In quegli anni ogni nazione era convinta di essere moralmente migliore, più civile, più progredita delle altre. La propaganda spingeva gli europei ad odiarsi e enfatizzava i rancori esistenti tra molti Stati. Le minoranze etniche che vivevano all'estero subivano questo clima di tensione latente e si sentivano minacciate.
Le guerre coloniali non bastavano più a sfogare i malcontenti delle classi popolari, anche perché solo una piccola parte di poveri emigrava nelle colonie e la guerra sembrava l'unica soluzione a tutti i problemi delle società europee.
Moneta non è stato subito interventista, anche perché aveva già ricevuto il premio Nobel per la pace ed era in rapporti anche di amicizia con molti altri pacifisti europei. Il motivo per cui ha cambiato idea credo risieda nel fatto che lui prima di essere un pacifista era un patriota. Per quanto riguarda la guerra italo-turca i motivi ufficiali della sua approvazione sono due: se le altre potenze europee conquistano tutto il Nord Africa, l'Italia è minacciata ed è giusto che anche l'Italia abbia il suo “posto al sole”. Oltre a questi, aggiungerei il diritto dei popoli civili di soggiogare gli incivili, anche se non mi è chiaro perché i turchi sarebbero incivili e i cinesi no. Forse la motivazione è solo razziale, i gialli sarebbero meno civili dei bianchi ma più civili dei neri, però non è troppo convincente, dato che i turchi non sono neri.
L'orientalismo all'epoca era molto in voga e probabilmente la motivazione razziale è l'unica che distinguesse i cinesi dai turchi.
L'Etiopia fu l'ultimo Stato africano indipendente grazie al suo efficiente apparato miliare che gli permise di respingere il tentativo italiano di invasione (vittoria etiopica di Adua del 1896 che pose fine tra l'altro alla carriera politica di Crispi). Avvalendosi di condizioni favorevoli, sfruttando con abilità diplomatica le rivalità tra i colonialismi concorrenti e convergenti d'Italia, Francia e Gran Bretagna, usandoli parzialmente contro l'Egitto, dovette soccombere, ma ormai in epoca post coloniale, all'aggressione mussoliniana del 1936.
Pochi mesi prima dell'occupazione italiana della Libia, Moneta si schierò contro i nazionalisti perché per lui la grandezza non si acquisisce con annessioni territoriali ma con la moralità e il carattere dei cittadini, sviluppando la scienza, le arti, la cultura, l'industria, il commercio da cui deriva il benessere. Prima che scoppiasse la guerra contro la Turchia, Moneta convocò il Comitato direttivo della Società per la Pace per far approvare una dichiarazione che contenesse una soluzione pacifica della questione di Tripoli. Il Comitato però approvò un ordine del giorno che riconosceva la necessità storica dell'espansione coloniale, si augurava che l'Italia conquistasse la Tripolitania e la Cirenaica credendo che ci sarebbero andati a vivere gli emigrati e che la presenza italiana in Libia avrebbe garantito l'equilibrio nel Mediterraneo, che contribuiva a mantenere la pace in Europa. Da questo momento Moneta difende la guerra in Libia cercando di far passare una guerra coloniale come una guerra di difesa, fatta per tutelare gli interessi nazionali.
Dal punto di vista giuridico è una posizione insostenibile perché la guerra di difesa è solo quella fatta per respingere l'invasione di un esercito nemico. Se l'Italia invade la Libia fa una guerra d'invasione, in questo caso una guerra coloniale che giuridicamente non è giustificabile. Anche l'idea che l'Italia dovesse conquistare la Libia per mantenere l'equilibrio nel Mediterraneo non mi convince, perché l'equilibrio era determinato dai rapporti tra Francia e Gran Bretagna che hanno permesso all'Italia di conquistare la Libia perché loro avevano pochi interessi a farlo.
Per giustificare la guerra in Libia Moneta probabilmente ha applicato il modello della guerra giusta e necessaria, anche se in passato aveva condannato le guerre coloniali. Ma una guerra è giusta se è giuridicamente giustificata, se discende dal diritto ed è molto difficile giustificare una guerra coloniale, dato che certamente non è di difesa e, volendo essere più elastici e inserire l'autodeterminazione dei popoli tra le giustificazioni di una guerra, questa è il suo esatto contrario. Infatti gli altri pacifisti europei si risentirono con Moneta che dovette giustificarsi.
