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Pindaro a Tebe: studi sulle odi pindariche di contesto tebano.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in

Filologia e Storia dell’Antichità

Tesi di Laurea

P

INDARO A

T

EBE

:

S

TUDI SULLE

O

DI

P

INDARICHE DI

C

ONTESTO

T

EBANO

Relatore: Candidato:

Prof. E. Medda Francesca Modini

Correlatore:

Dott.ssa M.C. Martinelli

Anno Accademico 2013-2014

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Alla mia Famiglia θεοῦ δὲ δείξαντος ἀρχάν ἕκαστον ἐν πρᾶγος, εὐθεῖα δή κέλευθος ἀρετὰν ἑλεῖν, τελευταί τε καλλίονες. (Pind. fr. 108a) A Matteo Ante gradus sacros cum starent forte locique Narrarent casus, frondere Philemona Baucis, Baucida conspexit senior frondere Philemon. Iamque super geminos crescente cacumine uultus Mutua, dum licuit, reddebant dicta "uale" que "O coniunx" dixere simul, simul abdita texit Ora frutex: ostendit adhuc Thyneius illic Incola de gemino uicinos corpore truncos. (Ov. Met. 8,713-20)

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I

NDICE

INTRODUZIONE:

IL CORPUS TEBANO DI PINDARO 1

1. IL MITO TEBANO NELLE ODI PER TEBE: IL CASO DI ERACLE 6

1.1Istmica 4: Eracle μορφὰν βραχύς 8

1.2 L’Inno Primo: Eracle, i Meropi e Apollo Delio 15

1.3 Il Secondo Ditirambo: Eracle e Dioniso 25

2.LA GUERRA E LE GUERRE DI TEBE 34

2.1 Istmica 7: τεθνάμεναι γὰρ καλὸν – προμάχων ἀν᾿ ὅμιλον 36

2.2 Istmica 1: μισθὸς γὰρ ἄλλοις ἄλλος ἐπ᾿ ἔργμασιν ἀνθρώποις γλυκύς 47

2.3 Hyporch. frr. 110-109: un fraintendimento secolare? 57

3.PINDARO,APOLLO E TEBE 64

3.1 Pitica 11: Tebe, Delfi e uno “stuolo locale di eroine” 66

3.2 Peana 1: una corona di εὐνομία per la città 76

3.3 Peana 7: una processione tebana 81

3.4 Peana 9: dall’“universale” al “tebano” 87

3.5 Il Secondo Partenio: un dafneforico “epinicio” per Apollo, Agasicle, e Tebe 98

4. L’IO PINDARICO E L’IO TEBANO 109

4.1 ξυναῖσι δ’ ἀμφ’ ἀρεταῖς τέταμαι: la dimensione civica dell’io tebano 113

4.2 “Araldo scelto di sapienti parole”: la dimensione poetica dell’io tebano 125

CONCLUSIONI: PINDARO POETA TEBANO 150

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INTRODUZIONE:

IL CORPUS TEBANO DI PINDARO

Recentemente, parlando della produzione patria non epinicia del poeta tebano, B. Kowalzig ha affermato che

“Pindar’s Thebanness is in all probability responsible for the respectable number of songs that survive, invaluable sources of myths and rituals in Boiotia”1.

A sua volta, l’idea che la provenienza dell’autore possa aver favorito la conservazione dei carmi da lui composti per la madrepatria si è legata in passato ad alcune considerazioni in merito all’assetto editoriale antico dei libri dell’opera pindarica. In particolare si è sostenuto che, fatta eccezione per gli epinici, aperti da Olimpica 1 perché contenente l’aition dei giochi, i libri dei restanti generi maggiori iniziassero tutti con un’ode tebana: gli inni con il cosidetto Inno a Zeus; i peani con un tripodeforico per il santuario tebano dell’Ismenion (fr. 66); i ditirambi con un componimento del genere ricostruibile attraverso la congiunzione dei frammenti 71-74; i parteni con l’ode cui appartenne fr. 94d e forse fr. 94c, ascritto ad un dafneforico composto dal poeta per il figlio Daifanto2.

Tuttavia, questa ipotesi necessita, credo, di essere ad oggi quantomeno riconsiderata. A proposito dei due “estremi” di questo elenco, per esempio, mentre la destinazione tebana dell’Inno Primo è resa evidente da quanto si può leggere del testo, l’argomento tebano del primo partenio è dedotto da Lehnus “sulla base di un criterio di verosimiglianza”, in virtù della supposizione, cioè, che anche i libri degli altri generi oltre a quello innico fossero inaugurati da odi tebane3. Almeno per quanto riguarda i peani,

però, D’Alessio ha messo convincentemente in dubbio l’esistenza di un tripodeforico pindarico per l’Ismenion: canti del genere, infatti, non sono attestati per il tempio cittadino, a differenza della sede oracolare di Dodona (cfr. frr. 57-60); e d’altra parte la

1 Kowalzig (2007) 329.

2 Vd. Lehnus (1973) 422 n. 84 per questa ricostruzione, ripresa anche da Bernardini (1989) 39-40. In merito a fr. 94c va ricordato che non siamo sicuri di possedere alcunché del dafneforico: della sua esistenza siamo a conoscenza da Schol. I 3,3 Dr. (Vita Ambrosiana); ma né i versi conservati dallaVita di P. Oxy

2438 in un passo molto lacunoso relativo ai figli dell’autore (ll. 24sqq.), né di conseguenza quelli tramandati da Efestione, che in parte coincidono con quelli del papiro, appartengono con certezza al partenio per Daifanto (vd. Gallo (1968) 69-70; cfr. apparato dell’edizione Snell-Maehler).

