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Hyporch frr 110-109: un fraintendimento secolare?

2. L A G UERRA E LE G UERRE DI T EBE

2.3 Hyporch frr 110-109: un fraintendimento secolare?

Lo zelo di alcuni studiosi nel ricostruire le vicende di guerra relative alla città del poeta non poteva trascurare un componimento iporchematico che Pindaro avrebbe composto per i Tebani311. Nel caso di questo testo, in particolare, la genesi e lo sviluppo

dell’atteggiamento storico-biografico degli interpreti a proposito del motivo bellico possono essere seguiti con chiarezza nei loro momenti più significativi sino a partire dal II sec. a.C.

All’iporchema sono ascritti due diversi frammenti (110-109), entrambi conservatisi per tradizione indiretta312:

γλυκὺ δὲ πόλεμος ἀπείροισιν, ἐμπείρων δέ τις ταρβεῖ προσιόντα νιν καρδίᾳ περισσῶς * * * τὸ κοινόν τις ἀστῶν ἐν εὐδίᾳ τιθεὶς ἐρευνασάτω μεγαλάνορος Ἡσυχίας

310 Giustamente Privitera 239 precisa che “anche Nicocle era morto, ma non in guerra, come Achille, altrimenti Pindaro lo avrebbe detto: Achille e Nicocle sono entrambi valorosi, ma in ambiti diversi ed equivalenti, l’uno militare e l’altro atletico”.

311 Le caratteristiche di questo genere così come la sua destinazione cultuale sfuggono tuttora agli studiosi, che concordano unicamente nel considerarne fondamentale la componente mimetica in sede di esecuzione, vd. Di Marco (1973-1974).

312 Per fr. 110 tramandano il testo nella sua interezza Stobeo (Ecl. 4,9,3) ed uno scolio omerico (Schol. [ABTLG] Hom. Il. 11,227), mentre la prima parte di v. 1 compare in varie fonti, pure nella forma proverbiale γλυκὺς ἀπείρῳ πόλεμος (cfr. Schol. Thuc. 1,80,1; 2,8,1; 4,59,2; Diogenian. Paroem. 3,94). Anche nel caso di fr. 109 la testimonianza di Stobeo (Ecl. 4,16,6) ci permette di leggere l’intero testo, al contrario di Polyb. 4,31,6 (= fr. 109,1sq.) e Diog. Bab. StVF 3,232,35 Arn. (= fr. 109,1).

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τὸ φαιδρὸν φάος,

στάσιν ἀπὸ πραπίδος ἐπίκοτον ἀνελών, πενίας δότειραν, ἐχθρὰν κουροτρόφον.

Va subito precisato che l’accostamento dei due frammenti è frutto di una congettura lungi dall’essere certa. Già Schneidewin poneva i due testi in successione sulla base della loro natura iporchematica, testimoniata dalle fonti313. L’intervento più rilevante, tuttavia,

è stato quello di Schröder, che ha attribuito entrambi i frammenti ad un unico componimento per la somiglianza dei metri impiegati314. Successivamente, quindi, i due

testi sono sempre stati considerati come appartenenti alla medesima ode. In realtà, la destinazione tebana è ipotizzabile solo per il secondo frammento, citato da Polibio in un passo destinato a segnarne profondamente l’interpretazione.

Nell’ambito della narrazione della guerra combattuta contro Etoli e Spartani dagli Achei al fianco di Filippo V di Macedonia (219-217 a.C.), lo storico biasima la decisione dei Messeni, che scelsero di rifiutare la proposta di alleanza del Macedone mantenendo una posizione neutrale:

ἐγὼ γὰρ φοβερὸν μὲν εἶναί φημι τὸν πόλεμον, οὐ μὴν οὕτω γε φοβερὸν ὥστε πᾶν ὑπομένειν χάριν τοῦ μὴ προσδέξασθαι πόλεμον. ἐπεὶ τί καὶ θρασύνομεν τὴν ἰσηγορίαν καὶ παρρησίαν καὶ τὸ τῆς ἐλευθερίας ὄνομα πάντες, εἰ μηδὲν ἔσται προυργιαίτερον τῆς εἰρήνης; οὐδὲ γὰρ Θηβαίους ἐπαινοῦμεν κατὰ τὰ Μηδικά, διότι τῶν ὑπὲρ τῆς Ἑλλάδος ἀποστάντες κινδύνων τὰ Περσῶν εἵλοντο διὰ τὸν φόβον, οὐδὲ Πίνδαρον τὸν συναποφηνάμενον αὐτοῖς ἄγειν τὴν ἡσυχίαν διὰ τῶνδε τῶν ποιημάτων, “τὸ κοινόν - τὸ φαιδρὸν φάος”315.

