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II) DETERMINAZIONE MATERIALE DELLA NATURA UMANA

ANTIPROVVIDENZIALISMO DELLA NATURA E BEATITUDINE DIVINA

4. II) DETERMINAZIONE MATERIALE DELLA NATURA UMANA

Dicendo: “Addio, sole!”Cleombroto d’Ambracia da un alto muro si gettò nell’Ade. Non gli era capitato alcun male, che fosse degno di morte: aveva solo letto uno scritto di Platone: quello intorno all’anima.

(Callimaco, Epigrammi, XXIII)

Leopardi non parte da un’idea a priori della natura umana per determinarne il fine, bensì la definisce a partire dall’osservazione (come – si vedrà – fa anche Epicuro). L’esperienza mostra che l’uomo vuole la felicità e che la felicità è identica al piacere: come per Epicuro, anche per Leopardi l’uomo tende per natura al piacere, ovvero la natura umana è essenzialmente desiderio del piacere. Solo che a differenza di Epicuro, egli sostiene che l’uomo è desiderio infinito del piacere651.

Leopardi si interroga sulle ragioni dell’infinità del desiderio, interrogativo al quale egli fornisce una risposta materiale, non trascendente652: egli non passa cioè dalla constatazione di una tensione infinita del desiderio all’esistenza di una trascendenza. Se nelle prime riflessioni dello Zibaldone dell’aprile 1820, in un contesto che svela l’influenza della formazione cristiana del giovane Leopardi, egli crede ancora che il sentimento della nullità delle cose provi l’esistenza di una facoltà altra dalla materia (“perché il sentire la nullità di tutte le cose sensibili e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e comprendere oggetti di natura diversa e contraria, ora questa facoltà come potrà essere nella materia?”653) e ritiene che l’impossibilità di ottenere la felicità in questa vita dimostri l’immortalità dell’anima, ovvero l’esistenza di una vita ultraterrena in cui l’anima potrà essere felice e dove verrà tolta quindi la contraddizione in cui l’infelicità umana consiste654, le considerazioni con cui si apre la prima formulazione zibaldoniana della teoria del piacere, nel luglio 1820, rivelano la svolta antispiritualista di Leopardi: “Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la

651 Zibaldone, 165 sgg.

652 Nel tracciare le analogie della teoria leopardiana del piacere con la riflessione sensistico-

eudaimonistica del Settecento (Maupertuis, Verri), Folin (2001) individua la peculiarità della prima nel fatto che essa sfocia in considerazioni metafisiche sulla natura umana estranee agli illuministi.

653 Zibaldone, 107 (marzo o aprile 1820) 654 Zibaldone, 40

130 tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale”655. La radice materiale del desiderio infinito del piacere è l’amor proprio infinito connaturato con l’esistenza656. L’empirismo di Leopardi gli impone di fermarsi alla constatazione dell’evidenza: non è lecito passare dal materiale allo spirituale, ma è necessario fermarsi al significato materiale dell’infinità del desiderio: lo spirituale che noi concepiamo nei nostri desideri “non è altro […] che l’infinità o l’indefinito del materiale”657. Il desiderio è tensione verso l’infinito (desiderio infinito della propria felicità), ma secondo Leopardi questa tensione non porta a trarre nessuna conclusione spiritualistica: “L’infinità della inclinazione dell’uomo al piacere è una infinità materiale, e non se ne può dedur nulla di grande o d’infinito in favore dell’anima umana”658. L’infinito cui il desiderio umano anela è infatti un infinito materiale, non spirituale: “tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene”659. Il piacere infinito che il desiderio vuole è un piacere sensibile, da ottenere in questa vita: “Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (…), quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de’ viventi”660. L’infinità del desiderio non rivela alcuna tensione verso un infinito trascendente: i nostri desideri “non si estendono mai fuori della materia”661. Per questo la religione, che cerca di promuovere la giustizia terrena e vietare il suicidio proponendo un aldilà dove la beatitudine è astratta, non riesce a convincere gli uomini a comportarsi correttamente, perché le sue promesse di una felicità lontana e diversa da quella desiderata non fanno presa sull’animo umano (“non è possibile che l’uomo mortale desideri veramente la felicità de’ Beati”662),

