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IV) L’ILLIMITATEZZA DEL DESIDERIO E LA COSTITUTIVITÀ DELLA NOIA

PIACERE CATASTEMATICO E PIACERE CINETICO

4. IV) L’ILLIMITATEZZA DEL DESIDERIO E LA COSTITUTIVITÀ DELLA NOIA

Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

(Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato)

La prima formulazione della teoria del piacere viene svolta da Leopardi in un lungo pensiero dello Zibaldone del luglio 1820790. Il tratto saliente di questo “trattatello” è la distinzione tra il desiderio di un piacere (“un tal piacere”) e il desiderio del piacere (un “piacere astratto e illimitato”). Leopardi sostiene che nel desiderare un piacere particolare l’uomo in realtà desidera la soddisfazione del desiderio infinito del piacere connaturato con l’esistenza (il desiderio infinito è connaturato con l’esistenza nel senso che, come abbiamo visto nel paragrafo 4. II, ha la sua origine materiale nell’amor proprio). Ma la “tendenza nostra verso un infinito” è incolmabile, in quanto contrasta con “la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo”791. Infatti “conseguito un piacere, l’anima non cessa di desiderare il piacere”792. Ogni piacere, essendo limitato, non è in grado di dare la felicità all’uomo

che, amando se stesso di un amor proprio infinito793, desidera “una infinità di piacere,

ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato”794. Dall’impossibilità di riempimento del desiderio infinito deriva “il sentimento della nullità di tutte le cose”, che è posto perciò come coincidente con il desiderio infinito, rappresentandone la faccia negativa. Anche per Epicuro l’uomo non cerca la soddisfazione di singoli piaceri particolari, ma cerca uno stato di piacere che coinvolga l’intero composto psico-somatico in modo permanente. Solo che per Epicuro il piacere è raggiungibile perché il desiderio

790 Zibaldone, 165-183 (12-23 luglio 1820)

791 Zibaldone, 165 (12-23 luglio 1820), corsivo mio. 792 Zibaldone, 183 (12-23 luglio 1820);corsivo mio. 793 Zibaldone, 646-647 (12 febbraio 1821)

154 è limitato: una volta raggiunto il piacere catastematico non può esservi un aumento del piacere, di conseguenza non c’è più desiderio del piacere, ma solo di piaceri particolari, non necessari, quindi non determinanti dal punto di vista del piacere catastematico. Per Leopardi invece non si dà mai soddisfazione del desiderio del piacere, si possono solo conseguire dei piaceri particolari, che in quanto finiti sono del tutto insufficienti a soddisfare la ricerca del primo, sia per durata (e anche se durassero infinitamente, subentrerebbe l’assuefazione, che spegne il piacere795), che per estensione (poiché ottenuto un piacere, ne vorremmo un altro). Il desiderio umano vuole “un piacere che riempisse tutta l’anima”796, ma nessuno dei piaceri particolari è in grado di riuscirci. Già nel pensiero 140-141 – il quale, benché non nomini la noia, nell’Indice del mio Zibaldone di pensieri steso da Leopardi è posto sotto la voce “Noia” – il “sentimento vivo della nullità di tutte le cose” è identificato con la “immensità del vuoto che si sente nell’anima”. La noia è appunto questo “vuoto dell’anima”797 dovuto all’impossibilità di riempire il desiderio infinito con dei piaceri particolari e finiti e costituisce perciò il residuo ineliminabile lasciato dalla soddisfazione di ogni desiderio particolare. Il sentimento della nullità di tutte le cose non deriva da nient’altro se non dall’infinità materiale dell’amor proprio: senza “la tendenza imperiosa dell’uomo al piacere […] la noia […] non esisterebbe”. Nella noia il piacere rivela tutta la sua vanità, dovuta proprio alla sua finitezza che lo rende insufficiente a soddisfare il desiderio infinito di felicità ingenito nell’uomo. Ogni piacere è “cosa vanissima sempre […] quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità”798: soltanto la noia è sentimento verissimo, indubitabile: alla fine del pensiero 140-141 la condizione in cui l’anima sente la “nullità di tutte le cose” è definita come “ragionevolissima anzi la sola ragionevole”. Porfirio afferma che “nessuna cosa è più ragionevole che la noia” in quanto “solo la noia non è fondata in sul falso”799, ossia è l’unico sentimento vero. La noia, nella sua verità, svela l’esistenza meramente apparente di ogni piacere, che è sempre solo parvenza (illusione) di piacere: “nessun

piacere […] è reale relativamente a chi lo prova […] nell’atto del piacere […] il vivente non può provar pieno piacere; dunque non vero piacere”800.

