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Peana 9: dall’“universale” al “tebano”

3. P INDARO , A POLLO E T EBE

3.4 Peana 9: dall’“universale” al “tebano”

Se l’attribuzione del precedente peana tebano all’Ismenion è stata in genere esclusa, il tempio cittadino è stato riconosciuto all’unanimità dagli studiosi come la sede in cui dovette essere eseguito Peana 9 (= fr. 52k; A1 Ruth.). Questo componimento godette di grande fama nell’antichità: a riprova di ciò, una buona parte dei suoi primi versi è conservata da alcune testimonianze indirette473. Proprio sulla base di una di

queste, i resti del testo venivano ascritti al genere iporchematico474, prima che la

pubblicazione del solito P. Oxy. 841 facesse classificare come peana l’ode, alla cui

472 Fr. 196. I passi cui si fa qui riferimento sono citati in Rutherford 344, che a differenza degli altri studiosi ritiene l’attribuzione di Peana 7 all’Ismenion meno problematica di quanto risulti, come si è visto, quella allo Ptoion.

473 La fonte indiretta che tramanda la porzione di testo maggiore è Dion. Hal. Dem. 7 (1,142,2sqq. Usener- Radermacher), dove del peana sono citati vv. 1-10 e 13-21. Altri versi sono riportati in Plut. De fac. in orbe lun. 19, p. 931e (vv. 1-5 compendiose); Philostr. Ep. 53 p. 250,2sqq. Kayser (vv. 2sq.). Un caso molto interessante di testimonianza indiretta è poi rappresentato dalla versione armena di Phil. Jud. De prov. 2 p. 97 Aucher (Pae. 9,1-10): in questa versione, come ha avuto modo di dimostrare Rutherford (1996), il traduttore è intervenuto sul testo pindarico riportato da Filone, al fine di adeguarlo alla propria interpretazione (o meglio, fraintendimento) dell’intero passo. La definizione del sole data dal poeta al v. 2 (ἄστρον ὑπέρτατον) ritorna nella letteratura scoliastica (cfr. Schol. Arat. 11; Schol. Aesch. Sept. 390a), lasciando ipotizzare, come ha osservato Bona 209, che “i versi fossero letti a scuola, e che i grammatici indicassero con puntigliosa pignoleria l’uso più o meno esatto di alcuni vocaboli”. Al peana pindarico sembra fare riferimento anche Plin. Nat. Hist. 2,54 ([…] mortem aliquam siderum pavente - quo in metu fuisse Stesichori et Pindari vatum sublimia ora palam est deliquio solis).

474 In Dion. Hal. Dem. 7 (1,142,2sqq. Usener-Radermacher) si dice che ταῦτα καὶ τὰ ὅμοια τούτοις [scil. alcuni passi di Platone], ἃ πολλά ἐστιν, εἰ λάβοι μέλη καὶ ῥυθμοὺς ὥσπερ οἱ διθύραμβοι καὶ τὰ ὑπορχήματα, τοῖς Πινδάρου ποιήμασιν ἐοικέναι δόξειεν ἂν τοῖς εἰς τὸν ἥλιον εἰρημένοις [scil. Peana

9]. Dal momento che, come sottolineava Boeckh II 2,600, il contenuto del nostro testo non ne ammetteva una classificazione tra i ditirambi, studiosi ed editori preferirono leggervi un iporchema (fr. 107); genere che, peraltro, già gli antichi associavano al peana in virtù di una sua destinazione apollinea (vd. Menand. Rhet. De encom. III p. 331,20 Spengel).

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ricostruzione il papiro ha contribuito con altri versi non noti in precedenza475. Quanto

risulta quindi dalla combinazione delle fonti corrisponde alla prima triade dell’ode, che si interrompe però al primo verso dell’epodo; e ad una probabile seconda triade, priva a sua volta dei primi tre versi della strofe come dell’ultimo dell’antistrofe e dell’intero epodo476.

