Ernesto Teodoro Moneta nacque a Milano in via Fabbri il 20 settembre 1833, quartogenito di quattordici figli.
Il padre Carlo, aristocratico negoziante in ferro, era patriota e repubblicano e Moneta a quindici anni si mise al suo fianco durante le Cinque Giornate.
Il nonno paterno aveva fondato la prima fabbrica di detersivi sorta a Milano ma morì giovane e il figlio Carlo fu costretto ad occuparsi dell'azienda, interrompendo gli studi di ingegneria all'Università di Pavia. La famiglia Moneta conduceva una vita semplice, il padre era un uomo mite e molto religioso, educò i figli alla preghiera e e rispettare gli altri oltre che all'amore per la patria.
In estate la famiglia andava in villeggiatura nella casa di campagna di Missaglia (LC), in Brianza. Moneta andò sempre in quella casa, che considerava un rifugio.
Alla vigilia della campagna del '49, Moneta fuggì da Milano all'età di sedici anni con due compagni per arruolarsi volontario nell'esercito piemontese. Data la sua giovane età, il Comitato Lombardo di Emigrazione respinse la sua domanda e lo mandò a terminare gli studi a Ivrea presso la Scuola Militare.
Moneta ha raccontato più volte l'episodio della sua vita di adolescente, perfino nel discorso ufficiale che il 25 agosto 1909 pronunciò a Cristiania (Oslo) come premio Nobel per la pace, conferitogli nel 1907:
“Ero giovinetto nel marzo 1848, quando Milano dopo aver offerto in vano pace e fratellanza al governo che ci dominava, a patto che fosse riconosciuto al regno lombardo-veneto il diritto di una nazionale rappresentanza- insorse come un sol uomo. Mentre le campane suonavano a stormo, venivano erette le barricate, sfidando le palle dei moschetti e dei cannoni, e si combatteva alternando le fucilate e il getto delle tegole e dei mattoni dai tetti e dalle finestre con grida di gioia... Ma se ora qui dove ci chiama la causa della pace, vi ho parlato di una lotta armata, è solamente per dirvi che fu davanti a quello spettacolo grandioso, indimenticabile per me, che insieme ad una viva
fede nei destini della Patria, s'impossessarono del mio animo il sentimento della umanità e l'orrore per la guerra. Dalle finestre di casa mia, dove il vecchio mio padre e i miei fratelli non erano rimasti inoperosi, avevo veduto cadere, colpiti da più palle quasi a bruciapelo, tre soldati austriaci. Creduti morti, furono trasportati in una vicina piazza. Li vidi due ore dopo. Qualcuno di essi respirava ancora mandando i rantoli della morte. A quella vista mi si gelò il sangue nelle vene, e un'immensa pietà mi vinse. In quei tre soldati io vidi non più dei nemici, ma degli uomini come me, e con una specie di rimorso, quasi li avesi uccisi io stesso, pensai alle loro famiglie che in quel momento facevano progetti per il loro ritorno. E allora sentii quanto vi è di inumano e di crudele nella guerra, che rende nemici, a loro reciproco danno, popoli che avrebbero tutto l'interesse a intendersi ed essere amici. E tale l'impressione mi si rinnovò più tardi dinanzi ai nemici e ai morti in tutte le guerre della nostra indipendenza alle quali presi parte”.
Sempre a proposito di quest'episodio ha scritto nell'articolo “Le cinque giornate”:
“Io li vidi, coperti da una stuoia, due ore dopo; uno di essi, che doveva soffrire terribilmente, mandava i rantoli della morte. Allora avvenne nell'animo mio un subitaneo rivolgimento. Quella lotta, alla quale io pure avevo un po' partecipato e che mi aveva immensamente esaltato, come opera gloriosa e santa, ora mi appariva come cosa assolutamente barbara, crudele e inumana. Pur riconoscendo, anche in quel momento, che la insurrezione e la guerra per la liberazione di un popolo dalla dominazione straniera sono una suprema necessità e un diritto degli oppressi, sentii per istintiva intuizione, che il primo e sacrosanto dovere della civiltà è quello di dar opera perché le questioni di nazionalità e ogni altra di carattere internazionale siano risolte con forme giuridiche, senza le stragi. Questi due sentimenti- quello del diritto che ha ciascun popolo al pieno esercizio della sua autonomia e quello del dovere dei governi liberi e più civili di mettersi d'accordo perché una legge di giustizia imperi un giorno non lontano su tutte le nazioni piccole e grandi- rimasero da allora in poi, sempre impressi nel mio animo, e sono quelli che diedero la direzione a tutta la mia vita”152.