Il colonialismo era una prassi e tutti i Paesi europei si sentivano legittimati ad avere delle colonie. L'Italia ne ha avute poche ma non perché non le volesse per motivi umanitari, semplicemente era uno Stato che aveva raggiunto l'indipendenza da poco e non era in grado di affrontare imprese militari. Qualche colonia però l'ha avuta e gli italiani si sono comportati come gli altri colonialisti anche se dai libri di storia questo non risulta, come non risulta che l'Italia abbia combattuto la seconda guerra mondiale prima dell' 8 settembre 1943. Scrivo questo perché se oggi non abbiamo ancora preso
coscienza del nostro passato coloniale possiamo immaginare che idea ne avevano Moneta e i suoi contemporanei che magari non conoscevano tutti gli aspetti negativi nel colonialismo ed erano in buona parte dei patrioti nazionalisti. Non li sto giustificando dato che un premio Nobel per la pace non dovrebbe appoggiare nessuna guerra, perché così facendo giustifica tutti gli altri a farlo, cerco di capire se anche a Moneta sembrasse normale invadere la Libia.
Egli però non è stato subito un interventista, ma ha sperato fino alla fine che le potenze europee obbligassero la Turchia a cedere all'Italia la Tripolitania e la Cirenaica, a condizioni onorevoli per la Turchia. In questa occasione ha peccato di ingenuità perché alle altre potenze non interessava affatto che l'Italia avesse delle colonie, al contrario si combattevano tra loro per spartirsi Africa e Asia.
La guerra in Libia agì come elemento unificante e la borghesia ne beneficiò economicamente. L'imperialismo italiano considerava il Mediterraneo come zona geopolitica privilegiata e Giolitti decise di occupare la Libia prima che lo facessero altre potenze. Moneta era soddisfatto perché per lui il successo libico aveva riscattato le disfatte di Custoza e di Lissa. Il patriottismo tornava ad essere intenso come durante il risorgimento.
Per inserire l'interventismo di Moneta in un panorama più ampio si può ricorrere alla tesi del “fardello dell'uomo bianco”, molto diffusa all'epoca anche se non so con certezza se la condividesse. La politica dello splendido isolamento britannico arriva a fare dell'Impero già cospicuo e presto in rapida espansione, la garanzia dell'influenza e della potenza mondiale inglese e a conferire all'Inghilterra un quasi scontato primato nella colonizzazione extraeuropea. In altre parole per buona parte degli inglesi e per molti continentali la formuletta kiplinghiana significa anzitutto il fardello della nazione inglese. In America tale dottrina fu subito chiamata Kipling- McKinley, dal nome del presidente in carica al momento della guerra contro la Spagna del 1898. D'altra parte sia gli USA, sia altre potenze assumono con maggior o minor fervore su di sé il compito di “guidare verso la civiltà” i territori coloniali.
Il dibattito storiografico sulla trasformazione da nazionalità a nazionalismo aggressivo ed espansionistico, che accompagna il passaggio dell'Italia dal risorgimento al dopo risorgimento, è stato ricco ed esemplare. Dopo la pubblicazione nel 1953 delle “Premesse alla storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896” di Federico Chabod, non è più possibile ignorare il proto nazionalismo degli anni 70. Esso pone le condizioni politico-psicologiche almeno per il nazional-imperialismo dell'età crispina
proiettato verso il Mediterraneo e verso il Mar Rosso per conquistarne “le chiavi”. Il Mediterraneo, “ambiente naturale” o addirittura “vita” per l'Italia secondo un'espressione mussoliniana, offre il contesto geografico in cui la cultura politica nazionale smarrisce la nozione precisa di dove giunga l'esigenza risorgimentale di completare l'unità e dove inizi l'impulso all'espansione imperialistica oltre il territorio nazionale unificato: responsabile di ciò prima la Tunisia “perduta” nel 1881 a favore della Francia e poi la Libia acquisita nel 1911. Rispetto ad altri Paesi europei, nel caso italiano l'incidenza del nazionalismo sull'imperialismo risulta in proporzione più importante. Nel considerare la “via italiana all'imperialismo” si deve aver presente il modesto grado di industrializzazione e di accumulazione capitalistica nel Paese. Non si può escludere a priori l'esistenza di interessi e ceti parassitari spinti da calcoli di profitto economico e capaci di avere influenza sulla politica espansionistica; ma al tempo stesso si deve che in più di un'occasione storicamente decisiva gli interessi economici privati coinvolti nell'espansione, furono addirittura condizionati e guidati da un'iniziativa governativa definita come “imperialismo degli statisti”. Osservando diversi nazional- imperialismi dell'epoca, un aspetto economico, sociale fu invocato e discusso con maggior enfasi in Italia che altrove: è quello che collega l'espansione coloniale con l'emigrazione oltremare e anzi che vede l'espansione coloniale come alternativa nazionale (cioè in un territorio su cui sventola il nostro tricolore) all'emigrazione in lontani Paesi stranieri. Troviamo allora le due etichette di “imperialismo della povera gente” (secondo le parole dello scienziato politico Robert Michels) o di “la grande proletaria si è mossa” (secondo il poeta Giovanni Pascoli).