Il motivo della celebrità del carme, e in particolare della sua sezione iniziale, risiede molto probabilmente nella suggestiva immagine con cui esso si apre, connessa ad un evento particolare e affascinante in sé: l’oscurarsi del sole durante un’eclissi (vv. 2sq.: ἄστρον ὑπέρτατον/ἐν ἁμέρᾳ κλεπτόμενον). Nonostante l’importanza che un dato del genere certamente avrebbe in termini di collocazione cronologica del peana, non siamo in grado di stabilire con esattezza a quale eclissi Pindaro facesse riferimento.

Sappiamo che nel periodo in cui fu attivo il poeta il sole si oscurò due volte: la prima nel 478, in occasione di un’eclissi anulare; la seconda nel 463, per un’eclissi totale477. Secondo G.W. Most solo quest’ultimo evento avrebbe potuto ispirare il canto

tebano, considerato il maggior effetto che l’oscuramento totale dell’astro avrebbe avuto di contro ad una eclissi anulare478. Tuttavia, non siamo, credo, in grado di scegliere

un’occasione rispetto all’altra sulla base di dettagli che il testo poetico non fornisce: nulla di esso ci porta a credere, cioè, che l’eclissi dovette essere totale479. Del resto, c’è stato

anche chi ha escluso che il peana fosse stato composto in seguito all’eclissi del 463 semplicemente sulla base del fatto che Pindaro non allude ad alcuna eclissi precedente480.

Rispetto a questi argomenti, ritengo resti più prudente ed obiettivo mantenere l’incertezza sulla data dell’evento481.

475P. Oxy. V 841 col. i (fr. 126 col. i), col. ii (fr. 127 e 126 col. ii), col. iii (fr. 128 col. i), col. iv (fr. 128, col. ii). Il papiro conserva, pur con parecchie lacune, vv. 9-18 e 34-49.

476 Giustamente, Rutherford 192 n. 1 precisa che “the gap [scil. tra le diverse triadi] is not certain, since triad length could be a multiple of column length”; cfr. anche 195 n. 16.

477 Vd. Boll (1909) 2354-5.

478 Most (2000) 150 n. 1. Il medesimo evento è indicato come occasione per il peana nelle edizioni di Schröder e Snell-Maehler, così come in Wilamowitz (1922) 393 e Käppel (1992) 46, 57.

479 Per l’analisi del passo legato all’eclissi vd. infra, pp. 90sq. Di fatto, comunque, l’unico particolare dell’evento che emerge dall’incipit dell’ode è l’eclissi stessa (vd. vv. 2sq.).

480 Vd. Coppola (1931) 73: “[…] che si riferisca all’eclissi del 17 febbraio 478 e non già all’eclissi del 30 aprile 463 credo io contro l’opinione dei più […]. Non c’è nessun dato cronologico sicuro, ma leggendo per l’appunto i primi versi dell’iporchema [scil. del peana], possiamo constatare che le parole del poeta esprimono sentimenti sorti in lui la prima volta all’apparire del prodigio, e che niente lascia supporre un’esperienza passata, niente cioè autorizza a credere che Pindaro abbia veduto già un’altra eclissi”. In realtà, anche questo argomento non trova supporto nel testo pindarico, da cui il lettore non è autorizzato a dedurre più di quanto non vi sia effettivamente detto. Cfr. anche Duchemin (1955) 149, che mette addirittura in connessione il peana con la battaglia di Salamina, tre giorni dopo la quale (2 ottobre 480) si sarebbe verificata un’eclissi (vd. Hdt. 9,10,3).

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Un altro problema posto dal riferimento all’eclissi nel carme consiste nel determinare in che modo la composizione e l’esecuzione del canto debbano essere messe in relazione con tale avvenimento. Secondo Wilamowitz,

“Es ist nicht sicher, ob Pindar in staatlichem Auftrag oder aus eigenem Drange auftrat, aber wahrscheinlich ist das letztere denn er sagt, daß er den Thebanen zu Liebe Flötenspiel mit seiner Poesie vereinigt”482.

