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Hardin e la Tragedy of the commons

2. I beni comuni

2.2. Breve storia del concetto di beni comuni

2.2.1. Hardin e la Tragedy of the commons

L’articolo The tragedy of the commons169

segna ufficialmente l’inizio del dibattito accademico e pubblico sul tema dei beni comuni. L’autore - Garret Hardin -, un ecologo e professore di Biologia presso l’Università della California di Santa Barbara, lo scrisse per l’intervento a un convegno organizzato dalla Pacific Division of the American Association for the Advancement of Science presso l’Università dello Utah nel giugno del 1968 e fu edito su Science il dicembre dello stesso anno.

168 Cfr. AA. VV. Tempo di beni comuni. Studi multidisciplinari, Ediesse, Roma 2013 p. 227 169

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L’articolo di Hardin non è primariamente dedicato ai beni comuni o a qualche teoria che li riguarda, ma al problema di carattere ecologico-demografico della sovrappopolazione. I beni comuni e la tragedia nella quale sembrano destinati a essere intrappolati emergono solo come esito della riflessione sull’aumento demografico e sul livello ottimale di popolazione del pianeta terra.

Hardin parte dal presupposto che uno spazio geograficamente finito e dotato di risorse limitate come quello del nostro pianeta non può in alcun modo supportare l’aumento demografico esponenziale che già stava ampiamente avvenendo negli anni nei quali scriveva. Infatti a un aumento costante della popolazione sulla terra corrisponde un’altrettanto costante diminuzione delle risorse a disposizione per ogni singolo individuo. Questo processo portato alle sue estreme conseguenze genera una condizione nella quale non sarà più possibile garantire un minimo di benessere per ciascuna persona.

La tesi che Hardin vuole dimostrare è che se il genere umano viene lasciato libero di gestire spontaneamente il proprio processo riproduttivo non potrà che andare incontro a un esito rovinoso. L’innalzamento delle misure sanitarie, della disponibilità alimentare e della qualità della vita ha infatti reso i vincoli della selezione naturale molto meno esigenti per gli esseri umani, di conseguenza secondo lo scienziato statunitense è necessario individuare delle misure artificiali per controllare e limitare l’aumento della popolazione.

In questo contesto e per dimostrare la sua tesi, Hardin chiama in causa il tema della tragedy of the commons. Nell’articolo viene proposto come rappresentativo dei commons l’esempio di un campo ad accesso aperto a dei pastori che hanno il dilemma di quante pecore potervi far accedere. Secondo Hardin un regime di accesso aperto e, quindi, la considerazione del campo come bene comune è accettabile solo in un mondo dove la popolazione non abbia ancora superato la soglia numerica critica che inevitabilmente porterebbe alla distruzione – per eccesso di sfruttamento o per inquinamento – delle risorse del campo stesso. Il problema è che pur avendo la consapevolezza del già avvenuto superamento di tale soglia e dell’inevitabilità del rovinoso esito, il pastore – plasmato sul calco dell’egoista razionale –, almeno secondo Hardin, non può che comportarsi in modo auto-interessato e teso alla massimizzazione del proprio guadagno non curandosi degli effetti dannosi della sua condotta. Partendo dal presupposto che tutti i pastori agirebbero in modo egoistico-razionale, il pastore che non si adeguasse a tale condotta riceverebbe un duplice danno: non solo rimarrebbe con un campo devastato, ma non lo sfrutterebbe nemmeno durante il periodo di rigogliosità. Sarebbe l’unico a barattare gli interessi a breve termine per quelli a lungo termine, ma in un mondo in cui tutti i sui simili agiscono in

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modo opposto, la sua condotta virtuosa sarebbe del tutto ininfluente. Ogni pastore è così portato da meri calcoli strategici a introdurre il numero maggiore di pecore possibile nel campo, accelerando di fatto la sua distruzione.

In questo modo Hardin introduce anche il problema dell’esistenza dei free rider – ossia di coloro che si comportano in modo da avvantaggiarsi il più possibile anche a dispetto dei patti stabiliti collettivamente – all’interno delle gestioni comuni di risorse condivise. Nella prospettiva hobbesiana di Hardin, tutti gli esseri umani si comportano da free riders, ma – sembra possibile aggiungere – anche ponendo il caso che solo uno segua tale condotta, il bene comune verrebbe comunque, anche se a lungo termine, compromesso e, quindi, conviene a tutti imitarlo in modo da guadagnare almeno qualcosa fin quando è possibile.