655 Zibaldone, 165 (12-23 luglio 1820)

656 Sull’infinità dell’amor proprio, che di conseguenza è identico in tutti gli individui, si veda

Zibaldone, 2155 (23 novembre 1821): “l’amor proprio come non può scemare, così non può mai crescere in verun individuo, dal principio della vita alla fine […]. E per conseguenza egli è tanto in ciascun momento della vita, quanto in ciascun altro […]. La massa dell’amor proprio è altresì precisamente la stessa in ciascun vivente di qualsivoglia specie, perocch’essa è infinita” (corsivo di Leopardi).

657 Zibaldone, 1026 (9 maggio 1821) 658 Zibaldone, 179-181 (12-23 luglio 1820) 659 Zibaldone, 3501 (23 settembre 1823) 660 Zibaldone, 3500 (23 settembre 1823)

661 Zibaldone, 1025-1026 (9 maggio 1821); cfr. Zibaldone, 3503 (23 settembre 1823) 662 Zibaldone, 3499 (23 settembre 1823)

131 come al contrario riesce a fare il timore di castighi corporali663. L’uomo cerca la felicità dell’uomo: vuole sì una felicità infinita, ma infinita nel suo genere: non vuole una felicità che comprenda quella del bue o della pianta; ma non può desiderare nemmeno la felicità di dio. Il piacere che l’uomo desidera è naturalmente infinito, ma pur sempre di tipo sensibile: “quanto alla infinità, l’uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all’altre qualità ed al genere di essa felicità, l’uomo non potrebbe veramente desiderare la felicità di Dio”664.

Una volta svelata la sua radice materiale, l’infinità del desiderio non fornisce più un argomento a favore della spiritualità dell’anima, né della sua immortalità, come vorrebbero invece “gli scrittori religiosi”665. L’idea che la tensione verso l’infinito dimostri l’immortalità dell’anima viene confutata quando l’infinito viene svelato come creazione della facoltà immaginativa (“parto della nostra immaginazione”666) che lo produce al fine di soddisfare almeno illusoriamente il desiderio. Se nell’aprile 1820 la ragione (che per questo è ancora distinta dal sentimento della nullità di tutte le cose) è definita “la facoltà più materiale che sussista in noi”, poiché “le sue operazioni materialissime e matematiche si potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia”667, in seguito alla formulazione della teoria del piacere anche l’immaginazione viene svelata nella sua origine materiale – che è il bisogno del desiderio infinito di produrre l’infinito – e per questo aspetto identificata con la ragione (“immaginazione e intelletto è tutt’uno”), poiché le varie facoltà che vengono attribuite all’anima in realtà non sono che modificazioni accidentali di pochi principi: “noi discorrendo degli effetti che sono infiniti e infinitamente variabili secondo le circostanze, le assuefazioni, e gli accidenti, moltiplichiamo gli elementi, le parti, le forze del nostro sistema [cioè della macchina umana], e dividiamo, e distinguiamo, e suddividiamo delle facoltà, dei principii, che sono realmente unici e indivisibili”668. Attraverso la teoria del piacere Leopardi approda ad una concezione dell’uomo come “macchina umana”669. La teoria del piacere infatti, stabilendo la derivazione di tutti i vari fenomeni osservati nel comportamento dell’animo umano da un unico

663 Zibaldone, 3506 (23 settembre 1823); cfr. il Dialogo di Plotino e di Porfirio. Sul giudizio

leopardiano sulla religione si veda anche infra, paragrafo 4. VIII.