In seguito, però, è prevalsa l’idea che il peana fosse stato commissionato al poeta dalla città, e secondo alcuni all’origine di questa commissione vi sarebbe stato proprio l’evento inquietante dell’eclissi483. Come ha però messo in evidenza Rutherford, il fatto che

quanto rimane della prima triade sia incentrato sul sole “nascosto” (vv. 1-21), mentre i resti dell’altra triade presentano un contenuto marcatamente apollineo (vv. 34sqq.), può essere indizio di una precisa destinazione cultuale dell’ode. Stando poi alla testimonianza di un frammento del Fetonte euripideo484, già nel V sec. Apollo poteva essere identificato

con il sole. Per questo,

“Given the presupposition that Apollo and Helios are different aspects of the same divinity, it is natural that the Thebans would want to frame an apotropaic παιάν to the Sun as a cult hymn to Apollo”485.

A partire da queste considerazioni Rutherford lega, a mio avviso plausibilmente, l’esecuzione di Peana 9 con un rito simile a quello che, si ricorderà, egli riesce a ricostruire

482 Wilamowitz (1922) 393. Il passo cui qui si rimanda è Pae. 9,34sqq.: ἐκράνθην ὑπὸ δαιμονίῳ τινί/λέχει πέλας ἀμβροσίῳ Μελίας/ἀγαυὸν καλάμῳ συνάγεν θρόον/μήδεσί τε φρενὸς ὑμ[ε]τ έραν χάριν.

483 Vd. e.g. Most (2000) 150: “Die Einzige, was wir wissen, ist, wie die Thebaner objektiv und institutionell darauf reagierten. Sie veranstalteten nämlich ein Ritual im Ismenion-Tempel […]; und wir dürfen vermuten, daß der Zweck dieses Rituals derjenige war, sich die Gunst der Götter wieder zu sichern und dadurch eventuelle unheilvolle Implikationen dieser Sonnenfinsternis abzuwenden”. Cfr. Olivieri (2011) 197, per la quale il peana sarebbe stato commissionato “da una città preda dell’incertezza e dello sgomento”.

484 TrGF 781,11sqq.: ὦ καλλιφεγγὲς Ἥλι’, ὥς μ’ ἀπώλεσας/καὶ τόνδ’ Ἀπόλλων δ’ ἐν βροτοῖς ὀρθῶς καλῇ,/ὅστις τὰ σιγῶντ’ ὀνόματ’ οἶδε δαιμόνων.

485 Rutherford 198. Per altri passi a sostegno dell’identificazione tra il dio e l’astro vd. ibidem n. 32. Una spiegazione simile dell’accostamento di Apollo e del sole nel carme si trova anche in Furley-Bremer (2001) II 152, secondo cui “this progressive invocation - first Ray of Light, then Apollo – matches many instances in hymns and prayers in which first a subsidiary or associated deity – often a personified abstraction – is invoked, then the main deity”.

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per Peana 1486: in questo senso, lungi dall’essere dovute al pathos del momento, la

composizione e l’esecuzione del nostro carme potrebbero avere trovato spazio nell’ambito di una “regolare” celebrazione tebana. Peraltro, la questione del rapporto tra le triadi superstiti, considerato dalla maggior parte degli studiosi come di difficile spiegazione487, può essere meglio chiarita, credo, qualora si osservi anche il particolare

“gioco” di focalizzazioni cui Pindaro dà vita in ciò che ci resta del peana.

La triade iniziale si apre, come si è accennato, con una suggestiva invocazione indirizzata al sole, formata da una serie di tre vocativi488 e di altrettante brevi

proposizioni interrogative, cui segue la preghiera vera e propria:

⌞Ἀκτὶς ἀελίου, τί πολύσκοπ᾿ ἐμήσαο, ὦ μᾶτερ ὀμμάτων, ἄστρον ὑπέρτατον ἐν ἁμέρᾳ κλεπτόμενον; <τί δ’> ἔθηκας ἀμάχανον ἰσχύν <τ’> ἀνδράσι καὶ σοφίας ὁδόν, ἐπίσκοτον ἀτραπὸν ἐσσυμένα; ἐλαύνεις τι νεώτερον ἢ πάρος; ἀλλά σε πρὸς Διός, ἱπποσόα θοάς, ἱκετεύω, ἀπήμονα⸥ εἰς⸥ ὄλ⸤βον τινὰ τράποιο Θήβαις, [ ⸏ ]ὦ π⸥ότ⸤νια, πάγκοινον τέρας 489.