Come si vede, per Polibio il comportamento “vigliacco” dei Messeni al tempo della Guerra Sociale sarebbe raffrontabile con quello tenuto dai Tebani in occasione della discesa di Serse in Grecia. Sempre secondo lo storico, Pindaro avrebbe condiviso la scelta dei concittadini a “starsene tranquilli”, esprimendo questa idea nel frammento citato. In realtà, la lettura del testo pindarico fornita da Polibio sarebbe stata immediatamente sconfessata dalla prima parola di v. 3, se questo comparisse nella citazione della fonte. Come dimostra la menzione della στάσις ἐπίκοτος, infatti, con la personificazione di

313 Schneidewin ap. Dissen-Schneidewin 292. Cfr. Stob. Ecl. 4,9,3 (Πίνδαρος ὑπορχημάτων); 4,16,6 (Πινδάρου ὑπορχημάτων).

314 Schröder 431. In entrambi i casi si tratta di sequenze giambiche ed eoliche. Si badi però, che non si ha responsione tra alcuna sequenza dei due frammenti.

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Ἡσυχία il poeta intendeva far riferimento alla concordia interna alla città, non alla pace stretta con il nemico esterno ad essa. Già Boeckh notava il fraintendimento dello storico, senza rinunciare però all’opportunità di leggere in fr. 109 una testimonianza autentica della reazione di Pindaro allo scontro tra fazioni a favore e contro l’invasore, che a suo dire avrebbe scosso Tebe all’alba della battaglia di Platea316.

In seguito, la critica pindarica ha continuato a fondare la propria interpretazione del frammento sul nesso che tra esso e il conflitto persiano sembra stabilire il passo polibiano, pur rinnegando l’idea (ovviamente, inaccettabile) che il poeta potesse essere stato sostenitore della pace con il nemico. Secondo Wilamowitz, Pindaro avrebbe “alzato la sua voce” in occasione di una celebrazione dedicata alla “Concordia”317 e, proponendo

ai cittadini di mantenersi neutrali, avrebbe dimostrato di non prestare alcuna attenzione alla “praktische Politik” del suo tempo318. Ancora una quarantina di anni dopo, Bowra

forniva una drammatica e dettagliata descrizione dell’invasione persiana: di fronte ad essa il poeta non avrebbe, almeno in un primo momento, realizzato la gravità della situazione, scegliendo di conformarsi alla politica della madrepatria e di Delfi, il cui oracolo intimava ai Greci la resa319. In fr. 110, perciò, Pindaro metterebbe in guardia

dall’orrore della guerra i concittadini desiderosi di combattere il Persiano, mentre in fr. 109 egli esprimerebbe tutta la sua preoccupazione per le divisioni interne alla città320.

Indicativa dell’atteggiamento con cui gli studiosi si sono accostati a questi testi iporchematici è anche la lettura fornita da Farnell, per il quale essi “would be most relevant to Theban conditions in the dark days after the Persian defeat”: a partire dalla testimonianza della fonte, quindi, lo studioso fa “slittare” a suo piacimento il contesto storico, del tutto ipotetico, della composizione del carme iporchematico321. In realtà, si

316 Boeckh (1831), ora in Boeckh (1874). Qui, vd. in particolare 347-8: “Pindarus illis, quae Polybius apposuit, verbis non iudicandus est Thebanos a bello adversus Medos gerendo revocare voluisse: hoc unum concesseris, quum optimates ante pugnam Plataicam tenerent Thebas et faverent Mediis, alii vero seditione mota vellent Graecis opem ferre, Pindaro displicuisse civiles turbas inde natas”.

317 Wilamowitz (1921) 313. Da Schol. Theocr. 4,103a lo studioso ricavava la notizia che Pindaro negli iporchemi avrebbe citato il monte tessalo Ὁμόλη, sede degli Ὁμολώια: questo fatto, tuttavia, non basta evidentemente a connettere il nostro iporchema, breve e privo di qualunque riferimento alla sua esecuzione, con la sede indicata da Wilamowitz. Conseguentemente, non mi sembra sostenibile neppure la sua ipotesi, ripresa di recente da Hornblower (2004) 62, che la citazione pindarica fosse derivata a Polibio da Eforo, nominato dallo scolio teocriteo accanto al poeta come fonte per la festività tessala.

318 Wilamowitz (1922) 193-4.

319 Cfr. Hdt. 7,139,6. Come si avrà modo di osservare (vd. infra, pp. 64sqq.) anche la connessione del poeta con Delfi e Apollo ha rappresentato una tendenza ricorrente della critica pindarica.