La guerra di Libia rappresenta un tornante decisivo nella storia italiana e segna l'esaurirsi del sistema giolittiano inteso come bilanciamento tra borghesia produttiva e movimento operaio. Stavolta l'imperialismo italiano, diversamente dalla fine del secolo, realizzava in un'impresa coloniale l'unificazione della borghesia laica e cattolica su posizioni nazionaliste e isolava il socialismo, arroccato su intransigenti posizioni sociali e politiche. Al di là della sua scarsa consistenza organizzativa, era il nazionalismo dei Corradini, Federzoni e Rocco ad uscire vincente dalla guerra coloniale, che sulla linea dell'espansionismo imperialista nel Mediterraneo e verso Oriente, unificava settori in crescita del capitale industriale e finanziario, ceti medi e gruppi intellettuali da tempo scatenati contro socialismo e democrazia, nel nome di nuove solidarietà organiche da “nazione proletaria”, in lotta per conquistare il proprio spazio e ruolo in un mondo segnato da contrapposte politiche di potenza. Il nazionalismo era un'alternativa radicale
al giolittismo, come progetto politico di riorganizzare la società italiana intorno ad un più forte potere del dinamico capitale industriale di tendenza espansionista. Si trattava in sostanza di non piegarsi alle resistenze ed incomprensioni delle masse, ma al contrario di “persuaderle” che dal processo di sviluppo alla lunga sarebbero state anch'esse beneficiarie. L'imperialismo coloniale- che non era tra i propositi iniziali di Giolitti, al contrario di quanto affermerà nelle sue “memorie”- doveva dimostrarsi più decisivo della riforma elettorale (patto Gentiloni) e della istituzione dell'INA nel determinare una radicale riclassificazione degli schieramenti socio-politici nell'Italia tardo giolittiana. Alla svolta politica delle prime elezioni a suffragio universale maschile, nel '13, il tentativo di rilancio liberal-riformista appariva tramontato; né poteva giovare la separazione di Pissolati e Bonomi di fronte alla crescente intransigenza del PSI e alla recrudescenza degli scioperi operai e contadini per tutto il Paese. Novità decisiva nel panorama politico del '13, in un contesto di grave crisi economica e di accesi conflitti sociali, apparirà l'intervento elettorale delle masse cattoliche a sostegno dei candidati liberal-conservatori e dei nazionalisti. Gli equilibri giolittiani apparivano senz'altro logori quando ascendeva al potere nel '14 Salandra, rappresentante di nuove aggregazioni socio-economiche intreccianti ancora rendita e profitto, piuttosto che luogotenente di tipo tradizionale. Ma poi saranno la guerra e l'intervento italiano a mandare in frantumi la mediazione pacifista giolittiana, oscillante tra conservazione e riformismo. Andava in crisi tutto un quadro di riferimenti politici e culturali. La guerra, simile in ciò alla rivoluzione, avrebbe accelerato le trasformazioni e spazzato via gli equilibri del passato. Giolitti avrebbe provato, nella situazione assai mutata del dopoguerra, a riproporre l'incontro fra capitale moderno e social-riformismo. Ma il progetto inattuato ad inizio secolo doveva risultare irrealizzabile all'aprirsi dei tumultuosi anni Venti italiani. Stato, società ed economia non si tenevano più dentro i confini liberali. La vecchia Europa della pace e dell'espansione interna e delle guerre oltremare diveniva ricordo e rimpianto letterario per chi ne aveva goduto benefici culturali e sociali. In questo quadro si era svolta la rilevante esperienza giolittiana, tra progressi e squilibri.