Come si vede, il peana inizia all’insegna del “prodigio” dell’eclissi, del cui significato il coro chiede conto, in modo concitato, allo stesso “raggio di sole”. L’angoscia suscitata dall’assenza di luce è resa evidente dalle immagini di tenebra che il poeta impiega: dal “celarsi in pieno giorno” dell’astro che è “madre degli occhi”, dal suo “slanciarsi per un

486 Vd. supra, pp. 78sq.

487 Vd. e.g. Sandys 546-7 per il quale il poeta avrebbe aggiunto la prima parte del componimento al racconto mitologico che occupa la sezione seguente (vd. infra, pp. 93sqq.) solo in un secondo momento, “in his desire to take note of the extraordinary event which had just happened”.

488 Preferisco considerare ἄστρον ὑπέρτατον/ἐν ἁμέρᾳ κλεπτόμενον (vv. 2sq.) sullo stesso piano di ἀκτὶς ἀελίου (v. 1) e πολύσκοπ᾿ […] ὦ μᾶτερ ὀμμάτων (vv. 1sq.), piuttosto che sostenere, con Farnell (1932) 413, che il sintagma abbia valore di “accusative verbal sentence” in dipendenza dal verbo reggente (ἐμήσαο); cfr. Rutherford 194 e n. 8; Furley-Bremer (2001) II 153.

489 Pae. 9,1sqq. Il testo di Rutherford differisce da Snell-Maehler unicamente a v. 1: qui l’edizione teubneriana ha πολύσκοπε μήσεαι, congettura di Blass per il tradito (e privo di senso) πολύσκοπε μησθε. La correzione scelta da Rutherford, invece, risale a Bergk4, ed è forse migliore di quella proposta da Blass per il parallelo che stabilisce con ἔθηκας (v. 3).

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oscuro sentiero”, la facoltà fisica e mentale degli uomini è resa “vana”490. Appunto, di

fronte a questo sovvertimento della condizione naturale il coro vuole sapere se essa porti “qualcosa di nuovo rispetto al passato”. Il senso sovrannaturale dell’accadimento emerge ancor più chiaramente per chi ricordi l’impressionante (e simile) immagine con cui altrove Pindaro descrive la potenza del dio:

θεῷ δὲ δυνατὸν μελαίνας ἐκ νυκτὸς ἀμίαντον ὄρσαι φάος, κελαινεφέ δὲ σκότει

καλύψαι σέλας καθαρόν ἁμέρας491.

In questi primi versi di Peana 9 la persona loquens si esprime in termini che potremmo definire “universali”, come dimostra anche l’uso della parola ἄνδρες (v. 4). Nel rivolgere la propria supplica all’“astro supremo” (vv. 7sqq.), però, la focalizzazione nelle parole del coro muta, passando dall’umanità in generale a Tebe in particolare: è per essa che il sole viene pregato di “volgere in un bene privo di sofferenza” il πάγκοινον τέρας dell’eclissi492. Ovviamente, la richiesta si attaglia al carattere apotropaico previsto per

componimenti appartenenti al genere peanico493.

Dopo una breve lacuna che interessa i primi due versi dell’antistrofe, il testo riprende per noi con un elenco di possibili calamità, a quanto sembra di capire, sempre inserito in una domanda posta dal coro all’ἀκτὶς ἀελίου:

⏒]ῶ νο ς [– –], ⸤πολέμοιο δὲ σᾶμα φέρεις τινός,

490 Come ha sottolineato Rutherford 194-5, la metafora del sentiero ricorre ravvicinata a v. 4 (σοφίας ὁδόν) e 5 (ἐπίσκοτον ἀτραπὸν); la parola usata in questo secondo caso, inoltre, dà luogo ad una sorta di gioco etimologico con il verbo di v. 9 (τράποιο). È quasi certo, credo, che l’insistenza di Pindaro su questo motivo debba essere intesa come un’allusione alla rappresentazione tradizionale del carro del sole, esplicitamente definito ἱπποσόας θοάς a v. 7. In merito, più cauto Rutherford 194 n. 9 (“The image of Helios driving his chariot is perhaps suggested in lines 5 and 7”).