664 Zibaldone, 3498, nota a margine (23 settembre 1823); corsivi miei. 665 Zibaldone, 181 (12-23 luglio 1820)

666 Zibaldone, 4177 (2 maggio 1826) 667 Zibaldone, 106-107 (marzo o aprile 1820) 668 Zibaldone, 2132-2134 (20 novembre 1821) 669 Zibaldone, 2133 (20 novembre 1821)

132 principio – l’amore del piacere conseguenza dell’amor proprio670 – consente una spiegazione in termini materiali di tutti i sentimenti e le facoltà dell’animo umano. “Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà”671: non esiste una facoltà dell’anima che non sia proprietà della materia, quindi l’anima è totalmente materiale (e di conseguenza mortale). Lo spirito non esiste, se non come puro “nome”672: gli uomini hanno chiamato l’anima “spirito” (immateriale) solo perché non credono la materia capace delle facoltà che ha673, come ad esempio quella del pensiero. Siccome non si sa in che modo dalla materia si sviluppi il pensiero, si è dato come “assioma” (pur non essendo mai riusciti a provarlo) che la materia non può pensare, per arrivare a dimostrare l’esistenza dello spirito674. Ma il fatto che lo spirito sia definibile solo negativamente a partire dalla materia (“sostanza che non è materia”675), dimostra che nell’esperienza non si conosce alcuna sostanza spirituale. Leopardi ritiene che l’esistenza dello spirito sia indimostrabile e critica i leibniziani, che ritengono di trovare lo spirituale scomponendo la materia fino alle sue parti più semplici: “affinate quanto volete l’idea della materia, non oltrepasserete mai la materia”. Per un empirista come Leopardi il passaggio dal materiale allo spirituale non è lecito: “dall’esistenza della materia (contro ciò che pensa Leibnizio) non si può argomentare quella dello spirito”676. Quindi, come qualsiasi altra facoltà dell’anima, anche il pensiero è proprietà della materia677. Benché la materia pensante sia sempre stata considerata dai filosofi – anche da “grandi spiriti, come Bayle”678 – come un paradosso, paradossale è piuttosto credere che la materia non pensi, perché è l’evidenza che dimostra il contrario: “che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che

670 Zibaldone, 181-182 (12-23 luglio 1820) 671 Zibaldone, 1657 (9 settembre 1821)

672 Zibaldone, 602 (4 febbraio 1821) e 4253 (9 marzo 1827) 673 Zibaldone, 603 (4 febbraio 1821)

674 Zibaldone, 4252-4253 (9 marzo 1827).

675 Zibaldone, 4206-4208 (26 settembre 1826); corsivo di Leopardi. Nel commentare questo pensiero,

Damiani (1993), p. 103, lega questa inconoscibilità attribuita da Leopardi allo spirito all’inconoscibilità delle forze che muovono la materia, anche se nota giustamente che dal tono “scettico” dell’inizio, in cui lo spirito viene definito inconoscibile, il passo assume alla fine una portata polemica antispiritualistica.

676 Zibaldone, 1636 (5 settembre 1821)

677 Tra le opere degli illuministi che teorizzano l’attribuzione del pensiero alla materia vi è L’homme

machine di La Mettrie (1748): sul rapporto del suo pensiero con quello leopardiano ha scritto Rigoni (1997).

133 materia” e ciascuno “sente che gli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello”679.

Ogni facoltà umana ha un’origine materiale, nel senso che nasce dallo sviluppo di

disposizioni o qualità degli organi corporei680. La base fisica è determinante per il successivo sviluppo di certe facoltà piuttosto che di altre: la differenza nell’organizzazione della vita umana e di quella animale, più vicina alla natura, è legata probabilmente anche alla “diversa organizzazione interna, come del cervello”681. Tra le disposizioni caratteristiche delle entità naturali animate o inanimate, alcune sono disposizioni “ad essere”, altre “a poter essere”682. Realizzando una disposizione “ad essere” un ente diviene quale la natura lo aveva voluto (questo tipo di disposizioni caratterizza infatti gli esseri inanimati, quali la terra, gli altri pianeti, le stelle, i quali nella loro regolarità compiono “quell’ordine dell’universo che la natura volle espressamente e vuole, e quella vita o esistenza ch’essa natura gli ha