320 Bowra (1964) 110-1. 321 Farnell (1932) 439.

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deve ribadire che il frammento citato nelle Storie polibiane non contiene in sé nessun elemento che lo possa far ricondurre alle Guerre Persiane, così come a nessun’altra guerra.

La produzione pindarica non è estranea all’impiego del concetto di ἡσυχία, che talvolta, certo, compare in connessione con l’idea dello scontro militare. Nell’incipit di Pitica 8, per esempio, alla “figlia di Giustizia che rende grandi le città” sono affidate βουλᾶν τε και πολέμων κλαῗδας ὑπερτάτας322. Il termine è usato in chiara

opposizione alla guerra anche in Nem. 9,48, dove l’immagine della pace del simposio segue all’elogio del valore militare di Cromio. Similmente, nel Peana Secondo ἡσυχία è la “ricompensa” per la vittoria sui nemici323. Tuttavia, nel nostro fr. 109 una tale lettura

non è ammissibile, e non solo per la già citata menzione della “discordia adirata”. In effetti, dai versi rimasti si ha l’impressione che l’invito del poeta sia fortemente (e unicamente) improntato al contesto della polis: mentre τὸ κοινόν definisce l’interesse della collettività324, l’immagine del “tempo sereno” si è già vista impiegata in riferimento

a scontri politici interni a Cirene in un passo di Pitica 5325. È interessante notare anche che

la descrizione della stasis come πενίας δότειραν, ἐχθρὰν κουροτρόφον (v. 4) trasferisce in ambito cittadino, oltre che in termini opposti, l’immagine di εἰρήνη κουροτρόφος di derivazione esiodea326.

A questo punto, è evidente come a rigore l’unico riferimento ad un conflitto nell’iporchema sarebbe rappresentato dal fr. 110: ma, si è detto, non abbiamo modo di provare con sicurezza la sua appartenenza allo stesso componimento di 109. Le fonti lo hanno tramandano come sententia sulla guerra, divenuta a tal punto proverbiale da essere inclusa nel lessico Suda327. L’idea che l’inesperienza possa rendere “dolce” la prova

marziale, del resto, trova una formulazione straordinariamente simile a quella pindarica addirittura in Vegezio (IV-V sec. d.C.), che a proposito della necessità di “investigare l’animo dei soldati” così consiglia l’imperator:

322 Pyth. 8,1sqq. Come si è avuto modo di accennare, il significato del motivo bellico nell’ode pitica è tuttora oggetto di aperta discussione, cfr. supra, p. 56 n. 309.

323Pae. 2,30sqq.: εἰ δέ τις ἀρκέων φίλοις/ἐχθροῖσι τραχὺς ὑπαντιάζει,/μόχθος ἡσυχίαν φέρει καιρῷ καταβαίνων.

324 Per l’accezione di κοινός come “pubblico” in Pindaro cfr. Ol. 13,49: ἐγὼ δὲ ἴδιος ἐν κοινῷ σταλείς. 325Pyth. 5,5sqq., vd. supra, p. 54.

326 Cfr. Hes. Op. 228. Un’altra fonte per l’espressione potrebbe essere Hom. Od. 9,27, dove Itaca è definita dal protagonista ἀγαθὴ κουροτρόφος. È inoltre degna di nota la precisa corrispondenza con fr. 109,4, sempre in termini rovesciati, di Eur. Bacch. 420 (φιλεῖ δ’ ὀλβοδότειραν ἰρήναν, κουροτρόφον θεάν). 327S.v. γλυκύς.

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Ne confidas satis, si tiro proelium cupit; inexpertis enim dulcis est pugna; et noveris te oportere differre, si exercitati bellatores metuunt dimicare328.

Non è certo necessario credere che Vegezio avesse in mente il passo iporchematico in cui, stando alle fonti di fr. 110, Pindaro avrebbe espresso un pensiero destinato a così ampia e longeva circolazione329. Semplicemente, una volta assurta al rango di gnome, una

porzione di questo testo ha evidentemente acquisito una propria autonomia rispetto al resto del componimento. D’altro canto, proprio i diversi contesti dei due frammenti, pur ricostruibili in minima parte, sembrano portare nella direzione opposta ad un loro reciproco rapporto: certo, un legame tra πόλεμος in 110,1 e στάσις in 109,3 può essere ammesso se, con la critica precedente, si accetta il nesso tra il componimento iporchematico tebano e le Guerre Persiane stabilito dalla testimonianza polibiana330;

quest’ultima tuttavia è, a mio parere, ben lontana dal poter essere considerata sicuramente attendibile.