491 Fr. 108b. Il frammento è stato inserito tra gli iporchemi dal momento che lo schema metrico per esso ricostruibile coincide con quello di un altro iporchema (fr. 108a); per la responsione vd. Blass (1900) 91-2. Si noti che, in base alla presunta appartenenza di Peana 9 ad un iporchema, Christ 403 ipotizzava che fr. 108b potesse essere ricondotto all’ode sull’eclissi. Del resto, anche fr. 108a può essere accostato almeno per contenuti alla nostra ode, in quanto vi compare il motivo della κέλευθος, come si è detto, presente in più punti nel proemio di Peana 9: vd. in particolare fr. 108a,3 (κέλευθος ἀρετὰν ἑλεῖν) e Pae. 9,4 (σοφίας ὁδόν); cfr. Becker (1937) 67 n. 49.

492 Il passaggio è messo bene in evidenza da Bona 224: “La preghiera riguarda Tebe, ma questo non vuol dire che il poeta invochi salvezza per la sua città a dispetto degli altri. Presenti al suo animo sono i suoi concittadini, solo loro: il resto è come se non esistesse”.

92 ἢ καρποῦ φ⸤θίσιν, ἢ νιφετοῦ σθένος ὑπέρφατον, ⸤ἢ στάσιν οὐλομέναν ἢ πόντ⸤ου κενεώσιας ἂμ πέδον, ἢ παγετὸν χ⸤θονός⸥, ἢ νότιον θέρος ὕδατι ζακότ⸤ῳ ῥέον, ⸤ἢ γαῖαν κατακλύσαισα θήσεις [ ⸏ ]ἀνδρῶν νέον ἐξ ἀρχᾶς γένος; ὀλοφύ<ρομαι οὐ>δέν, ὅ τι πάντων μέτα πείσομαι494.

L’enumerazione comprende disastri provocati dall’azione umana (guerra, discordia interna495) così come catastrofi naturali (carestia, estreme condizioni stagionali,

esondazioni). Secondo l’analisi di Rutherford, nessun “obvious order” regolerebbe la disposizione di questi elementi496. Più correttamente, invece, Most ha rintracciato

nell’elenco una precisa “kunstvollen Anordung”, secondo la quale le sciagure menzionate sono proposte in due gruppi di quattro membri ciascuno, a loro volta in rapporto chiastico tra di loro: nella prima parte dell’elenco, infatti, πόλεμος e στάσις “incorniciano” due esempi di fenomeni naturali stagionali come la perdita del raccolto o la caduta eccessiva di neve; nella seconda, analogalmente, gelo invernale ed estate “torrenziale” sono preceduti e seguiti da una κενεώσις del mare sulla terra. Sempre secondo Most, nell’enumerazione sarebbe evidente il progressivo prevalere dell’elemento idrico, in corrispondenza climactica con il culmine delle catastrofi, la rigenerazione dell’intero genere umano497.

Se è vero che nel passo si assiste ad una “Spannung der immer stärkeren Präsenz eines gefährlichen Wasserelements”, mi sembra però altrettanto significativo che la climax sia impiegata dal poeta per riportare il pubblico (e i lettori) dalla prospettiva tebana, individuata a vv. 7sqq., ad un punto di vista nuovamente universale: questo si impone definitivamente con l’immagine dell’explicit dell’antistrofe (vv. 19sq.), per continuare nel primo (e unico) verso dell’epodo, in cui la persona loquens dice di non lamentare “ciò che subirà insieme a tutti”498.

494Pae. 9,13sqq.

495 Si ricorderà peraltro come questi temi coincidano con quelli rispettivamente di fr. 110 e fr. 109 (vd.

supra, pp. 57sqq.).