795 Cfr. Zibaldone, 2599 (7 agosto 1822): “V’è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è

uniformità, e perciò noia ancor essa, benché il suo oggetto sia il piacere”.

796 Zibaldone, 166 (12-23 luglio 1820)

797 Zibaldone, 166 (12-23 luglio 1820). Cfr. Zibaldone, 88-89. 798 Zibaldone, 166 (12-23 luglio 1820)

799 Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827)

155 Si può dire che secondo Leopardi la noia è quello stato intermedio tra piacere e dolore la cui esistenza è negata da Epicuro: “chi dice assenza di piacere e dispiacere dice noia”801, poiché la noia occupa “tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai

piaceri e ai dispiaceri”802. Ma se da una parte la noia è “il vuoto stesso dell’animo

umano”803, ovvero si identifica con il sentimento di vuoto lasciato dall’assenza di piacere e di “dolor positivo”804 (ovvero dolore causato da mali reali); dall’altra la noia occupa questo vuoto (“nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente […] intermette l’uso del pensiero”805) e in questo “riempirlo” essa non è pura apatia, poiché il vivente in quanto tale non può essere apatico, non può cioè non sentire la propria vita: è proprio perché il vivente “sente di vivere” che “sempre che non gode né soffre, non può fare che non s’annoi”, ovvero è “rispetto alla natura del vivente” che “l’una [l’assenza di piacere e dispiacere] senza l’altra [la noia] […] non può assolutamente stare”806. Quindi in questo senso, cioè non essendo uno stato di apatia, la noia non è stato intermedio tra piacere e dolore (la noia è “quasi senza dolore”807). In questo senso, appunto, e non contraddicendosi, Leopardi può dire che “Né v’ha stato intermedio […] tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere […] quando e’ non gode, ei soffre”808. La noia non è un dolore provocato da un male “positivo”: nella noia l’uomo si sente male “quando non ha male nessuno”809. Ma benché non sia un male positivo, la noia “è pur passione”: una passione continua e dolorosa. La “perpetua continuità” della noia è legata all’imprescindibilità dell’esistenza dall’amore di se stessa: “la noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro”810. A ciò si deve appunto la continuità della noia: “dico un patimento così continuo – afferma Plotino – come è

801 Zibaldone, 3714 (17 ottobre 1823); cfr. Zibaldone, 3880 (13 novembre 1823): “l’assenza dell’uno e

dell’altro [ovvero del piacere e del dolore] è noia per sua natura”.

802 Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1824) 803 Zibaldone, 3714 (17 ottobre 1823)

804 Zibaldone, 174 (12-23 luglio 1820)

805 Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare (1824) 806 Zibaldone, 3714 (17 ottobre 1823)

807 Zibaldone, 141 (27 giugno 1820)

808 Zibaldone, 3551 (29 settembre 1823). Si veda anche Zibaldone, 2552-2553 (5 luglio 1822): “la

negazione […] del piacere […] non è un semplice non godere, ma è un patire”; quindi se il vivente non prova il piacere che desidera perpetuamente egli non si trova in uno stato di semplice apatia, ma di sofferenza: “tra la felicità e l’infelicità non v’è condizione di mezzo”.

809 Zibaldone, 174 (12-23 luglio 1820) 810 Zibaldone, 3714-3715 (17 ottobre 1823)

156 continuo il desiderio e il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non è adempiuto mai”811.

È chiaro perché, se per Epicuro non si dà uno stato di piacere misto a dolore, per Leopardi invece “tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere”: i singoli piaceri provati di volta in volta infatti solo apparentemente sono piaceri, in quanto lasciano insoddisfatto il reale desiderio del piacere. Il piacere – dice Farfarello a Malambruno – è sempre misto a dolore, perché anche quando si prova piacere lo sfondo rimane l’infelicità: “negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa”812. Leopardi fa dire a Plotino: “So ben io che il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe eletto da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere. […] Ma la deliberazione non cade tra questi termini: perché il godimento e il piacere, a parlar proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è inevitabile”813.