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2

testimonianza che costituisce il frammento4 lascia semplicemente intendere che nel suo

commento al primo peana5 Didimo cogliesse l’occasione di ricordare la dedica di un

tripode al tempio tebano, senza permetterci di intendere la destinazione di questo canto6.

Anche in merito al ditirambo risultante dall’unione dei frr. 71-747, una proposta

più recente ha fatto vacillare l’idea che esso sia stato cantato a Tebe. Il motivo determinante per cui l’esecuzione dell’ode era in genere legata alla città è rappresentato dal fatto che, in questo primo ditirambo, Pindaro avrebbe attribuito alla madrepatria la “scoperta” del genere dionisiaco8. Contrariamente agli studiosi precedenti, tuttavia,

Hornblower ha ipotizzato, a partire dal mito che sarebbe stato al centro del carme, la sua esecuzione in Chio9: in particolare, fr. 72 pare alludere alle vicende di Orione sull’isola,

dove egli avrebbe fatto violenza alla moglie del re Oinopion10. Del resto, secondo

Hornblower la menzione di Tebe come patria prima del ditirambo non farebbe difficoltà

4 Ammon. De diff. verb. 231 Nickau: Θηβαῖοι καὶ Θηβαγενεῖς διαφέρουσιν καθὼς Δίδυμος (p. 238 Schmidt) ἐν ὑπομνήματι τῷ πρώτῳ (τοῦ πρώτου Wilamowitz) τῶν παιάνων Πινδάρου φησίν· ʽκαὶ τὸν τρίποδα ἀπὸ τούτου Θηβαγενεῖς πέμπουσι τὸν χρύσεον εἰς Ἰσμηνίου (Valckenaer, Ἰσμηνὸν codd.) πρῶτονʼ.

5 Per questo significato dell’espressione “il primo di” riferita a peani, ditirambi e parteni vd. Lehnus (1973) 396-400, dove si dimostra che simili rinvii non dovettero rappresentare indicazioni generiche (“il primo [libro] di…”).

6 Vd. D’Alessio (1997) 45-6. D’Alessio crede che l’occasione di citare il rito dell’Ismenion possa essere stata offerta al commentatore antico dallo stesso tripodeforico per Dodona, forse classificato tra i peani e coincidente dunque con il nostro “primo peana”.

7 L’associazione tra frr. 71 e 72 è conseguente al fatto che le fonti di entrambi dicono di citare dal “primo ditirambo” pindarico (per questa espressione vd. supra, n. 5). A sua volta, fr. 74 presenta una metrica dattiloepitritica come fr. 72; e sia fr. 73 che 74 sono riconducibili al mito di Orione. Al medesimo ditirambo allude forse anche P. Berol. 9571v, 32-4: vi si parla dell’“accecamento di Orione avvenuto in Chio” e successivo al suo sgarbo ad Oinopion; il passaggio è preceduto (ll. 22sq.) e seguito (ll. 44sq.) da citazioni pindariche (Ol. 13,18sq. e fr. 70b,8sqq. rispettivamente). Per il passo e la sua interpretazione all’interno del papiro vd. Del Corno (1974) 107-9.

8 Vd. fr. 71: Πίνδαρος ἐν μὲν τοῖς ὑπορχήμασιν ἐν Νάξῳ φησὶν πρῶτον εὑρεθῆναι διθύραμβον (fr. 115), ἐν δὲ τῷ πρώτῳ τῶν διθυράμβων ἐν Θήβαις. Cfr. anche Ol. 13,18sq. in cui l’origine del genere è ascritta a Corinto.

9 Vd. Hornblower (2004) 145-56. Come ricorda lo stesso Hornblower (145 n. 63) già Hamilton (1990) 213 parla di un “Chian dithyramb”, senza peraltro argomentare l’idea.

10 Fr. 72: - ] ἀλόχῳ ποτὲ θωραχθείς ἔπεχ᾿ ἀλλοτρίᾳ/Ὠαρίων. Come si vede, il testo non nomina Oinopion né la sua isola; ma il fatto che l’aggressione del gigante avvenga sotto l’ebbrezza del vino ha permesso di riconoscere nel frammento un episodio narrato e.g. in Hes. fr. 148a Merkelbach-West; Hyg.