496 Rutherford 195. Egli ammette, però, che “the last items in the list all have a connection with water”. 497 Most (2000)156.

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Dal momento che il testo si interrompe subito dopo, non siamo in grado di capire in quali termini debba essere interpretata l’affermazione del coro. Due ipotesi sono state avanzate in merito da Rutherford: l’io parlante potrebbe avere continuato il suo discorso dicendo che, se la catastrofe fosse stata confinata alla sola Tebe, il suo lamento sarebbe stato maggiore, perché ciò avrebbe significato una punizione specifica per la città da parte degli dei; in alternativa, in considerazione della chiusa dell’antistrofe il coro avrebbe potuto parlare di un cataclisma universale come di un “cosmic plan”, ed esprimere la speranza che l’ἀνδρῶν νέον γένος fosse migliore del precedente499. Delle due ipotesi la

prima mi sembra maggiormente plausibile per via del suo rapporto più articolato con la sezione precedente e in particolare con la “preghiera tebana”. In ogni caso si deve rilevare che, se l’integrazione supposta per v. 21 è corretta, l’io parlante proclama qui di non lamentare un “mal comune”, in evidente contrasto con il suo atteggiamento nei confronti della città, per la quale egli ha piuttosto invocato a v. 9 un ἀπήμων ὄλβος500.

Quando il testo ricomincia, la focalizzazione torna (o è già tornata nei versi precedenti, che non leggiamo) su Tebe, cui la persona loquens lega la sua attività, attribuendole un carattere quasi divino501. Il “ritorno” alla dimensione cittadina, si badi,

avviene per mezzo del mito di Melia: il canto è eseguito infatti λέχει πέλας ἀμβροσίῳ Μελίας (v. 35), ovvero, come chiarisce uno scolio supra lineam nel papiro, presso l’Ismenion tebano502: ἐν ᾧ Τήνερον εὐρυβίαν θεμίτ [ων ⏑– ἐξαίρετον προφάταν ἔτεκ[εν λέχει κόρα μιγεῖσ’ Ὠκεανοῦ Μελία σέο, Πύθι [ε. τῷ] Κάδμου στρατὸν καὶ Ζεάθου πό[λιν, ἀκερσεκόμα πάτερ, ἀνορέας ἐπέτρεψας ἕκατι σαόφρονος. καὶ γὰρ ὁ πόντιος Ὀρσ[ιτ]ρίαινά νιν περίαλλα βροτῶν τίεν, 499 Rutherford 195.

500 Il primo verso dell’epodo è conservato solo in Dion. Hal. Dem. 7 (1,142,2sqq. Usener-Radermacher) i cui codici, dipendenti da un unico esemplare andato perduto, presentano tutti lacuna (vd. Usener- Radermacher xiii-xxiii; apparato ad loc.). La proposta di integrazione, stampata all’unanimità dagli editori del retore così come di Pindaro, risale a G. Hermann.

501Pae. 9,34sqq. Per questo passaggio del peana e l’interpretazione delle parole dell’io parlante vd. infra, pp. 138sqq.

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ὐρίπου τε συνέτεινε χῶρον

desuntreliqua503.

Appunto sulla base di questo passo il Peana 9 è stato connesso con sicurezza dagli studiosi, come si è già accennato, al santuario apollineo della città. Meno certa è stata però l’interpretazione data al mito introdotto, come molto spesso in Pindaro, dalla relativa ἐν ῷ. In realtà, come precisa giustamente Olivieri, in questi versi possono essere individuati almeno tre “nuclei mitologici” connessi con Tebe: l’unione di Melia con Apollo e la nascita di Tenero; il mito, ancora più antico, della fondazione della città da parte di Cadmo e della sua fortificazione ad opera dei gemelli Anfione e Zeto504; e, da

ultimo, il legame di Posidone con Tenero505. Per quanto riguarda quest’ultimo punto,

tuttavia, non è chiaro perché il dio marino onorasse il profeta apollineo “al di sopra degli altri mortali”, e la perdita del testo successivo ci priva purtroppo di un mito che non si è altrimenti conservato, e che gli studiosi hanno variamente tentato di ricostruire.