Come si è detto, nel citare il testo pindarico Polibio mostra di fraintenderne il significato in relazione alla “orgogliosa Tranquillità” che vi compare. Mentre non è mancato chi ha accusato lo storico di aver fatto un torto al poeta per non averne compreso i sentimenti politici331, studiando l’impiego di citazioni nell’opera polibiana C.

Wunderer ha tentato di definire la conoscenza che l’autore avrebbe potuto avere del testo pindarico, giungendo ad una conclusione piuttosto convincente. Se Polibio avesse avuto a disposizione l’iporchema nella sua interezza o, almeno, come noi lo conosciamo, non avrebbe potuto travisarne il contenuto: di conseguenza

“Es bleibt kein andere Ausweg, als anzunehmen, dass der Historiker jene Verse in der verkehrten Anwendung auf die äussere Politik Thebens schon vorgefunden, und was noch bedenklicher erscheint, auf die richtige Deutung nicht einmal geprüft hat”332.

328 Veg. Epit. rei milit. 3,12.

329 La paternità pindarica del frammento, così come del proverbio da esso derivato è confermata da Stob. 4,9,3 e Schol. [ABTLG] Hom. Il. 11,227; essa era quasi sicuramente riferita anche in P. Oxy. VI 853 col. vi, 35 = Schol. Thuc. 2,8,1 (γλυκ[ὺς δὲ πό]λεμος ἀπείροισιν ὣς φη[σι Πίνδαρος).

330 Cfr. Farnell (1932) 439 dove, inspiegabilmente, si parla di “harmony in the sentiments of the two pieces [scil. frr. 110-109]”.

331 Vd. Mezger 11: “Polybios […] thut ihm aber gewiss Unrecht wenn er, unfähig sich in die Lage des thebanischen Aristokraten bei Beginn der Perserkriege zu versetzen, den Stab über seinen Patriotismus bricht”.

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Nell’ipotesi di Wunderer, la fonte per la conoscenza dei versi citati dallo storico avrebbe potuto essere una raccolta antologica, forse stoica333 . Se questa spiegazione risulta

soddisfacente, non ritengo però si debba necessariamente ipotizzare che già nella fonte di Polibio i versi si trovassero fraintesi e riferiti “alla politica estera di Tebe”. Ci sono, credo, buone possibilità che lo storico leggesse fr. 109,1sq. decontestualizzati, e che ne fornisse suo Marte un’interpretazione adatta alla propria argomentazione. In effetti, il passo polibiano in cui la citazione è inserita sembrerebbe riflettere un maggiore coinvolgimento da parte dell’autore, che avrebbe potuto voler leggere nel breve testo pindarico a sua disposizione più di quanto l’ode iporchematica o un frammento maggiore di essa gli avrebbero permesso.

Indagando le modalità e i tempi di composizione delle Storie polibiane, già all’inizio del XX sec. K. Svoboda individuava nei libri III e IV alcuni passaggi, recenziori rispetto ad una prima redazione dell’opera, in cui lo storico, commentando gli avvenimenti passati, coglie l’occasione per consigliare i Greci a proposito della situazione politica contemporanea: anche Hist. 4,31sqq. rientra tra i passi di questo genere indicati dallo studioso334. L’accusa mossa qui ai Messeni del tempo della Guerra Sociale, infatti,

permette a Polibio di introdurre nella narrazione una riflessione generale sul loro comportamento rispetto ai vicini Spartani ed Arcadi: con la loro politica di neutralità a oltranza i Messeni sono sempre stati vittima dei primi e oggetto di aiuto da parte dei secondi, οὔτε τὴν πρὸς Λακεδαιμονίους ἔχθραν εὐγενῶς ἀνελάμβανον οὔτε τὴν πρὸς Ἀρκάδας φιλίαν; in futuro però, ammonisce lo storico, potrebbe rendersi necessaria una migliore gestione dei rapporti tra Messeni e Megalopolitani. Come ha proposto Svoboda, questo monito si colloca verosimilmente intorno al 149 a.C., anno in cui gli Spartani decisero di lasciare la Lega Achea per cercare l’alleanza con Roma, venendo a costituire una possibile minaccia per le altre città peloponnesiache335. In una

simile circostanza, è comprensibile il risentimento dell’arcade nei confronti dei Messeni:

333 Wunderer (1901) 86. La provenienza stoica dell’eventuale antologia usata da Polibio è supposta dallo studioso sulla base di altre influenze del pensiero e della letteratura stoici rintracciate nell’opera dello storico. A questo proposito è interessante notare che, in effetti, fr. 109 ha tra i suoi testimoni una fonte stoica (Diog. Bab. StVF 3,232,35 Arn.). Significativamente, tuttavia, l’idea che Pindaro nel suo iporchema dovesse far riferimento alla situazione interna alla città è ben chiara in questo passo, in cui il filosofo stoico adduceva esempi del potere psicagogico della μουσική in occasione di sedizioni cittadine.

