessi piaceri naturali”944 ha distrutto l’illusione degli antichi e ha mostrato all’uomo moderno che la sua infelicità non è dovuta alle disgrazie accidentali, ma che è costitutiva, sostanziale, non riguarda l’individuo, ma l’uomo in generale. Una distinzione, quella tra dolore antico e dolore moderno, che secondo Leopardi sarebbe stata sancita, anche se non causata, dal cristianesimo, che dà come assodata una verità – che la vita sia nulla e infelicità – che gli antichi negano945.

Ma lo schema antichi-moderni in rapporto al problema dell’infelicità inizia a corrodersi in seguito alla scoperta di Teofrasto946, la cui prima citazione zibaldoniana

risale al 1820, per essere definitivamente debellato dopo il 1823, in seguito alla lettura del Voyage du jeune Anacharsis di Barthélemy. Leopardi vede rappresentata in Teofrasto una consapevolezza che egli inizialmente riteneva estranea all’antichità, ovvero la consapevolezza della “infelicità inevitabile della natura umana”947. La

939 Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (1822) 940 Zibaldone, 77

941 Zibaldone, 77

942 Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte (1822) 943 Zibaldone, 169 (12-23 luglio 1820)

944 Zibaldone, 56

945 Zibaldone, 105 (26 marzo 1820). Severino (1990), p. 69, identifica gli antichi cui Leopardi si

riferisce in questo passo col pensiero pre-filosofico.

946 Timpanaro (1965).

185 conferma che la concezione pessimistica dell’uomo nell’antichità si estendeva ben oltre Teofrasto viene a Leopardi dalla lettura del Voyage di Barthélemy, avvenuta certamente agli inizi del 1823948, come attestano le numerose citazioni dello

Zibaldone che enumerano le sentenze dei poeti e dei pensatori antichi sulla vanità della vita e sull’infelicità umana, che si ritrovano nelle Operette morali949. La vanità e infelicità della vita umana appare ora come una verità che, lungi dall’essere propria dell’uomo moderno, è antica quanto la cultura occidentale, visto che, come nota Tristano, appartiene alle sue radici greca e veterotestamentaria, ritrovandosi già sia nei poemi omerici che nella proclamazione della vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste: “Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana”950.

Con Teofrasto prima e con la lettura del Voyage di Barthélemy in seguito, Leopardi “scopre” l’infelicità antica. L’infelicità, pensata prima come storica, poiché imputabile ad una forma storica di organizzazione sociale951, la società moderna, e appartenente solo all’uomo moderno in quanto “s-naturato”, diventa ora una caratteristica del genere umano in quanto tale. La scoperta dell’infelicità degli antichi, veicolando una concezione astorica dell’infelicità umana, conduce ad un ribaltamento dello schema natura buona – ragione corrotta e della rispettiva responsabilità in relazione alla sofferenza umana e contribuisce a corrodere l’iniziale concezione di innocenza della natura952, cioè a vedere nell’infelicità una contraddizione imputabile

alla natura.

Finché la natura viene concepita da Leopardi come benigna, il dolore dell’uomo viene visto come un accidente all’interno del suo ordine, dovuto ad accadimenti non

948 Secondo Timapanaro (1965), p. 202, n. 38, le citazioni dal Voyage du jeune Anacharsis, presenti già

in Zibaldone, 68 e Zibaldone, 222 (22 agosto 1820), sono di seconda mano; la lettura diretta avvenne nel febbraio del 1823, durante il soggiorno romano, come dimostrano le citazioni tratte dal Voyage delle sentenze di Sofocle, Bacchilide, Strabone, Teognide, che sono riportate in Zibaldone, 2671-2675 (8-25 febbraio 1823).

949 Timpanaro (1965), p. 205-206, che tuttavia precisa che alla contrapposizione antichi-moderni

Leopardi non rinunciò mai del tutto.