Astron. 2,34,2; Parth. Erot. 20. A differenza del nostro frammento, però, in queste fonti la vittima di Orione è la figlia del sovrano: forse, quindi, Pindaro è intervenuto sulla vicenda mitica con una libertà che non gli sarebbe estranea (cfr. Van der Weiden 176-7). Secondo Lavecchia 277 il poeta avrebbe piuttosto seguito la tradizione testimoniata dalla versione di Hes. fr. 148a Merkelbach-West come conservato da Schol. Nic. Ther. 15: qui, invece di Μερόπην τὴν Οἰνοπίωνος, tradito da [Eratosth.] Catast. 32 e Schol. Arat. 322, si trova Μερόπην τὴν Οἰνοπίωνος γυναῖκα. L’accordo maggioritario delle fonti, tuttavia, ha fatto propendere gli editori dei frammenti esiodei per il testo conservato dallo Pseudo-Eratostene e dallo scolio ad Arato: in questo senso, non mi sembra inopportuno suggerire che proprio la versione pindarica potrebbe aver influenzato lo scoliaste di Nicandro; che d’altra parte può benissimo aver mutato suo Marte

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con una simile destinazione del componimento, vista la natura di “patriotic Theban” di Pindaro, il quale non avrebbe rinunciato a menzionare la sua città in un carme da eseguirsi altrove11.

Rispetto a questa ricostruzione va però osservato che, mentre alla menzione di Tebe così come al suo patrimonio mitico il poeta ricorre di frequente negli epinici non tebani, ciò non sembra avvenire nei resti della produzione cultuale non tebana, in piena corrispondenza con il variare delle esigenze da un genere all’altro: se nell’epinicio, come si vedrà12, Pindaro deve proporsi come ottimo ospite e instaurare con il committente un

rapporto in cui non è per nulla superflua la sua provenienza, nel caso di canti indirizzati alla divinità a questa necessità tende a sostituirsi l’esigenza di proporsi quale degno interlocutore degli dei destinatari del carme13. A ciò si aggiunga che la saga di Orione è

profondamente radicata in Beozia, dove ha luogo anche l’episodio dell’inseguimento di Pleione e delle figlie, terminato con il catasterismo loro e del gigante, di cui resta traccia in fr. 7414. Quanto poi all’idea di Hornblower che la vicenda narrata nei frr. 71-74

convenga ad un pubblico di Chio più che ai Tebani dal momento che il protagonista loro “corregionale” è messo in cattiva luce con il suo comportamento empio nei confronti dell’ospite Oinopion15, è possibile ricordare che, come si avrà modo di osservare, anche in

un’ode sicuramente tebana quale il Secondo Ditirambo Pindaro non sembra rinunciare a

11 Vd. Hornblower (2004) 152: “the idea of dithyramb as a Theban invention was familiar and implies no special compliment to Thebes. So F71 is no problem. There is a further possible objection: if I am right why did Pindar never say the dithyramb was invented on Chios? This objection presupposes a rather unimaginatively mechanical Pindar, I think. He would have risked making himself ridiculous if at whatever place he recited a dithyramb, he told his listeners ʽthe dithyramb was invented hereʼ”.

12 Vd. infra, p. 6.

13 Per l’opportunità secondo cui Pindaro “plasma” la persona loquens dei suoi carmi in relazione alla loro destinazione vd. infra, pp. 112sqq.

14 Per l’ambientazione beotica di questo episodio cfr. Hyg. Astron. 2,21,4; Etym. Magn. 675,37; vd. Debiasi (2010) 100-1 che individua “un preciso background regionale beotico dove il culto e la leggenda di Orione […] risultano più che mai radicati e diffusi”. Hornblower (2004) 148 crede che la “marca” di Chio sulla narrazione pindarica vada rintracciata anche (e soprattutto) nel fatto che secondo Hyg. Astron.

2,34,1 il poeta tebano avrebbe collocato il padre del gigante in insula Chio invece che Thebis. In realtà, questa testimonianza sembra in contraddizione, pace Hornblower, con fr. 73 (ἡ Ὑρία…τῆς Θηβαΐδος, ὅπου…ἡ τοῦ Ὠρίωνος γένεσις, ἥν φησι Πίνδαρος ἐν διθυράμβοις), tramandato da Strabone: per quanto non sia lecito tacciare Igino di inattendibilità sulla base del confronto con la testimonianza straboniana, quest’ultima ha, ritengo, maggiori possibilità di avvicinarsi al vero data la conoscenza che l’autore della Geografia mostra di avere del testo pindarico (cfr. le numerose citazioni che egli trae dal

corpus del poeta registrate nell’Index fontium dell’edizione Snell-Maehler); d’altro canto, per Del Corno (1974) 108 n. 24 quello di Igino “ist ein evidenter Fehler, der durch die Tatsache verursacht wurde, daß eben in Chios die Oinopionepisode stattfand”.

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caratterizzare in termini negativi l’eroe locale: è plausibile che in entrambi i casi il contesto completo dei componimenti, oggi perduto, giustificasse una tale scelta16.