Per Epicuro il piacere catastematico è uno stato (kata-sthmatikh/) presente; per Leopardi il piacere non è mai uno stato, poiché non è mai presente, in quanto non è mai pienamente raggiungibile. Anzi per Leopardi non solo il piacere non è uno stato permanente (come il piacere catastematico epicureo), ma non è nemmeno uno stato momentaneo, un piacere dell’istante: “nemmeno in quel punto [nemmeno nel punto di massimo piacere] niuno mai si trovò pienamente soddisfatto”, poiché neanche in quel punto il vivente prova “un vero e presente piacere”. “Se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (…) egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre”814, invece così non è: anzi, nel punto più alto del piacere – quando il desiderio è maggiore e più vivo e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere […] e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità […] senza però poterla afferrare” – si sente di più la pena del “desiderare invano”815. Il piacere per Leopardi non è uno stato, bensì un movimento, come per i Cirenaici, contrapposti dalle fonti ad Epicuro su questo punto. Tuttavia ciò non rende la posizione leopardiana assimilabile a quella dei Cirenaici. Infatti, benché i Cirenaici ritengano che l’eu)daimoni/a (da essi intesa come somma di piaceri) sia difficilmente

811 Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827) 812 Dialogo di Malambruno e Farfarello (1824) 813 Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827) 814 Zibaldone, 2883-2884 (3 luglio 1823) 815 Zibaldone, 3876-3877 (13 novembre 1823)

157 raggiungibile, essi pensano che il singolo piacere, che essi identificano con il te/loj, invece lo sia. Anche per i Cirenaici il dolore non è mai completamente eliminabile (il saggio vive una vita piacevole non del tutto, mh/te pa/nta, ma solo per lo più, kata£ toì plei=ston; anch’egli infatti proverà dolore e paura, luph/sesqai kai£ fobh/sesqai, perché questi stati d’animo sono fusikw=j, naturali), ma nei momenti in cui prova un determinato piacere l’uomo sperimenta un piacere reale (ei)=nai/ te thìn merikhìn h(donhìn di’au(thìn ai(reth/n)816. Si può dire che per Leopardi il

piacere è movimento in quanto non esiste mai nella realtà, ma esclusivamente nella “speranza” di ottenere l’oggetto del desiderio, ovvero nella “tensione verso” il piacere. È per questo che nel momento in cui sta provando un piacere, fosse anche il massimo, il vivente non desidera che quel piacere si prolunghi in eterno817. Nemmeno in quel momento infatti il suo desiderio infinito tace: non soddisfatto da quel piacere, non depone “la speranza di un maggiore ed assai maggior piacere”818. Eppure quello stesso piacere che provato presentemente non soddisfa il desiderio, diventa a sua volta desiderato quando è finito, ma solo perché non lo si possiede più: “dopo passato quel tal punto l’uomo spesse volte desidera che tutta la vita fosse conforme a quel punto. Ma egli ha il torto, perché ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo”819. È il messaggio che Leopardi affiderà nel 1829 a Il sabato del villaggio (è il desiderio della domenica che rende piacevole il sabato, cioè la domenica è piacevole solo quando e perché è desiderata), sintetizzato nella massima di Rousseau annotata nello

Zibaldone qualche mese prima della stesura del canto: “L’on n’est heureux qu’avant d’être heureux. ROUSSEAU, Pensée, I, 204. Cioè per la speranza.”820 Il piacere non è nell’ottenimento dell’oggetto, poiché non è nell’oggetto reale (che è finito, imperfetto, quindi delude il desiderio), ma nell’oggetto desiderato, cioè immaginato. Il piacere esiste solo nell’immaginazione che si rappresenta l’oggetto, poiché quando lo si ottiene nella realtà non si prova il piacere sperato: la donna amata che, “presente”, al Tasso pare una donna, “lontana”, cioè desiderata, sognata (immaginata), sembra una dea821. Conformemente alla teoria leopardiana – richiamata nel paragrafo 4. II – che

816 Diogene Laerzio, II 86 su Aristippo. 817 Zibaldone, 2883 (3 luglio 1823) 818 Zibaldone, 2884 (3 luglio 1823) 819 Zibaldone, 2884 (3 luglio 1823) 820 Zibaldone, 4492 (21 aprile 1829)

158 tutti i sentimenti sono semplicemente degli effetti derivati da un unico principio, cioè l’amor proprio, si può affermare che se la noia è il desiderio infinito lasciato senza oggetto, il piacere è sempre il medesimo desiderio infinito quando spera, si immagina, di ottenere un dato oggetto. Il piacere si identifica con il desiderio (“il piacere è […] un desiderio, non un fatto” dice a il Genio a Torquato Tasso) quando questo desiderio è occupato, quando vuole qualcosa e si attiva per ottenerlo, credendo di raggiungere l’appagamento nel possesso di tale cosa. Ma quando la cosa è posseduta, la sua finitezza si rivela insufficiente a colmare l’infinità del desiderio. I prìncipi, dice Porfirio, si uccidono per noia, perché avendo tutto, non hanno più speranza di poter avere di più e di meglio: “sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere”822.