destinata”683). L’attualizzazione delle disposizioni “a poter essere” non dipende invece da un disegno della natura. Risalendo nella scala degli esseri dai vegetali agli animali, le disposizioni “a poter essere” aumentano, raggiungendo il loro picco nell’uomo, che è l’essere massimamente conformabile684. Benché la natura abbia posto tali disposizioni nell’uomo, essa non è responsabile del loro sviluppo, che non è guidato dalla sua intenzione: sviluppando queste disposizioni l’uomo non compie un disegno o un ordine naturale, come fanno gli astri o anche gli animali, nel cui sviluppo quasi nulla è lasciato al caso, cioè quasi tutto corrisponde alle intenzioni della natura. L’attualizzazione delle disposizioni a poter essere è sottratta alla pre- determinazione: “Infinite sono e comunissime e giornaliere quelle facoltà umane, delle quali l’uomo non deve alla natura, altro che la purissima possibilità di acquistarle”685. Su questa possibilità agisce il caso: la trasformazione di questo tipo di disposizioni in facoltà è legata al darsi di certi fattori accidentali (le circostanze,

679 Zibaldone, 4288 (18 settembre 1827)

680 “Non si sviluppa propriamente nell’uomo o nell’animale veruna facoltà. Bensì si sviluppano gli

organi dell’uomo e dell’animale, e cogli organi, naturalmente, le loro naturali disposizioni o qualità, che li rendono (…) capaci di acquistare coll’assuefazione questa o quella facoltà”: Zibaldone, 1802- 1803 (28 settembre 1821). Sulla distinzione tra facoltà e disposizione si veda anche Zibaldone, 1662 (10 settembre 1821) e 1821 (1 ottobre 1821).

681 Zibaldone, 418 (9-15 dicembre 1820) 682 Zibaldone, 3374 (6-7 settembre 1823)

683 Zibaldone, 3379 (6-7 settembre 1823); corsivo mio. 684 Zibaldone, 3376 (6-7 settembre 1823)

134 l’esercizio, l’assuefazione)686 che rendono la natura non responsabile dell’emergere delle facoltà stesse: “in quanto ella [la disposizione] è disposizione a poter essere, l’uomo influito da varie circostanze non naturali, siano intrinseche e sieno estrinseche, acquista molte qualità non destinategli dalla natura, molte qualità contrarie eziandio all’intenzione della natura”687.

Anche la mente ha inizialmente solo una “disposizione (…) a ragionare”688, da intendersi come “maggiore o minore delicatezza o suscettibilità di organi”689. L’attualizzazione di questa disposizione nella facoltà della ragione non solo è

accidentale (si sviluppa nei secoli grazie all’esperienza che gli organi esteriori permettono all’uomo di fare in misura maggiore che agli animali690), ma addirittura appartiene a quelle disposizioni che la natura non voleva si sviluppassero: “la natura ha posto mille ostacoli allo sviluppo della ragione”691.

Leopardi come Epicuro pensa che la ragione, come le altre facoltà dell’anima umana, sia una proprietà accidentale: sia perché è facoltà accidentale della materia (“materia pensante”), sia perché è data dalla natura all’uomo solo come “disposizione a poter essere”, il cui sviluppo è determinato dal caso, dalle “circostanze” esterne (in tale prospettiva la colpevolizzazione dell’uomo per lo sviluppo della ragione, presente ad esempio nell’interpretazione leopardiana del Genesi692, non toglie la casualità di questo sviluppo, ma è funzionale a scagionare la natura, per salvarla dalla contraddizione, in una fase in cui è pensata ancora come buona, non colpevole dell’infelicità umana). Anche per Epicuro l’accidentalità della ragione si riferisce al suo statuto ontologico: in quanto a)pogegennhme/non dell’anima, essa ne è una proprietà accidentale. Inoltre il suo sviluppo deriva inizialmente dalle circostanze: la ragione è calcolo volto all’ottenimento del piacere, quindi il suo sviluppo è relativo al piacere. Tuttavia per Epicuro l’accidentalità della ragione è condizione di sottrazione al determinismo della necessità interna ed esterna. Innanzitutto, l’accidentalità della ragione slega l’uomo dalla determinazione della prw/th su/stasij. Inoltre, anche il