Da questi due brani vorrei estrapolare i punti principali. La viva fede nei destini della patria, più che comprensibile dato che la patria si stava formando, perché credo che
quando nasce un nuovo Stato i suoi cittadini credano che sia migliore del precedente, più giusto e più liberale. Non sempre è così, ma senza dubbio i lombardi preferivano vivere sotto i Savoia che sotto gli Asburgo.
L'umanità in questo contesto significa fratellanza, essere uguali in quanto uomini, non ledersi a vicenda ma rispettarsi.
L'orrore per la guerra è un punto secondo me non importante perché Moneta prova questo sentimento nel '48, ma nonostante questo parteciperà anche alle altre guerre di indipendenza. Tra la pace e la patria, sceglie la patria ma non senza difficoltà morali. E' giusto secondo lui combattere per l'indipendenza, ma una volta raggiunta l'unità d'Italia esce dall'esercito e si dedica alla propaganda pacifista. E' come se in quel preciso momento storico non avesse potuto fare altro che combattere ma, dopo l'indipendenza, cerca altri modi di risolvere i conflitti.
Quando vede i soldati austriaci morenti non li vede più come nemici ma come uomini, riesce a vedere l'umanità prima di provare odio nei loro confronti. La morte è un'esperienza toccante e Moneta prova pietà nei loro confronti e si sente in colpa per la loro morte anche se non li ha uccisi lui. Mi chiedo allora perché Moneta è empatico nei confronti di quei soldati quando altri soldati, non si fanno scrupoli a uccidere o addirittura infieriscono sui cadaveri. Anche un soldato allora può provare pietà, ma come mai di solito non la prova? Forse perché ubbidisce agli ordini, è come se fosse l'ingranaggio di una macchina mortale; ma un soldato rimane prima di tutto un uomo e in quanto tale dovrebbe avere il libero arbitrio.
Moneta scrive che la guerra rende nemici popoli che avrebbero tutto l'interesse ad essere amici, ha ragione e i popoli sarebbero amici se non ci fosse qualcuno che da loro dei pretesti per non esserlo. Molte guerre sono scoppiate per motivi futili ma se qualcuno le ha combattute si vede che li riteneva validi.
La guerra per la liberazione di un popolo dalla dominazione straniera è una suprema necessità per il diritto degli oppressi, ma è dovere della civiltà risolvere le questioni di nazionalità e internazionali con forme giuridiche. Ecco l'annoso problema dell'autodeterminazione dei popoli che è ancora oggi di difficile risoluzione. Nel 1848 c'è stata la “primavera dei popoli” e si sono fondati degli Stati, altri sono nati dopo la prima guerra mondiale e fuori dall'Europa la maggior parte delle indipendenze risale agli anni '60. C'è però una differenza tra le indipendenze europee e le altre, oltre a quella cronologica perché in Europa è molto radicato il concetto di Stato nazionale mentre altrove prevale l'identità tribale, etnica e linguistica. Ai moderni Stati europei, pur con
qualche eccezione, corrisponde l'idea di Stato nazionale con un territorio abitato da un popolo che parla la stessa lingua, spesso ha la stessa etnia, le stesse tradizioni e la stessa religione. Oltre a questo di solito i popoli hanno combattuto per la loro indipendenza, diventando almeno in parte artefici del loro destino.
Fuori dall'Europa, dove c'erano le colonie gli europei hanno applicato la stessa idea di Stato nazionale che qui funziona ma altrove no. Una volta raggiunta l'indipendenza, non perché ottenuta grazie ai propri sforzi (a parte l'eccezione dell'India e poche altre) sono nati molti problemi perché i confini dei nuovi Stati erano quelli coloniali che non consideravano le differenze etniche e linguistiche. E chi ha fatto le spese di tutto ciò? Quei popoli che in Africa avevano già subito la schiavitù e la colonizzazione.
C'è poi una terza categoria di popoli, minoranze etniche come i curdi, che non hanno uno Stato ma vivono in vari Stati dove di solito non viene loro riconosciuta alcuna tutela in quanto minoranza. Credo che questi popoli siano destinati a non avere una loro patria perché è molto difficile modificare gli equilibri internazionali.
Torno alla biografia di Moneta, di cui si hanno però poche notizie.
Nel 1848 morì il padre e lui aiutò la madre Giuseppina ad allevare gli otto fratelli minori. Lo fece continuando ad occuparsi del movimento patriottico col programma della Società nazionale italiana, fondata da Daniele Manin e Giorgio Pallavicino il cui programma si riassumeva con: “Italia una con Vittorio Emanuele”.