Anche l’affermazione del piacere come cessazione del dolore (piacere “figlio di affanno”823) ha un senso completamente diverso da quello epicureo. Che il piacere consista nella cessazione del dolore o nell’essere scampati ad esso accentua lo statuto apparente e non reale attribuito al piacere nella teoria leopardiana. Secondo Epicuro il piacere è lo stato duraturo che deriva dall’eliminazione completa di ogni dolore: è uno stato di piacere reale e che si prolungherà nel tempo. Secondo Leopardi invece il piacere è solo negativo, nel senso che è solo relativo al dolore824: è solo una sensazione di apparente sollievo (e l’apparenza del piacere rispetto al dolore lega strettamente questa che alcuni distinguono come “seconda” teoria del piacere alla “prima”825 esposta nello Zibaldone nel 1820) di breve durata. L’assenza di dolore per

Epicuro è una sensazione di pienezza permanente derivante dalla vittoria del piacere sul dolore; mentre secondo Leopardi il dolore è la vera condizione dell’esistenza e il piacere è solo apparente poiché in quei brevi momenti in cui proviamo piacere non stiamo sperimentando una felicità vera, ma crediamo di provare piacere solo perché abbiamo evitato un dolore. Il piacere non deriva per Leopardi da una vittoria della

822 Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827)

823 La quiete dopo la tempesta (1829); ma già la prima formulazione della teoria del piacere del 1820

(Zibaldone, 175 (12-23 luglio 1820)) afferma che “è più dolce il guarir dai mali, che il vivere senza mali”; anche nella Storia del genere umano e nel Cristoforo Colombo, entrambi del 1824, vi è l’idea che il piacere deriva dall’essere scampati a un pericolo (cfr. Zibaldone, 2555 (9 luglio 1822)).

824 La concezione del piacere come puramente negativo rispetto al dolore è propria degli idéologues: si

veda Folin (2001).

825 Tilgher (1940) ha distinto questa (a suo parere seconda) teoria del piacere dalla prima, secondo

Timpanaro (1988) correttamente, anche se in modo troppo marcato (p. 388). Derla (1972), con la cui convizione concordo, sostiene invece, p. 148, n. 1, che esiste “una sola teoria del piacere, e non le due o tre che secondo alcuni L. avrebbe successivamente escogitate, perché […] egli non fece che approfondire e perfezionare quell’unica teoria il cui nucleo originario formulò appunto nel luglio 1820”.

159 ragione sul dolore (eliminazione completa del dolore), bensì dalla fortuna che abbiamo avuto a scampare un pericolo.

Se il dolore è la condizione vera dell’esistenza, non la verità, bensì l’illusione è il carattere costitutivo di ogni rimedio, che, in quanto illusorio e quindi impotente contro la verità della noia, non sarà in grado di fornire che un piacere apparente, non reale. La soddisfazione del desiderio infinito non può darsi che sotto forma di illusione del desiderio stesso. Se il desiderio vuole l’infinito, non potendo averlo nella realtà, proverà comunque piacere credendo che esso esista. Per questo la natura, non potendo dargli un piacere infinito, lo ha dotato della “facoltà immaginativa”, il cui oggetto appunto è il piacere infinito: “ella può figurarsi dei piaceri che non esistano, e figurarseli infiniti”. Quindi “il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni”826. Neanche la facoltà immaginativa, essendo una facoltà materiale come il desiderio infinito, rivela la grandezza dell’anima o l’esistenza di una trascendenza. L’oggetto infinito che essa si rappresenta è infatti illusorio: nell’immaginazione l’infinito assume le sembianze dell’indefinito, una parvenza di infinito: l’anima “[non] concepisce effettivamente nessuna infinità”, poiché “neanche l’immaginativa è capace dell’infinito […], ma solo dell’indefinito”827. La conciliazione del desiderio infinito del piacere con la finitezza dell’oggetto piacevole operata dall’immaginazione828 è una conciliazione solo apparente, illusoria appunto, potendo essa agire solo in virtù della copertura della reale finitezza dell’oggetto del desiderio. L’anima “confonde l’indefinito con l’infinito”829, ma l’indefinito è solo un’apparenza di infinito: ciò che è vago, lontano, nascosto (la “siepe, che […] dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”830), appare infinito appunto perché lascia spazio all’immaginazione. Se l’infinito esiste solo nell’immaginazione che se lo rappresenta come indefinito sono gettate le basi per l’identificazione dell’infinito con il nulla831: “il piacere che deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perché l’indefinito non si

826 Zibaldone, 167-168 (12-23 luglio 1820) 827 Zibaldone, 472 (4 gennaio 1821); corsivo mio.

828 Folin (2001), p. 26, definisce l’immaginazione come facoltà data all’uomo dalla natura per colmare

la discrasia tra desiderio del piacere e piacere.