Sebbene la raccolta dei ditirambi pindarici potrebbe dunque essere stata aperta da un testo tebano, non si può continuare ad affermare con certezza la destinazione alla città dei carmi incipitari di tutti libri dei maggiori generi cultuali, data l’assenza di prove in questo senso per peani e parteni. Ciò non significa che l’origine del poeta non abbia influito sulla fama (e quindi anche sulla sopravvivenza) di un numero significativo di odi sicuramente tebane, che saranno l’oggetto specifico della presente ricerca: Pitica 11, Istmica 1, 3, 4, 7; Peana 1, 7, 9; Ditirambo 2; Partenio 1, 2. A queste si aggiungono i frammenti iporchematici 110-109, più problematici, come si dimostrerà, nel loro possibile rapporto con Tebe17. Finora questi componimenti hanno attirato l’attenzione

degli studiosi come testi autonomi, alcuni dei quali ripetutamente discussi e commentati; mai, tuttavia, essi sono stati sottoposti ad un’analisi complessiva come insieme potenzialmente conchiuso e dotato di caratteri autonomi nel panorama della poesia pindarica. Il presente lavoro si propone appunto questo scopo18.

Da un punto di vista metodologico si tenga da subito presente che, pur non perdendo di vista le indubbie e in parte già accennate differenze intercorrenti tra generi in materia di composizione ed esecuzione dei canti, i testi del corpus tebano saranno considerati tutti, epinici e non epinici, come dotati, per quanto in misura diversa, di una natura pubblica: come è stato di recente ribadito a proposito delle odi per vincitori, infatti,

“Assumptions about […] performance contexts (whether at a sanctuary in the context of a festival or at the victor’s house in the context of a symposium) feed into assumptions about whether epinician poetry was public or private, and whether it was destined for an inclusive citizen audience or an exclusive aristocratic one. This distinction has become increasingly suspect. Often in the Archaic and Classical periods ʽprivateʼ aristocratic occasions had an important ʽpublicʼ

16 Vd. fr. 81, discusso infra, pp. 26sq. Del resto, l’ebbrezza sotto il cui impulso il gigante agisce ben si situa in un carme per Dioniso, che secondo la tradizione sarebbe padre di Oinopion e lo avrebbe istruito nell’arte vinicola: in proposito vd. Keyßner (1937) 2272-3.

17 Vd. infra, pp. 57sqq.

18 Anche Olivieri (2011), pur occupandosi della presenza mitica tebana nella produzione del poeta, non isola i carmi da lui apprestati per la madrepatria per rilevarne i caratteri specifici, limitandosi invece a catalogare le tradizioni della città nelle diverse varianti attestate nel lirico.

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aspect. Even odes performed in a sympotic context at the laudandus’ house cannot be viewed as straightforwardly ʽprivateʼ”19.

In questo modo sarà anche possibile rilevare se e come Pindaro abbia sollecitato il suo pubblico mediante reciproche relazioni esistenti tra i componimenti ad esso noti, similmente a quanto fatto da A.P. Burnett e A.D. Morrison per gli epinici eginetici e per quelli di ambiente siciliano rispettivamente20. In realtà, oltre al pubblico dell’esecuzione

Morrison prende in considerazione anche quelli delle reperformances successive, comprendendo nei suoi “tertiary audiences […] all later audiences of the odes, including readers and, ultimately, us modern Pindarists”21: in maniera analoga, in questo studio si

sottolineeranno ove opportuno le interazioni tra carmi tebani che il poeta ha disseminate in modo tale che esse risultano coglibili anche dai lettori (moderni).

Inoltre, se la “Thebanness” che l’autore condivide con le sue odi per la madrepatria è stata fino ad oggi valutata in relazione alla sua rilevanza per la loro celebrità una volta composte22, qui si tenterà di approfondire anche come l’origine tebana

di Pindaro ne abbia guidato le scelte al momento della composizione dei testi per i propri concittadini. Ciò sarà fatto inquadrando i singoli carmi nell’ambito di alcuni “nodi” della critica pindarica, in merito ai quali essi forniscono appunto evidenza della specificità del corpus tebano: per il mito, la centralità della figura di Eracle; la guerra per la storia della città; per il culto, Apollo; da ultimo, la controversa questione dell’io pindarico.

19 Currie (2005) 18. Similmente si esprime Hutchinson (2001) 361 e 364.

20 Vd. Burnett (2005) 5 (“This present study […] will consider one set of odes – the eleven made for the lords of Aigina – and try to discover the pleasures taken and the influences felt as a particular audience watched each performance […]. In whatever house they might gather, the men who attended these victory celebrations had essentially the same tastes and characteristics […] the ode made for them share this homogeneity”); Morrison (2007) 2 (“There are in total fifteen Pindaric victory odes for Sicilian victors, and these include some of Pindar’s most impressive and widely admired poems […]. This makes them a rewarding subject for study in themselves, but there are also good prima facie grounds for thinking that the audiences of various Sicilian odes would have overlapped substantially with each other”).

21 Morrison (2007) 21.

22 Lo stesso Pindaro è ben consapevole di quanto la sua poesia contribuirà alla fama di Tebe, come mostra il bellissimo fr. 194,5sqq: (τὸ νέκταρ sc. mei carminis) καὶ πολυκλείταν περ ἐοῖσαν ὅμως/Θήβαν ἔτι μᾶλλον ἐπασκήσει θεῶν/καὶ κατ’ ἀνθρώπων ἀγυιάς.