950 Dialogo di Tristano e di un amico (1832)

951 Il legame tra società (in particolare moderna) e infelicità sarà approfondito nel paragrafo 4. IX. 952 Sul parallellismo tra la scoperta etica del dolore antico attraverso la figura di Teofrasto e la scoperta

186 imputabili alle sue intenzioni. L’infelicità umana, benché in sé sia già concepita come sostanziale, perché dovuta alla costitutiva impossibilità di soddisfare il desiderio infinito, tuttavia dal punto di vista dell’ordine della natura è accidentale, poiché la natura non voleva che l’uomo si accorgesse di essere infelice (come dimostra appunto l’illusione degli antichi, più vicini alla natura). Neanche i mali particolari (legati ad avvenimenti esterni, non riguardanti il problema della felicità o infelicità sostanziale) manifestano una contraddizione all’interno del sistema della natura: non solo sono visti come accidenti non imputabili ad essa, ma anzi sono talora attribuiti alla sua benigninità, in quanto giustificati come necessari alla felicità (“pigliano vera e reale essenza di beni nell’ordine generale della natura” e in quanto tali, “benché accidentali uno per uno, forse il genere e l’universalità loro non è accidentale”, poiché sono “con ragione contenuti […] nell’ordine naturale”), poiché interrompono la continuità dei piaceri, che è cagione di noia, facendo così risaltare maggiormente i beni, perché “più si gusta […] la calma dopo la tempesta”953. La natura è creduta ancora un “ordine” privo di contraddizioni, soprattutto in relazione a ciò che essa ha destinato all’uomo: “è certo che più facilmente potremo annoverar le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec.”954. L’infelicità umana manifesta sì una contraddizione nella natura, tanto più che Leopardi attribuisce ancora all’uomo una posizione privilegiata nell’ordine della natura (“una specie privilegiata, e che si suppone la prima nell’ordine degli esseri”955), ma tale contraddizione in questa fase viene tolta, perché la natura è concepita come un ordine all’interno del quale l’uomo stesso conserva la propria perfezione (e quindi felicità, seppur illusoria), che viene perduta solo uscendone: “le assurdità sono infinite quando non si vuol riconoscere che l’uomo esce perfetto dalle mani della natura”956. In questa prospettiva, l’uomo stesso è il responsabile della propria infelicità, dovuta allo sviluppo della ragione e della civiltà che lo hanno corrotto: “Se dunque l’uomo facendo evidentissimamente violenza alla natura, e vincendo infiniti ostacoli naturali, è giunto a conformare e se stesso, e quella parte di natura che da lui dipendeva naturalmente, e quella molto maggiore che n’è

953 Zibaldone, 2600-2602 (7 agosto 1822) 954 Zibaldone, 2338 (8 gennaio 1822) 955 Zibaldone, 833 (21 marzo 1821)

956 Zibaldone, 387 (7 dicembre 1820). Cfr. Zibaldone, 2413 (2 maggio 1822):un perfezionamento del

corpo umano non è possibile, anzi, la civiltà peggiora il corpo; l’unico perfezionamento possibile, quello dello spirito, non è un vero perfezionamento, in quanto è la maggior causa dell’infelicità umana.

187 venuta a dipendere in sola virtù della di lui alterazione; è giunto dico a conformar tutto ciò in modo diversissimo da quel piano, da quell’ordine, che col savio ragionamento si scopre destinato, inteso, avuto in mira, voluto, disposto dalla natura; questa non può essere una prova […] contro la natura”957.

La scoperta successiva che l’infelicità umana è una contraddizione imputabile alla natura – e quindi una contraddizione, e non un accidente, nella natura – è il compimento di una conseguenza che era già contenuta nella teoria del piacere e che la nuova visione disincantata della natura non ha fatto che portare a galla. Alla domanda

perché l’uomo non possa essere felice, Leopardi già nella teoria del piacere aveva dato una risposta “a-storica”: ovvero, a causa del desiderio infinito. A partire dalla formulazione della teoria del piacere, dunque, per Leopardi l’infelicità è sostanziale, dovuta alla costituzione del desiderio; ma il fatto che gli uomini si accorgano della loro infelicità è un accidente nella natura, dovuto appunto al loro allontanamento dalla natura.

Nella nuova prospettiva invece l’infelicità umana non viene più giustificata come un accidente all’interno di un ordine volto al bene. La concezione della natura come ordine includente il male scagiona l’uomo dall’accusa di essere il fautore della propria infelicità. Si produce perciò un ribaltamento delle responsabilità: ora è la natura, e non più il caso o la ragione o gli altri uomini, che viene pensata come colpevole dell’infelicità umana: “I quali [individui] sono condannati all’infelicità dalla natura, e non dagli uomini né dal caso”958; “la mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, […]

discolpando gli uomini”959; la “nobil natura” de La ginestra, che vede la verità, “dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna”960. La contraddizione costituita dal dolore e dall’infelicità umana non è più

concepita come un male accidentale o storico, ma proprio dell’intero genere umano: “non altro in somma / fuor che infelice, in qualsivoglia tempo, / e non pur ne’ civili

ordini e modi, / ma della vita in tutte l’altre parti, / per essenza insanabile, e per legge / universal, che terra e cielo abbraccia, ogni nato sarà”961.