Per tragedia dei beni comuni si può quindi intendere la condizione di crisi che inevitabilmente scaturisce quando molti individui (o gruppi), mossi da una condotta egoistica e slegata dagli altri, esauriscono – proprio in virtù del loro comportamento – una risorsa condivisa, limitata e facilmente accessibile. Una condizione che quindi si genera quando questi individui (o gruppi) agiscono in vista di una massimizzazione dei propri interessi immediati, comportamento che non sembra essere in alcun modo razionale in un’ottica a lungo termine.

Molti secoli prima di Hardin, seppur in termini naturalmente diversi, già Aristotele aveva sottolineato la tragedia dei beni comuni. Nella Politica, infatti si legge:

Ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura. Ognuno pensa principalmente a se stesso, e quasi per nulla all’interesse comune.170

Su questa scia si era inserito anche Hobbes che – come è stato già precedentemente rilevato – riteneva che l’uomo nello stato di natura cerca solo il proprio immediato tornaconto e di conseguenza finisce per generare una condizione di conflitto costante con tutti i suoi simili.

Un esempio classico della teoria dei giochi, quello del dilemma del prigioniero, ricorda molto da vicino la condizione dei pastori descritta da Hardin e non a caso sarà preso in considerazione – come emergerà in seguito – dalla Ostrom per distruggere le fondamenta delle conclusioni dell’ecologo statunitense. Questo è un gioco di carattere non cooperativo – nel quale quindi ogni tipo di comunicazione tra i partecipanti è vietata –, ma

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nel quale i giocatori hanno informazioni complete. Il modello dimostra che la scelta strategicamente migliore per ogni giocatore coinvolto è quella di presupporre una non cooperazione da parte degli altri, generando però il paradosso secondo il quale le strategie razionali per i singoli portano a risultati collettivamente irrazionali. Allo stesso modo i pastori di Hardin agiscono cercando di massimizzare i propri interessi immediati presupponendo che anche tutti gli altri facciano lo stesso e così facendo vanno incontro a un esito collettivo disastroso: la distruzione del campo.

Nell’ottica dell’articolo di Hardin, l’esempio del campo è evidentemente paradigmatico del destino che attende la terra se non verranno posti limiti all’uso delle risorse comuni e alla sovrappopolazione. Non a caso l’autore affronta brevemente anche l’esempio dell’inquinamento atmosferico e lascia intendere che la stessa dinamica che avviene tra i pastori del campo si stia verificando anche tra le industrie con l’atmosfera. Per mantenere e aumentare gli standard di produzione e per garantire il livello di qualità della vita sempre più elevato a un numero sempre maggiore di persone, le corporation stanno barattando gli interessi a lungo termine dell’umanità e quindi delle future generazioni – nonché di tutta la biosfera – con quelli a breve termine degli abitanti del mondo cosiddetto «sviluppato». Così il problema della sovrappopolazione, quello conseguente della sovrapproduzione con l’eccesso di emissione che comporta e quello delle risorse limitate si incontrano in un contesto di emergenza ambientale. Dal momento che la proposta dei commons, in un contesto in cui è stata superata la soglia di popolazione adeguata, viene da Hardin bruscamente rifiutata – arriva ad affermare “l’alternativa dei commons è troppo orribile per essere presa in considerazione. L’ingiustizia è preferibile alla completa rovina”171 – resta da valutare che opzioni ci restino a suo parere per uscire da questa «tragedia».

Hardin non ripone la minima fiducia nella responsabilità o nella coscienza del genere umano e quindi ritiene che una qualsivoglia regolazione e limitazione della crescita demografica e dell’utilizzo delle risorse comuni possa essere perseguibile solo attraverso misure di coercizione esterne. Propone alternativamente le due soluzioni classiche della modernità occidentale: quella del mercato e quella dello stato. Da un parte le risorse potrebbero essere gestite da un sistema di imprese private e dall’altra da un sistema statale dal sapore vagamente etico che sia capace di imporre misure eque e a lungo termine non dannose. La sua posizione sembra tendere maggiormente a favore di questa seconda ipotesi che antepone le necessità della comunità – mutuamente riconosciute dai suoi componenti –

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al libero dispiegarsi delle libertà individuali e invita quindi alla promulgazioni di misure di limitazione – mutuamente accettate dai suoi componenti. Non a caso l’articolo si conclude, parafrasando Hegel172, col riconoscimento che una vera libertà può generarsi solo in relazione e attraverso il riconoscimento della necessità.