829 Zibaldone, 472 (4 gennaio 1821) 830 L’infinito (1819), vv. 2-3.

831 Secondo Mariani (1976) il passaggio dall’infinito-indefinito all’infinito-nulla è determinato dalla

svolta materialistica di Leopardi. Tuttavia è necessario specificare come l’indefinito, nella sua esistenza puramente immaginata, sia già un infinito-nulla (come dimostra il passo di Zibaldone, 647 (12 febbraio 1821)), e come l’infinito svelato esplicitamente come nulla continui ad avere una sua persistenza (solo e proprio) in quanto rappresentazione del soggetto.

160 possiede, anzi non è”832. Per questo non può che lasciare l’anima non pienamente soddisfatta.

Anche per Epicuro l’infinito desiderato dall’uomo è solo oggetto di una opinione falsa, ma in un senso diverso da quello leopardiano. Per Epicuro l’uomo non desidera l’infinito naturalmente, ma solo a causa di un’opinione vuota. Nella sua prospettiva non è l’oggetto finito che non è in grado di soddisfare il soggetto, ma il soggetto che ha un atteggiamento sbagliato nei confronti dell’oggetto, perché crede erroneamente che il proprio desiderio sia infinito. Perciò Epicuro pensa che per ottenere il piacere debba essere rimossa la falsa opinione sottostante al desiderio di infinito. Anche Leopardi professa l’“orrore” del vuoto (identificando l’orrore dell’uomo per la noia con l’orror vacui degli antichi fisici)833: anche per lui, come per Epicuro, il vuoto coincide infatti con l’illimitatezza del desiderio, che rende impossibile la sua soddisfazione. Solo che Epicuro può rimuovere il desiderio vuoto di infinito perché esso è il prodotto di un’opinione falsa e quindi può curare il dolore che deriva dall’insoddisfazione del desiderio infinito, mostrando l’infinito nella sua nullità e il desiderio nella sua finitezza. Per Leopardi, benché sia vuoto, il desiderio di infinito non è innaturale, bensì connaturato con l’esistenza, ineliminabile. Per Leopardi il desiderio umano vuole naturalmente l’infinito: il soggetto non è padrone del suo atteggiamento verso l’oggetto perché non è padrone del suo desiderio infinito834. È inevitabile quindi che Leopardi ritenga che solo un oggetto infinito potrebbe soddisfare il desiderio. Ma come per Epicuro, anche per Leopardi l’infinito che l’uomo desidera non esiste nella realtà, bensì solo come oggetto di rappresentazione illusoria, ovvero falsa (cioè della facoltà immaginativa). Anche per Leopardi quello di infinito è un desiderio vuoto, senza oggetto, ossia è desiderio di nulla, in quanto l’infinito che esso desidera, esistendo solo come “parto dell’immaginazione”, è nulla. Ma se per Epicuro alla nullità dell’oggetto infinito corrisponde la falsità del desiderio infinito, che ne rende possibile l’amputazione (poiché il desiderio vuoto è falso); per Leopardi la falsità dell’oggetto infinito desiderato si scontra con la verità del desiderio infinito (la verità della noia, del vuoto del desiderio). Per questo la falsificazione, compiuta dalla ragione, della rappresentazione illusoria (e tuttavia per Leopardi altrettanto naturale che il desiderio infinito: poiché se il desiderio di infinito è

832 Zibaldone, 647 (12 febbraio 1821); corsivo mio. 833 Zibaldone, 175 (12-23 luglio 1820).

161 naturale, allora è naturale anche il tentativo dell’immaginazione di colmarlo) che l’immaginazione si fa dell’infinito non è fonte di piacere, bensì di dolore. Se il vuoto della noia è l’unica verità la terapia non potrà consistere nella conoscenza della verità, bensì nella sua copertura.

Il desiderio, oltre che nell’immaginazione, può essere illuso anche in altri modi. Se il dolore deriva dalla consapevolezza che non è possibile ottenere il piacere, altri rimedi sono “o distrazione o letargo”835.

Già nel 1820 Leopardi definisce la noia come “una mancanza del piacere che è l’elemento della nostra esistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo”836, individuando così nella distrazione uno dei rimedi alla noia. La distrazione “è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano”, poiché se il desiderio