Nel '59, con altri quattro fratelli, fu fra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Era già amico di Garibaldi da anni e costui gli aveva chiesto di raccogliere adesioni in Brianza per rinfoltire le schiere dei Cacciatori delle Alpi. Con lui si arruolarono anche i fratelli Eugenio, Pompeo, Epifanio, Giovanni ed Agostino. Moneta era ufficiale di collegamento; col suo velocissimo cavallo Arturo, recapitò tempestivamente informazioni e ordini di grande importanza. I dispacci che consegnò consentirono di circondare e imprigionare una colonna nemica a Caserta.
Appena corse notizia che Garibaldi preparava la spedizione di Sicilia, Teodoro Moneta si portò a Genova col proposito di essere con lui e vide il Sirtori che però non credeva nella spedizione. Si recò a Torino per lavorare come giornalista, chiedendo però di essere chiamato quando fosse partita la spedizione. Suo fratello Enrico si arruolava a Genova e partiva con i Mille, certo di ritrovare a bordo Teodoro insieme col Sirtori, che si era dimenticato di mandare l'avviso della decisione a Torino. Teodoro si imbarcò a Genova per conto proprio ma giunse a Palermo quando i Mille organizzavano lo sbarco in Calabria e li raggiunse solo a Cosenza. Qui presentatosi al Sirtori, fu aggregato al suo
stato maggiore col grado che aveva nei cacciatori delle Alpi e assistette, come aiutante di campo di Sirtori, alla battaglia del Volturno e all'assedio di Gaeta.
Prese parte alla campagna contro il brigantaggio. A 33 anni è un ufficiale colto, brillante, un tipico intellettuale borghese di fine Ottocento, pieno di fiducia nell'umanità, ottimista nei confronti del progresso come i positivisti, anticlericale ma non antireligioso.
La svolta decisiva della sua vita che gli fa lasciare l'esercito è l'esito disastroso della battaglia di Custoza e il passaggio del Veneto al Regno di Sardegna per tramite di Napoleone III.
Riporto parte del discorso tenuto il 9 12 1888:
“Per certuni le idee dell'Unione Lombarda sono utopie ma noi sappiamo che l'utopia d'oggi è la realtà del domani. Quanto a noi, crediamo che non ci sia nulla di più pratico del lavoro cui ci siamo dedicati. E' un lavoro di uomini e di patrioti. E quando non avessimo altro compenso, ci resterebbe sempre la soddisfazione della nostra coscienza... Noi, invocando la guerra liberatrice, volevamo che quella fosse l'ultima delle guerre, tale da dimostrare che l'Italia era degna della libertà; perché il bene della libertà si apprezza tanto più, quanto maggiori sono i sacrifizii fatti per conquistarla e per uscirne vincitori, noi avremmo fatto qualunque sacrifizio... Noi dovevamo conquistare a noi, ai nostri figli, una patria, che i nostri padri avevano trascurato di darci. Allora fu visto un popolo inerme sbaragliare e mettere in fuga un esercito agguerrito. Ma coloro che erano alla testa del movimento non ne compresero l'importanza, non la vollero comprendere; e appunto allora che la vittoria pareva assicurata, il bel sogno di libertà, di pace svanì perché si temette di vincere. L'anno dopo (1849) una mezza giornata campale, a Novara, bastò per atterrare di nuovo le rinverdite speranze... Si cominciò a cospirare, finché spuntata l'alba del 1859 si ebbe maggior fiducia nell'alleato coronato che nel popolo... Napoleone III fece la guerra all'Austria per conto suo; e come gli piacque, si fermò a mezzo dell'impresa. E l'Austria, non volendo riconoscere l'Italia, le diede uno schiaffo, che non dovrebbe essere dimenticato, cedendo la Lombardia, come fosse una mandra, a Napoleone, che la donò a Vittorio Emanuele. Tale è la nostra origine... Ora l'avvenire dei popoli sta nelle loro mani. Bisogna protestare tutti uniti per impedire che i governi trascinino i popoli sulla mala via, in fondo alla quale c'è la rovina di tutte le famiglie ricche e povere... La patria noi la portiamo impressa nella lingua, nel viso, nel cuore. Essa è la parte migliore di noi. Per essa abbiamo troppo sofferto. I più bei giorni della
nostra vita furono quelli delle sue vittorie. Essa è la nostra bandiera”153.
Qui Moneta parla della patria come la parte migliore degli uomini che hanno combattuto per la sua creazione e non dubito che fosse un'esperienza fondante, soprattutto per un adolescente. Da ciò che ha scritto però emerge anche l'amarezza per come si sono svolte le vicende: le decisioni le hanno prese i re, non i popoli che lottavano per loro autodeterminazione; i re si sono serviti dei popoli ma non li hanno ricompensati abbastanza per i loro sforzi. Ci sono state delle riforme ma sono state concesse dall'alto, così come le costituzioni.