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1. IL MITO TEBANO NELLE ODI PER TEBE:

IL CASO DI ERACLE

Come è stato più volte sottolineato, Pindaro ricorre frequentemente a miti tebani nella sua produzione23. A proposito della distribuzione di queste saghe negli epinici,

recentemente Giannini ha sostenuto che

“nessuna di queste tradizioni è sviluppata all’interno di epinici tebani: esse sono solo accennate, […] la loro ovvia conoscenza da parte dell’uditorio esimeva il poeta dall’indugiare su di esse”24.

In realtà, alcune precisazioni devono essere fatte rispetto a questa affermazione.

Certamente, negli epinici non tebani, l’autore attinge alle tradizioni patrie “che hanno carattere più o meno panellenico […] come se le varie occasioni offerte dal canto fossero utili per Pindaro per parlare della sua città”25. Egli, inoltre, utilizza spesso i

riferimenti mitici per definire il suo rapporto di ospitalità con il committente: dall’impiego di alcuni episodi del mito tebano emerge chiara la volontà di legare la propria città a quella dell’ospite, la lode di quest’ultimo alla propria madrepatria26. Al

contrario, componendo per concittadini, il poeta cessa di essere uno ξεῖνος e la funzione del mito tebano in relazione a questo motivo non può che venire meno27. Se si prende in

esame l’intero corpus tebano, tuttavia, è evidente come una figura torni con insistenza, nei canti di altro genere così come negli epinici. A Pyth. 9,86 si dice che κωφὸς ἀνήρ τις,

23 Per l’importanza delle tradizioni della madrepatria nella produzione dell’autore vd. già Wilamowitz (1922) 36-7: “Er (i.e. Pindar) lebt ganz in den Überlieferungen seiner Stadt”; cfr. Snell (19754) 82: “Pindars Heimatstadt Theben war der sagenreichste Ort Griechenlands […]. Ein lyrischer Dichter der archaischen Zeit fand einen bequemen Schatz in den alten Sagen, um ein Fest, für das er dichtete, zu schmücken, und waren es gar die Sager der eigenen Heimat, so genoß er den Vorteil, seinem Gedicht zugleich einen bedeutenden und doch nah-vertrauten Inhalt geben zu können”. Più recente, Olivieri (2011) passa in rassegna per tematiche la presenza di “miti e culti tebani” nell’intero corpus pindarico. 24 Giannini (2000) 177.

25 Giannini (2000) 178. Una interessante eccezione si trova in Nem. 3, 26sqq: dopo aver accennato alle imprese di Eracle, noto motivo panellenico, l’io parlante si esorta ad abbandonare gli ἀλλοτρίων ἔρωτες, cercando piuttosto un tema οἴκοθεν, cioè egineta.

26 Cfr. e.g. Ol. 6,84sq.: ματρομάτωρ ἐμὰ Στυμφαλίς, εὐανθὴς Μετώπα,/πλάξιππον ἃ Θήβαν ἔτι-/κτεν (di Stinfalo erano anche gli antenati materni del laudando); Nem.1,33sqq.: ἐγὼ δ᾿ Ἡρακλέος ἀντέχομαι προφρόνως/ἐν κορυφαῖς ἀρετᾶν μεγάλαις,/ἀρχαῖον ὀτρύνων λόγον (segue l’episodio della nascita dell’eroe); Isthm. 8,16sqq.: χρὴ δ᾿ ἐν ἐπταπύλοισι Θήβαις τραφέντα/Αἰγίνᾳ ἄωτον προνέμειν,/πατρὸς οὕνεκα δίδυμαι γένοντο θύγατρες Ἀσωπίδων {θ᾿}/ὁπλόταται, Ζηνί τε ἅδον βασιλέ . Un’analisi della presenza mitica tebana nella serie degli epinici per committenza eginetica è offerta da Fenno (1995).

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ὃς Ἡρακλεῖ στόμα μὴ περιβάλλει: proprio il tebano “figlio di Alcmena” riceve un trattamento particolare nei testi scritti da Pindaro per il pubblico tebano.

L’eroe è annoverato tra le glorie della città nella Priamel che apre Istmica 7, dove la sua nascita è ricordata con caratteri altrove inediti: Zeus giunge alla dimora di Anfitrione χρυσῷ νείφων, richiamando alla mente del lettore (e, prima, dell’ascoltatore) la sua unione con Danae28. In Istmica 1,12sqq. Tebe, onorata dal vincitore Erodoto, è

definita in qualità del suo essere patria del “giovane senza paura, che fece tremare le cagne temerarie di Gerione”. Difficilmente, come è stato sostenuto da M. Negri, il riferimento all’impresa dell’eroe contro il gigante doveva valere come specifica “proclamazione della sua tebanità”29. Più probabilmente, l’accenno a questa fatica in

particolare sarà da mettere in relazione con un motivo caro al poeta: egli si serve spesso dell’immagine del viaggio di Eracle agli estremi confini del mondo, sottolineandone il valore di ammonizione a non oltrepassare il limite imposto all’uomo30. Nel caso di

Istmica 1, evidentemente, questo aspetto dell’immagine non viene esplicitato, mentre in essa Pindaro sceglie di far prevalere l’idea del coraggio dell’eroe di fronte alla tracotanza delle belve (v. 12: ἀδείμαντον; v. 13: θρασεῖαι, φρῖξαν) a ulteriore onore suo, e dei Tebani suoi concittadini31.