334 Svoboda (1913) 468-471. Questa analisi è stata in seguito accolta da De Sanctis (1916) 204 e Walbank (1957) 478.

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proprio questo risentimento può, a mio avviso, aver influenzato l’interpretazione del comportamento dei Tebani durante il conflitto persiano e, conseguentemente, dei versi pindarici che Polibio cita a sostegno del rimprovero da lui mosso336. Del resto, altrove

nelle Storie la scelta di sottomissione al nemico da parte di Tebe viene ricordata come inevitabile per la città337. Se lo storico leggeva solo i primi due versi di fr. 109, privi di

contesto, egli poté benissimo credere che in essi il poeta tebano “fosse d’accordo” con i suoi concittadini a proposito della loro scelta di ἡσυχίαν ἄγειν in occasione delle Guerre Persiane. A questo proposito si tenga presente anche che nell’opera polibiana il termine ἡσυχία è usato il più delle volte nell’accezione tecnica di “tregua”, “pace”, “neutralità”338: verosimilmente anche per questo, ritrovandolo nel frammento pindarico,

Polibio ne ha potuto fraintendere il senso339.

A seguito di queste osservazioni, mi sembra si possa ormai fondatamente dubitare del valore della testimonianza polibiana per l’interpretazione dell’iporchema: il travisamento del testo da parte dello storico può essere stato maggiore di quanto gli studiosi hanno fin qui ritenuto e, in ultima analisi, questo stesso fraintendimento potrebbe avere dato luogo alla connessione, a questo punto impropria, tra l’iporchema citato e il conflitto con Serse340. Più prudente sarà, pertanto, limitarsi alla lettura di frr.

110 e 109 come resti di due testi distinti e, fino a prova contraria, non riferibili in alcun modo al drammatico periodo che Tebe visse durante e dopo l’epocale scontro persiano.

336 Mi pare significativo ricordare che anche in tempi moderni l’iporchema si è prestato ad una lettura “soggettiva” simile a quella polibiana. Secondo Keil (1916) 47-8, infatti, Pindaro non avrebbe descritto la στάσις come ἐχθρὰ κουροτρόφος ma come ἔχθρα κουροφθόρος, poi corrottosi nel precedente. Come lo stesso Keil afferma, egli fonda questa proposta su un personale “Erlebnis”: “In der letzten Kollegstunde des Sommersemesters 1914, am 31. Juli, dem Tage, wo der Kriegszustand für Deutschland erwartet und ausgesprochen wurde, hatte ich diese schönen Fragmente zu erklären. Als ich […] zu den Schlußworten kam und die blühende Jugend, die nun hinausziehen sollte, vor mir sah, wußte ich auf einmal, daß Pindar nur eine ἔχθρα κουροφθόρος gedacht und gefühlt haben konnte” (47 n. 1). L’emendazione di Keil non è ammissibile dal momento che, come si è visto, l’espressione pindarica in questione intende evidentemente richiamare, in termini ossimorici, la tradizionale immagine della pace come “nutrice” (cfr. Wilamowitz (1922) 193 n. 2); d’altra parte l’aggettivo proposto da Keil non è attestato. Questa proposta, tuttavia, ci fornisce un esempio illuminante di come il breve testo pindarico potesse essere facilmente, visto anche il suo contenuto, reinterpretato.

337 Cfr. Polyb. 9,39,5: […] Λακεδαιμονίους ὑπάρχοντας, οἵ γε Θηβαίους τοὺς κατ’ ἀνάγκην ἡσυχίαν ἄγειν βουλευσαμένους μόνους τῶν Ἑλλήνων κατὰ τὴν τῶν Περσῶν ἔφοδον ἐψηφίσαντο.

338 Vd. Mauersberger-Helms (2006) s.v.

339 Che lo storico non dovesse essere assiduo frequentatore della lirica pindarica può confermarlo il fatto stesso che fr. 109 rappresenta l’unica citazione tratta dal poeta presente nelle Storie.

340 Forse non possiamo essere certi neppure della destinazione tebana del componimento: la sola presenza dell’espressione τις ἀστῶν nel frammento potrebbe essere stata intesa da Polibio come un riferimento ai

propri concittadini da parte del poeta: ἀστοί, però, è parola molto frequente nella lirica pindarica anche all’infuori delle odi tebane, cfr. Slater (1969a) s.v.

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