686 Zibaldone, 1802-1803 (28 settembre 1821) e Zibaldone, 1820 (1 ottobre 1821). 687 Zibaldone, 3375 (6-7 settembre 1823)

688 Zibaldone, 1681 (12 settembre 1821) 689 Zibaldone, 1661-1662 (10 settembre 1821)

690 Zibaldone, 1681-1682 (12 settembre 1821); cfr. Zibaldone, 56: “si potrebbe pensare che la

differenza di vita fra le bestie e l’uomo sia nata da circostanze accidentali e dalla diversa conformazione del corpo umano più atta alla società ec.”.

691 Zibaldone, 1599 (31 agosto-1 settembre 1821); corsivo mio. 692 Zibaldone, 396-397 (9-15 dicembre 1820)

135 giudizio, si è visto, deriva da un movimento che dipende da noi693, quindi è anch’esso un a)pogegennhme/non non necessitato. In virtù di ciò il soggetto è responsabile delle proprie opinioni: questo è condizione di indipendenza rispetto alle influenze esteriori e di controllo razionale sui desideri che derivano dalle opinioni. Per Leopardi invece lo sviluppo della ragione non costituisce una condizione di indipendenza dalle circostanze esterne né dalla determinazione materiale del desiderio infinito.

Anche per Leopardi le diversità tra individui sono legate alle differenze “naturali” di disposizione e ingegno tra gli stessi694 (e queste differenze sono paragonabili alla diversità individuale delle fu/seij ricevute alla nascita secondo Epicuro), ma un peso molto maggiore nella formazione del carattere ha il caso inteso come insieme delle influenze esterne695: “non intendo […] di negare che non v’abbiano diversità naturali fra i vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma solamente affermo e dimostro che tali diversità assolutamente naturali, innate, e primitive sono molto minori di quello che altri ordinariamente pensa […] ma l’assuefazione e le circostanze talora accrescono, talora cancellano, talora volgono affatto in contrario le differenze delle disposizioni naturali”696. Sono molti i fattori esterni697 che hanno un influsso determinante nello sviluppo del carattere: “nei caratteri degli uomini, novantanove parti son opera delle circostanze […] in questa diversità non è opera della natura, se non una parte così menoma che saria stata impercettibile”. Uno di questi fattori è l’ingresso nella società che, sottoponendo individui con disposizioni naturali simili a circostanze diverse, “diversifica due caratteri che parevano affatto, ed erano quasi affatto, compagni”698.

Altro fattore accidentale esterno che ha un grosso peso nello sviluppo del carattere e delle facoltà umane è l’assuefazione, che consiste nella credenza in determinate opinioni sulla base dell’abitudine: “Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini?”699. Mentre l’uomo

693 Epistola a Erodoto, 51 (LS 15A12) 694 Zibaldone, 3344 (3 settembre 1823)

695 Sull’influsso relativamente esiguo dell’indole ricevuta dalla “natura” sullo sviluppo del carattere si

veda anche Zibaldone, 4064 (8 aprile 1824): “Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo poté in loro essere chiamato carattere”.

696 Zibaldone, 3197-3200 (19 agosto 1823)

697 Tra questi anche climi, paesi, territori: Zibaldone, 3891-3893 (18 novembre 1823).

698 Zibaldone, 2863 (30 giugno 1823); sull’incidenza della società sulla varietà dei caratteri umani si

veda anche Zibaldone, 3807-3810 (25-30 ottobre 1823).

136 epicureo non si lascia influenzare dalle do/cai originate ad esempio dalla cultura e dalla società, ma è anzi il responsabile delle do/cai che si forma sul mondo esterno, che devono passare tutte al vaglio della sua ragione, Leopardi ritiene invece che la ragione consideri vere certe opinioni solo sulla base dell’assuefazione, che è considerata perciò come il fondamento della ragione700.