Testi ancora più significativi per comprendere come il poeta rappresenti il campione della madrepatria presso il pubblico tebano sono però Istmica 4, Inno 1 e Ditirambo 2. In essi il trattamento del mito eracleo si attaglia al contesto locale, lasciando al tempo stesso intravedere la portata del taglio originale con cui Pindaro spesso adatta le tradizioni mitiche ai propri canti.

28 Cfr. Willcock 62: “There is an oddity […]. For the story of the descent of Zeus in a shower of gold is always elsewere associated with the visit to Danae (cfr. Pyth. 12,17) and nowhere else with his visit to Amphitrioyon’s wife”.

29 Secondo Negri (1995) 191-200 l’Eracle recatosi a Erytheia sarebbe tradizionalmente tebano, in opposizione alla versione argiva della sua nascita. In realtà, in Pindaro Eracle è sempre considerato tebano, in occasione di qualunque impresa. La studiosa porta inoltre a sostegno della sua tesi un passo dellaVita di Apollonio di Tiana (5,4), dove però è detto che l’Eracle giunto sull’isola di Gerione sarebbe stato quello “egiziano”.

30 Cfr. e.g.Ol. 3,42sqq.; Nem. 3,21sqq. Più problematico il riferimento a Gerione nei frr. 81 e 169a (cfr.

infra, pp. 26sq.), dove il poeta sembra prendere le parti del gigante in quanto vittima della violenza di Eracle. In proposito, ancora utile Gigante (1956) 56-102. Non concordo tuttavia con l’idea dello studioso che già in Isthm. 1 il trattamento dell’impresa lasci presupporre una “perplessità” in linea con gli altri due frr.: la brevità dell’accenno non giustifica un’interpretazione in questo senso.

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1.1 Istmica 4: Eracle μορφὰν βραχύς

La quarta ode istmica compone con la terza un interessante “dittico” tebano. Entrambe scritte per lo stesso vincitore (ma non per la stessa vittoria) e, straordinariamente, nel medesimo metro, le odi sono state di volta in volta o unite in un unico carme32 o tenute distinte, così come comparivano nell’edizione alessandrina33. La

prima ipotesi non sembra più sostenibile sulla base di osservazioni metriche34 e di

contenuto35. Da ultimo, Cole ha tentato di risolvere il problema della coincidenza del

metro ipotizzando che la più breve e recente36Istmica 3 sia stata composta da Pindaro

per essere sostituita alla prima strofe della quarta; la quale sarebbe tuttavia rimasta nella versione originale “in the family archives or the poet’s own papers”37. Una simile vicenda

testuale sembrà però improbabile38, né è attestata o ipotizzabile per altri casi nella

tradizione testuale. In aggiunta, si tenga conto che il testo risultante dalla proposta di Cole presenta indubbi problemi di coerenza39.

Rispetto a questo status quaestionis risulta dunque la scelta migliore considerare autonomi i due testi. Essi sembrano di fatto caratterizzati da una precisa volontà di costruzione speculare: in entrambi compaiono motivi simili40, come se il poeta mirasse a

richiamare alla memoria del pubblico la prima performance in occasione della seconda,

32 Nelle edizioni di Boeckh, Turyn, Snell-Maehler, Thummer.

33 In Bowra, Köhnken (1971), Privitera, Willcock. Per la disposizione dei carmi nell’edizione alessandrina, confermata da P. Oxy. XXVI 2451, vd. anche Privitera (1982) 255-6.

34 Fondamentale in proposito il contributo di Barrett (1956) 248-9. 35 Una analisi puntuale in Willcock 70-1.

36 In quanto celebra una vittoria nemea ottenuta dal laudando in seguito a quella istmica. 37 Cole (2003) 248.

38 Lo studioso parla di una “performance-oriented art, to which the notion of a definitive text is foreign”; ma proprio perché l’esecuzione del carme doveva essere determinante, non si spiegherebbe un’eventuale volontà di conservare il testo nella versione non eseguita, da parte della famiglia o del poeta.

39 Se a Isthm. 3,18b (ἄτρωτοί γε μὰν παῖδες θεῶν) è fatto seguire immediatamente Isthm. 4,19 (δαιμόνων βουλαῖς. ὁ κινητὴρ δὲ γᾶς Ὀγχηστὸν οἰκέ ων), all’idea che i “figli degli dei” siano invulnerabili per volere degli dei stessi segue, senza soluzione di continuità e in modo poco coerente, la celebrazione di Posidone, che ha concesso al vincitore l’“inno mirabile”. Non si può certo escludere un forte valore avversativo di δέ, ma nel complesso il testo risultante è sicuramente più problematico di quello di partenza (si noti l’altrettanto sorprendente successione θεῶν-δαιμόνων). La vittoria nemea, inoltre, sarebbe celebrata nella prima strofe (= Istmica 3), mentre a partire dalla seconda il solo successo ricordato sarebbe quello istmico: non si può negare anche per questa proposta l’effetto di “awkward hybrid text” che Cole rimprovera agli “unitari”.

40 Si tratta di motivi tradizionali della produzione epinicia (la gloria della famiglia all’interno della città; il suo impegno nelle gare equestri; l’inevitabile commistione di successo e fallimento, dolore e felicità): essi sono però proposti nella medesima successione.