In questa prospettiva neanche i mali particolari vengono più considerati come accidentali nel sistema della natura, ma come inerenti al sistema, perché l’ordine

957 Zibaldone, 1957-1959 (20 ottobre 1821); corsivo mio. 958 Lettera al Giordani (24 luglio 1828)

959 Zibaldone, 4428 (2 gennaio 1829) 960 La Ginestra, vv. 124-125

188 stesso della natura viene pensato come un ordine includente in sé il male962 e quindi la

contraddizione963. Se l’infelicità è sostanziale, anche i mali particolari contribuiranno ad essa, aumentando la sofferenza già costititutiva, in quanto mai compensati da un vero piacere.

Per Epicuro, è perché lo stato di piacere catastematico può essere raggiunto che il male accidentale può diventare non importante ai fini del piacere stesso, fino ad essere “annientato”. I mali accidentali sono mali “naturali”, non vuoti: ma proprio su questa base, essi sono limitati e quindi sopportabili (questo vale per le malattie, facilmente sopportabili se lunghe, di breve durata o fatali se molto dolorose) grazie alla ragione che conosce il limite naturale del dolore. Leopardi condivide che, se l’uomo fosse

sostanzialmente felice, probabilmente sopporterebbe i dolori e le disgrazie accidentali. Ma Leopardi vede nel dolore l’unica verità (il piacere è solo apparente, solo “il dolore la noia ec. non hanno questa qualità [la vanità]”964). In un pensiero che, presente già nel 1822, sarà ripreso cinque anni dopo nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, Leopardi spiega che è proprio perché un male accidentale non sarà mai compensato da un vero piacere che anche il male accidentale diventa insopportabile: “di più l’uomo dev’esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori, sventure […]. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l’essere noccia all’esistente, e che il non essere sia preferibile all’essere”965.

Per Epicuro il piacere dell’anima può vincere gli stati dolorosi accidentali del corpo; per Leopardi l’uomo non è superiore ai mali accidentali: in polemica contro

962 Zibaldone, 4511 (17 maggio 1829); corsivi di Leopardi.

963 I mali accidentali assumono un significato diverso rispetto a quello che avevano prima: nel Dialogo

della natura e di un Islandese (21-30 maggio 1824) i mali non sono più pensati come accidenti all’interno di un ordine volto al bene, ma come torture sistematiche protratte dalla natura nei confronti delle creature.L’idea della presenza dei mali all’interno dell’ordine della natura in quanto necessari ai beni (“più si gusta […] la calma dopo la tempesta” recitava il pensiero del 7 agosto 1822), argomento usato per dimostrare la benevolenza della natura nei confronti dell’uomo anche in relazione al male, viene recuperato ne La quiete dopo la tempesta del 1829, ma stravolto nel suo significato, trasformandosi in un’accusa alla natura, che non sa fornire ai mortali che un “piacer figlio d’affanno” e quindi vano e ingannevole. In questa fase l’equazione natura-illusione si trasforma nell’equazione natura-inganno: “perché di tanto inganni i figli tuoi?” (A Silvia); cfr. La quiete dopo la tempesta (“piacer figlio d’affanno; / gioia vana ch’è frutto / del passato timore”). Come sempre in Leopardi, tra le due concezioni non vi è una separazione temporale netta: l’idea che i pericoli ed i travagli siano utili a riavvicinare alla vita si trova ad esempio nel Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez (19-25 ottobre 1824).

964 Zibaldone, 166 (12-23 luglio 1823) 965

189 l’autosufficienza della ragione del saggio rispetto agli avvenimenti accidentali della “fortuna”, Leopardi adduce la dimostrazione che la ragione spesso soccombe alle malattie (ad esempio la follia): “Non soggiacerebbe alla fortuna quella stessa disposizione d’animo, che questi presumono che ce ne debba sottrarre? La ragione dell’uomo non è sottoposta tutto giorno a infiniti accidenti? innumerabili morbi che recano stupidità, delirio, frenesia furore, scempiaggine, cento altri generi di pazzia breve o durevole, temporale o perpetua; non la possono turbare, debilitare, stravolgere, estinguere? In fine è grande stoltezza confessare che il nostro corpo è soggetto alle cose che non sono in facoltà nostra, e contuttociò negare che l’animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna fuori che a noi medesimi”966. Per questo Leopardi (che in Ottonieri, al quale fa pronunciare le parole appena citate, rappresenta se stesso) preferisce e contrappone l’etica teofrastea – che rompe lo schema razionalistico di identità conoscenza-virtù e felicità attribuendo un peso fondamentale alla fortuna e quindi ai mali accidentali – alle etiche ellenistiche (tra le quali rientra anche l’epicurea), che ritengono che la felicità sia sostanziale, cioè raggiungibile da tutti gli uomini, benché colpiti da disgrazie accidentali. Teofrasto “certamente non Epicureo né per vita né per massime” ha compreso “l’impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità”967.