All'inizio dell' '11 l'idea di conquistare la Libia (secondo l'antica denominazione romana, Cirenaica e Tripolitania) non era ancora diffusa né popolare in Italia. L'intervento militare fu preceduto da una campagna di stampa nazionalistica e populista sostenuta da gruppi economici e finanziari facenti capo soprattutto alla Banca Commerciale e al Banco di Roma. La grande stampa quotidiana nazionale si allineò rapidamente,
riprendendo e amplificando gli argomenti dei nazionalisti a sostegno dell'impresa coloniale. La Libia era descritta come una vera “terra promessa”; avrebbe portato vantaggi per tutti: proletariato, borghesia e meridione. Anche il Pascoli salutava la “grande proletaria” che prendeva l'iniziativa. L'occupazione non avrebbe presentato difficoltà e avrebbe riportato l'Italia tra le grandi potenze. Parte dell'opinione cattolica giustificava l'intervento come “crociata” contro i musulmani. Se il governo non avesse agito, sarebbe stato nemico della nazione. Il Giolitti colse l'occasione che parve presentarsi con la nuova crisi diplomatica tra Francia e Germania per il controllo del Marocco. In questo instabile contesto, il governo italiano- senza consultare il parlamento- lanciò un ultimatum all'Impero turco accusato di ostacolare gli interessi economici italiani, pretendendo il consenso all'occupazione della Libia. Il governo turco respinse l'ultimatum il 29 settembre. Subito iniziò la guerra. Il generale Caneva comandava 35000 uomini per lo più inesperti militari di leva; mancavano interpreti e carte geografiche. Oltre all'esercito regolare turco di circa 8000 uomini, si dovevano affrontare le popolazioni locali. Dopo le perdite subite il 23 ottobre, gli italiani fecero una ferocissima e indiscriminata repressione, che aumentò la resistenza libica. Dalla guerra si passò alla guerriglia. Caneva adottò un prudente atteggiamento difensivo, per cui fu molto criticato. Furono subito necessari altri uomini ( il contingente arrivò a 100000) e altro materiale bellico. L'occupazione procedeva molto lenta, anche se l'Italia proclamò il 5 novembre l'annessione della Libia. I sostenitori della guerra avevano immaginato una campagna rapida e facile, invece fu costosissima, tanto da mettere in crisi i bilanci statali per molti anni. La stampa continuava a tenere alto l'entusiasmo. I resoconti bellici avevano toni epici; i massacri di popolazioni inermi erano ignorati; i poeti celebravano i soldati italiani “novelli eroi”, e nelle strade risuonava “Tripoli bel suol d'amore”.
Cito parte di un articolo dal titolo “L'infatuazione imperialista”:
“ Benché pacifista il mio cuore di soldato palpitò di ineffabile gioia di fronte allo spettacolo delle virtù militari e della forte, concorde animazione di cui diede a da prova il Paese in questi giorni. Spettacolo veramente confortevole perché, sebbene il sentimento della pace, diventi sempre più generale nei Paesi civili, siamo tuttavia ancora in un tempo in cui la considerazione morale e politica verso uno Stato dipende dalla forza di cui esso dispone ed anche più dalla considerazione che questa forza acquista
all'estero”166.
Lo spettacolo delle virtù militari non so esattamente quale sia, ma non credo che Moneta si riferisse alle parate. Anche dire che il suo cuore è di soldato mi stupisce, perché chi ha avuto l'onore di ricevere il premio Nobel per la pace dovrebbe ricordarselo quando scrive articoli. Moneta però è sincero e anche in questa occasione si dimostra un patriota.
L'argomentazione della necessità di un esercito forte per avere prestigio a livello internazionale è comprensibile per l'epoca, però è in contraddizione con l'avanzare del sentimento di pace tra i popoli civili. Se si crede davvero nella pace, nell'arbitrato e nella federazione europea, bisognerebbe smetterla con la corsa agli armamenti. Non ha senso aspettare che i tempi siano propizi perché non lo saranno mai, dato che fino ad ora nella storia non lo sono mai stati. Ci vuole una cesura netta tra il passato militarista e il presente in cui si vuole il disarmo. Dovrebbero essere le avanguardie a farlo capire agli altri e i pacifisti europei ci hanno provato, ma se uno dei loro esponenti più illustri fa affermazioni come quelle di Moneta non ci stupisce lo scoppio della Grande guerra. Sia chiaro che non sto dando la colpa di quella guerra ai pacifisti, ma credo che un giornalista come lui non avrebbe dovuto scrivere quegli articoli. Se un pacifista scrive cose simili, tutti si sentono legittimati ad andare a combattere e di propagandisti favorevoli alla guerra in Libia e alla prima guerra mondiale ne avevamo già molti.
Oltre ad essere dannoso tutto ciò era anche inutile perché l'Italia non è mai stata una potenza militare, è stata l'unico Paese europeo sconfitto da truppe africane, quelle etiopi che non credo avessero dei grandi armamenti. L'Italia ha vinto la prima guerra mondiale, ma il maggior impegno è stato delle sue alleate e alla conferenza di pace è stata considerata come una potenza minore.
Forse dovremmo capire di non essere un popolo guerriero, tutte le invasioni che abbiamo subito significheranno qualcosa. A me personalmente fa piacere che l'Italia non sia stata una grande potenza militare, non tutti gli Stati possono essere come la Prussia.