In base a questa descrizione Hardin può essefre inserito nella corrente di filosofica politica del contrattualismo. Infatti prospetta una condizione molto simile allo stato di natura popolato da soggetti astratti ostili che è funzionale alla dimostrazione della necessità di un sistema dominato dalle regole del commercio o di uno dominato da quelle delle istituzioni.

L’articolo di Hardin ha riscosso fin da subito un grande successo e ha alimentato il dibattito sui commons divenendo anche bersaglio di aspre critiche. L’opposizione più estrema alle tesi che vi emergono è stata avanzata dalla teoria dei commons di Elinor Ostrom che verrà descritta nel prossimo paragrafo. Il suo testo ha subito letture nettamente contrapposte: da una parte è stato usato dai neoliberisti per dimostrare la sufficienza del mercato nella gestione delle risorse condivise e dall’altra dai sostenitori delle istituzioni per sollecitare l’intervento di agenzie pubbliche statali e autorità internazionali. In quanto oggetto di così diverse interpretazioni, è stato anche criticato da entrambi questi opposti schieramenti: per un verso Hardin è stato criticato in quanto sostenitore del neoliberismo, mentre per un altro lo è stato in quanto statalista tendente al socialismo.

Nel recente dibattito italiano, per esempio, l’articolo di Hardin è stato letto pressoché in modo univoco e in particolar modo da Mattei e dal fronte dei cosiddetti «benecomunisti» come un inno al neoliberismo. Personalmente ritengo questa interpretazione abbastanza cieca e superficiale perché non tiene sufficientemente conto né dell’attenzione nei confronti dell’ambiente che ha ispirato l’articolo in questione né alla proposta alla quale Hardin sembra tendere maggiormente: quella del controllo istituzionale. Mi sento di sostenere il parere di Vitale, secondo il quale:

Per quanto possa apparire paradossale, Hardin si pone lo stesso problema di fondo dei “benecomunisti”: gestire le grandi sfide della comunità umana senza dare troppa importanza ai piagnistei liberali sui diritti della persona, ivi compreso quello di proprietà, e sulle regole della democrazia. Le necessità della comunità vengono prima

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della anarchica libertà individuale, là dove l’imperativo è offrire soluzioni politiche globali sostanziali ed efficaci.173

Le posizioni di Hardin sembrano, quindi, essere molto più vicine a quelle dei suoi detrattori italiani di quanto questi stessi immaginino.

Sicuramente Hardin sembra non prendere in considerazione una caratteristica fondamentale dei commons che è stata in seguito sottolineata con forza dalla Ostrom, ossia quella di essere gestiti da individui che tra loro comunicano e stabiliscono mutuamente le regole di accesso e di utilizzo e si impegnano a rispettarle. Inoltre il modello antropologico sul quale prendono forma i suoi pastori non prende minimamente in considerazione sentimenti sociali positivi, quali l’empatia e la responsabilità, e si appiattisce sul calco dell’individualista illimitato. Il comune di Hardin è, insomma, una terra priva di regole abitata da egoisti razionali privi di ogni senso sociale. Tale scenario assomiglia eccessivamente allo stato di natura hobbesiano per poter essere etichettato come “comune”. Il comune in quanto tale, infatti, non può prescindere da un qualche grado di comunicazione tra gli usufruitori e un certo numero di usi e regole condivisi, anche solo per consuetudine.

Se il suo modello non pare del tutto appropriato per descrivere le relazioni all’interno di una comunità, sembra invece adattarsi maggiormente alle dinamiche di interazione tra le fredde e ingorde grandi corporations. A questo livello di lettura, che lui stesso lascia trasparire quando parla dell’inquinamento atmosferico, la cause che muovono la sua riflessione e tra queste le condizioni dell’ambiente sono perfettamente condivisibili. Le sue risposte invece non sembrano aggiungere molto a quello che il piatto della politica economica occidentale già offriva da qualche secolo. L’approccio dei commons - la cui rappresentante di punta può essere individuata nella Ostrom - si cimenta nel tentativo di individuare un modello alternativo. Il prossimo paragrafo sarà dedicato a valutare in che misura e per quali contesti questo obbiettivo sia stato effettivamente centrato.