La coscienza dell’infelicità umana propria dell’uomo moderno, essendo legata allo sviluppo della ragione, è irreversibile, nel senso che il ritorno ad uno stato primitivo,

naturale, illuso, non è più possibile. L’intelletto dell’uomo moderno infatti è molto più sviluppato dell’antico e quindi non si può ingannare. Tuttavia Leopardi ritiene che un riavvicinamento alla natura possa darsi ancora attraverso uno stimolo dell’immaginazione, di cui è capace la poesia968. La poesia pur non in grado di illudere l’intelletto, può tuttavia illudere l’immaginazione, “dilettarci la fantasia”, come Leopardi scrive nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (la

966 Detti memorabili di Filippo Ottonieri (1824), capitolo secondo 967 Zibaldone, 316-317 (11 novembre 1820)

968 Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818). L’Inno ai patriarchi (1822), Alla

primavera (1822), cantano i progenitori del genere umano, le illusioni degli antichi e la loro vicinanza con la natura, da essi concepita come un’entità partecipe delle sofferenze umane.

190 distinzione tra “inganni dell’intelletto”, errori dei quali si deve ridere, come la falsa credenza che la vita sia felice, e “inganni dell’immaginazione” si ritrova nel Dialogo

di Tristano e di un amico del 1832).

Anche per Leopardi il linguaggio riveste perciò un ruolo di produttore di piacere, ma non quando dice il vero, bensì quando illude, ovvero quando è usato in senso poetico. Mentre Epicuro ritiene terapeutico (ovvero funzionale al piacere) un uso esatto, scientifico, delle parole, secondo Leopardi le parole della poesia non vanno confuse con i termini della scienza: “le parole […] non presentano la sola idea dell’oggetto significato, ma quando più quando meno immagini accessorie. […] Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti”969. I termini hanno la caratteristica della “precisione”970, poiché corrispondono ad un’analisi delle idee che, nel corso del progresso del sapere umano, diventa sempre più minuta. Le parole della poesia sono evocative, lasciano spazio all’immaginazione, mentre i termini scientifici, che sono uguali per tutti (“la repubblica scientifica diffusa per tutta l’Europa ha sempre avuto una nomenclatura universale ed uniforme”971), definiscono l’oggetto, togliendo spazio all’immaginazione: “è proprio ufficio de’ poeti e degli scrittori ameni il coprire quanto si possa la nudità delle cose, come è ufficio degli scienziati e de’ filosofi il rivelarla. Quindi le parole precise convengono a questi, e sconvengono per lo più a quelli”972. I termini, che devono essere utilizzati in ambito scientifico, non sono adatti alla poesia: “quindi la secchezza che risulta dall’uso de’ termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti”973. A differenza di quanto pensa la terapia epicurea, secondo la quale per eliminare il turbamento e quindi raggiungere la felicità è essenziale un utilizzo esatto e non equivoco del linguaggio, secondo Leopardi non è la precisione dei termini a dare piacere, ma l’uso indefinito che delle parole fa la poesia, ma anche

969 Zibaldone, 109-110 (20 aprile 1820)

970 Zibaldone, 1234 sgg. (28 giugno 1821); corsivo di Leopardi. 971 Zibaldone, 1214-1215 (26 giugno 1821)

972 Zibaldone, 1226 (26 giugno 1821) 973 Zibaldone, 1235-1236 (28 giugno 1821)

191 certa prosa974. La metafora è piacevole e poetica perché non divide, come i termini,

non “delimita” una sfera semantica, ma “raddoppia o moltiplica l’idea rappresentata dal vocabolo […] ella è così piacevole perché rappresenta più idee in un tempo stesso (al contrario dei termini)”975. Se secondo Epicuro i termini precisi permettono di