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più ridotta41. Con una simile funzione si può spiegare plausibilmente anche l’adozione -

pur straordinaria - dello stesso schema metrico42.

Il laudando, Melisso, apparteneva ad una famiglia molto in vista a Tebe: onorati cittadini ed ospiti benevoli43, i Cleonimidi avevano subito gravi lutti44; né, nonostante la

loro dedizione agonistica, erano riusciti ad ottenere un trionfo negli giochi panellenici cui avevano partecipato in precedenza. In realtà, a v. 29 viene detto che essi Πανελλάνεσσι δ᾿ ἐριζόμενοι δαπάνᾳ χαῖρον ἵππων: Privitera (probante Willcock) sostiene che qui Pindaro si riferisca proprio alla vittoria istmica conseguita da Melisso, la quale quindi sarebbe stata ottenuta ἄρματι45. Tuttavia, vale la pena notare come le parole scelte da

Pindaro non autorizzino a leggere in χαῖρον l’allusione ad una vittoria: se è vero che a Isthm. 6,10sq. (δαπάνᾳ τε χαρεὶς καὶ πόνῳ) l’espressione è strettamente legata all’annuncio del successo, il verbo χαίρω non è impiegato altrove in Pindaro con l’accezione specifica della gioia del vincitore46. In aggiunta, si consideri che l’imperfetto di

Istmica 4 sarebbe poco adatto a descrivere, dal punto di vista aspettuale, il momento del trionfo ora celebrato47. Il verso indica al contrario, come è stato recentemente ribadito da

H. Boeke48, che i Cleonimidi dovettero accontentarsi di partecipare alle gare

panelleniche, almeno prima dell’avvento di Melisso. Quest’ultimo viene però, per il momento, lasciato da parte: nei versi successivi, l’attenzione resta sulla famiglia del vincitore, nel tempo precedente la sua vittoria.

41 Privitera 42 parla, credo a ragione, di “eco precisa”. Cfr. anche Isthm. 3,15sq.: ἴστε μὰν Κλεωνύμου/ δόξαν παλαιὰν ἅρμασι.

42 Vd. Willcock 70: “perhaps a metrical repetition could be a reminder or echo of the earlier celebration”. È forse possibile individuare un altro caso di carmi con identica struttura metrica: si tratta di Pae. 6, tr. 1-2 e 3, di cui quest’ultima avrebbe, secondo quanto è scritto in uno scolio marginale, costituito un canto (prosodiaco) distinto. La corrispondenza metrica si spiegherebbe qui però con l’esecuzione in occasione della stessa celebrazione apollinea, vd. Rutherford 329-38.

43 Un altro motivo ricorrente della poesia epinicia pindarica: in alcuni casi, la gloria dell’individuo e della sua famiglia è definita in relazione non solo alla loro posizione d’onore all’interno della patria, ma anche ai loro rapporti con “l’esterno”, gli abitanti di città vicine e gli ospiti. Cfr. e.g. Ol. 7,89sq.; Ol. 13,2sq.; Isthm.

1,51; Isthm. 6,69sq.

44 Vd. Isthm. 4,16sqq.: quattro esponenti della famiglia erano caduti sul campo di battaglia “in un solo giorno” (vd. infra, pp. 38sq.).

45 Privitera 177. Oltre che sul presente passaggio, Privitera fonda questa interpretazione su Isthm. 3,9sq. (ἔστι δὲ καὶ διδύμων ἀ έθλων Μελίσσῳ μοῖρα): le vittorie sarebbero “gemelle” in quanto ottenute nella stessa specialità (169). Anche questo argomento è accettato da Willcock. In realtà, esso non mi sembra cogente: l’aggettivo è usato anche nel semplice significato di “duplice” (vd. LSJ s.v.); inoltre, è anche possibile che Pindaro definisca “gemelle” le vittorie in quanto entrambe panelleniche.

46 Cfr. Slater (1969a) s.v.

47 Cfr. il catalogo delle vittorie minori dei Cleonimidi, poco precedente (vv. 26sq.: ὤπασεν/τοιάδε τῶν τότ᾿ ἐόντων φύλλ᾿ ἀοιδᾶν); e quello delle vittorie minori dello stesso Melisso (vv. 70sq.: ὅδ᾿ ἀνὴρ διπλόαν/νίκαν ἀνεφάνατο).

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Significativamente, Pindaro dedica un’ampia parte dell’ode alla presentazione dei Cleonimidi quali partecipanti sconfitti, introducendo un exemplum mitico di grande rilevanza per l’interpretazione della figura di Eracle – che comparirà, come quella di Melisso, in un secondo momento.