In Leopardi vi è inoltre l’idea di una dipendenza delle facoltà umane dalla materia, della quale sono proprietà. Per Leopardi non solo, come per Epicuro, il pensiero è una proprietà della materia, ma, a differenza di quello che pensa Epicuro, è anche sempre “schiavo” della materia, interamente dipendente da essa e dalle sue variazioni: “veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo”701. Lo stato di salute o di malattia del corpo comporta infatti una determinazione del carattere e dell’attività razionale: “la malattia influisce grandissimamente sull’ingegno e sull’indole [e] cambia talora […] l’ingegno e il carattere o per sempre, o per momenti, o per più o men tempo: ciò massimamente quando ella interessa in particolare il cerebro”702. Questo è vero soprattutto nel caso delle malattie mentali, il cui accadimento rappresenta una critica all’idea – caratteristica delle filosofie ellenistiche, tra le quali l’epicurea – che il saggio possa rendersi superiore alla fortuna703.

Pensare che gli accidenti interni (disposizioni a poter essere ricevute alla nascita dalla natura; ma anche malattie fisiche o mentali) ed esterni (circostanze, assuefazione) che investono la vita individuale abbiano un peso determinante per lo sviluppo delle disposizioni e del carattere, porta Leopardi a considerare l’individuo come schiavo della fortuna, contrariamente a Epicuro che, facendo dell’uomo il responsabile del proprio carattere e dell’utilizzo delle proprie facoltà mentali indipendentemente dalla necessità interna (su/stasij) ed esterna (do/cai sviluppate sugli ei)/dwla provenienti dall’ambiente esterno), crede che esso sia in grado di rendersi superiore alla tu/xh e agli eventi che lo colpiscono704. Mentre Epicuro

attribuisce una responsabilità praticamente totale all’uomo, per Leopardi invece esso è

700 Zibaldone, 1720-1721 (17 settembre 1821). Sull’assuefazione in Leopardi si veda Brioschi (2001). 701 Zibaldone, 4288 (18 settembre 1827)

702 Zibaldone, 3202-3203 (19 agosto 1823) 703 Vedi infra, paragrafo 4. VI.

137 in balia della fortuna705, come dimostra l’ammirazione leopardiana verso Teofrasto, che tra gli antichi sostenne “quanto prevaglia la fortuna al valore in quello che spetta alla medesima felicità così degli altri come anche de’ sapienti”706 (un’idea contrapposta alla tesi delle filosofie ellenistiche, tra le quali l’epicurea, della superiorità della virtù rispetto alla fortuna, cioè della superiorità del saggio rispetto agli accidenti esterni)707.

La dipendenza della ragione nei confronti della materia corporea implica l’incapacità della ragione di fare qualcosa contro la determinazione materiale del desiderio. Ciò che determina l’uomo è la sua costituzione biologica, materiale: il desiderio sensibile infinito708. La ragione non ha alcun potere contro il determinismo del desiderio infinito. A differenza di Epicuro, secondo il quale la ragione può agire sulla prw/th su/stasij ed esercitare il controllo sui desideri ou)k a)nagkai=ai, prodotti dall’opinione, per Leopardi l’uomo è completamente determinato dalla fortuna e dall’infinità materiale del desiderio rispetto al quale la ragione è impotente: per tale motivo è condannato all’infelicità.

705 Al proposito Timpanaro (1988), p. 376, parla di “critica del volontarismo” nella filosofia

leopardiana.

706 Cicerone, Tusculanae disputationes, V, IX, riferisce che Teofrasto sosteneva che “Vitam regit

fortuna, non sapientia” (il passaggio è riportato da Leopardi in Zibaldone, 317).

707 Comparazione delle sentenze di Teofrasto e di Bruto minore (marzo 1822)

708 “Per il Leopardi [la realtà che è causa dell’infelicità umana] è essenzialmente una realtà fisico-

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