Per ciò che concerne la menzione dell’Eubea attraverso l’Euripo (v. 49), un indizio può forse essere ricavato da un’ipotesi avanzata da Grenfell e Hunt. Secondo questi ultimi, infatti, al peana sarebbe riconducibile un ulteriore frammento di P. Oxy. 841, contenente uno scolio: qui si parlerebbe di una figura recatasi in Aulide nel ruolo di indovino, figura che i due editori ipotizzano possa coincidere con Tenero506. In

alternativa, per Rutherford

“Another possibility is that Poseidon’s journey is just beginning and that he continued (like Apollo in the Homeric Hymn [scil. Hymn. Hom. 3,222sqq.]) to Thebes and Onchestos, where he had a famous cult: this would put us in the region of the Teneric plain. An aetiology for the name ʽTenericʼ would be as likely a subject for this song as any, and Poseidon’s connection with the region, and his admiration for Tenerus, could perhaps have formed the basis for such an aetiology”507.

503Pae. 9,41sqq. Il testo differisce dall’edizione Snell-Maehler a v. 44: proponendo una diversa colometria (per la quale vd. 448 e n. 7) Rutherford può mantenere il tradito καί, che Wilamowitz (1921) 490, conservando la colometria del papiro, correggeva in ἄν, poi messo a testo nell’edizione teubneriana. 504 Per Anfione e Zeto a Tebe vd. [Apollod.] Bibl. 3,5,5. Si noti come a v. 44 Pindaro usi l’espressione Κάδμου στρατός, impiegata anche a Isthm. 1,11 per definire i Tebani. Per l’allusione agli Sparti insita nell’espressione vd. Olivieri (2011) 40.

505 Olivieri (2011) 202.

506P. Oxy. V 841 fr. 139 (= A4 Ruth.); Grenfell-Hunt (1908) 109 (cfr. Rutherford 197, 207). 507 Rutherford 197.

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Rispetto a queste ricostruzioni, decisamente più ardita risulta la proposta di Most. Cercando di comprendere l’unità del componimento ed individuando una sorta di nesso stabilito dall’elemento idrico tra le due triadi restanti del peana, egli ritiene che la menzione di Posidone nell’ultimo lacerto di testo conservato si possa spiegare richiamando il mito del ratto di Melia da parte di Apollo, narrato da Pausania508.

Secondo Most, infatti, nell’esondazione paventata a v. 16 in relazione alla presente eclissi, il pubblico tebano avrebbe potuto intravedere la vendetta di Oceano per l’oltraggio arrecato dal dio a sua figlia. Alle domande della persona loquens su questo e gli altri pericoli elencati nella prima parte del componimento, però, il profeta Tenero, nato dall’unione del dio e della ninfa, avrebbe dato “le giuste risposte”. E proprio il suo legame con un altro dio marino, ovvero Posidone, avrebbe consentito ai Tebani di salvarsi dall’ira di Oceano509.

Se una simile struttura per l’ode non sarebbe del tutto ignota alla produzione pindarica510, va però detto che la fonte pausanea riguardante la vicenda di Melia,

Oceano e Apollo non parla esplicitamente della furia del padre alla notizia del ratto511.

Inoltre, il peso che l’immagine dell’inondazione ha nella climax di vv. 13sqq., per Most di difficile spiegazione prima della sua proposta, si giustifica in funzione della distruzione del genere umano di cui sarebbe causa: una sorta di riproposizione, dunque, della catastrofe a seguito della quale, come racconta lo stesso Pindaro in un passo di Olimpica 9, Pirra e Deucalione κτισσάσθαν λίθινον γόνον512.

D’altro canto, ferma restando l’incertezza relativa al contenuto preciso della sezione mitica del carme, che inizia proprio laddove la nostra lettura è costretta ad interrompersi, la connessione tra le due parti superstiti del peana risulta a mio avviso evidente dall’osservazione dell’alternarsi della focalizzazione nei versi delle due triadi. Come si è cercato di mettere in evidenza, nella prima parte del testo il discorso del coro