τῶν ἀπειράτων γὰρ ἄγνωτοι σιωπαί. ἔστιν δ’ ἀφάνεια τύχας καὶ μαρναμένων, πρὶν τέλος ἄκρον ἱκέσθαι· τῶν τε γὰρ καὶ τῶν διδοῖ {τέλος}· καὶ κρέσσον’ ἀνδρῶν χειρόνων ἔσφαλε τέχνα καταμάρψαισ’· ἴστε μάν Αἴαντος ἀλκάν, φοίνιον τὰν ὀψίᾳ ἐν νυκτὶ ταμὼν περὶ ᾧ φασγάνῳ μομφὰν ἔχει παίδεσσιν Ἑλλάνων ὅσοι Τροίανδ’ ἔβαν. ἀλλ’ Ὅμηρός τοι τετίμακεν δι’ ἀνθρώπων, ὃς αὐτοῦ πᾶσαν ὀρθώσαις ἀρετὰν κατὰ ῥάβδον ἔφρασεν θεσπεσίων ἐπέων λοιποῖς ἀθύρειν. τοῦτο γὰρ ἀθάνατον φωνᾶεν ἕρπει, εἴ τις εὖ εἴπῃ τι· καὶ πάγ- καρπον ἐπὶ χθόνα καὶ διὰ πόντον βέβακεν ἐργμάτων ἀκτὶς καλῶν ἄσβεστος αἰεί49.

Come Aiace, i Cleonimidi avevano sfiorato il successo perché, altrettanto valenti, non si erano sottratti alle prove, né atletiche né belliche; come l’eroe egineta, essi avevano però rischiato di essere sopraffatti dall’oscurità di una fine priva di gloria (ἀφάνεια τύχας - ὀψίᾳ ἐν νύκτι). Il paragone con Aiace è favorito dalla sorte dei caduti della famiglia: a loro come all’eroe si attaglia il participio μαρναμένων, che permette al poeta di passare, attraverso la gnome, al suicidio dell’eroe senza escludere l’elemento agonistico50. A

differenza di Nem. 7,20sqq., dove essa era associata alla fama “ingiustificata” di Odisseo51, la figura di Omero compare qui con una funzione positiva e fondamentale per

l’ulteriore sviluppo del canto: senza la sua poesia, Aiace non avrebbe avuto alcun riscatto “tra gli uomini”; grazie ad essa, anche l’ἀκτὶς delle sue imprese splende eterno. In modo

49Isthm. 4,30sqq.

50 Con analoga funzione il verbo è impiegato a Isthm. 5,54 (μαρνάσθω τις ἔρδων ἀμφ' ἀέθλοισιν γενεὰν Κλεονίκου ἐκμαθών): qui esso indica il “gareggiare” alludendo però, contemporaneamente, a chi combattè presso Salamina.

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analogo la poesia di Pindaro si pone nei confronti dei Cleonimidi: componendo lo “splendido inno” concesso da Posidone anche il poeta, come il dio, ἀνάγει φάμαν παλαιάν52 in virtù del successo di Melisso.

Quest’ultimo viene presentato come vittorioso nel pancrazio53, per il quale

possiede tutte le capacità necessarie a prevalere sull’avversario:

τόλμᾳ γὰρ εἰκώς

θυμὸν ἐριβρεμετᾶν θηρῶν λεόντων ἐν πόνῳ, μῆτιν δ’ ἀλώπηξ,

αἰετοῦ ἅ τ’ ἀναπιτναμένα ῥόμβον ἴσχει·

χρὴ δὲ πᾶν ἔρδοντ’ ἀμαυρῶσαι τὸν ἐχθρόν54.

Anche se il rimando non è esplicitο, l’astuzia della volpe “che arresta, pur riversa, l’assalto vorticoso dell’aquila” corrisponde, come ha acutamente osservato Köhnken, alla τέχνα κειρόνων cui nei versi precedenti è stato ascritto il fallimento dei Cleonimidi così come di Aiace55: volutamente il poeta l’ha definita in termini “neutri”, se confrontata con

lo ψεῦδος cui altrove è imputata la morte dell’eroe56. Rispetto alle imprese degli altri

famigliari, quindi, il successo di Melisso rappresenta una “Steigerung” in cui il mito tebano di Eracle, paragonato al vincitore nei versi successivi, viene ad assumere un’importanza particolare57.

In modo apparentemente poco encomiastico, il giovane pancraziaste è descritto come ὀνοτὸς μὲν ἰδέσθαι, συμπεσεῖν δ᾿ αἰχμᾳ βαρύς58. Occupandosi dell’ode nelle sue

implicazioni mitico-cultuali, E. Krummen ha giustificato la descrizione di Melisso sulla base del fatto che “im Pankration zählen ʽKleinheit’, ʽWendigkeit’” e ipotizzando

52Isthm. 4,19sqq.

53Isthm. 4,44: παγκρατίου στεφάνωμ᾿ ἐπάξιον. Anche questa formulazione dell’annuncio della vittoria contribuisce a far ritenere il successo istmico come conseguito nel pancrazio, contro l’ipotesi di Privitera (vd. supra, p. 9).

54Isthm. 4,45sqq.

55 Köhnken (1971) 115: “Die vorsichtige Erwähnung der ʽKunst schwächerer Männer, die den starken Aias zu Fall brachten’, bereitet die Würdigung der Kampftechnik des Melissos vor”. Sempre secondo lo studioso, Aiace sarebbe alluso proprio nell’immagine dell’aquila, sulla base di un gioco di parole (Ἄιας-αἰετός) altrove impiegato da Pindaro (Isthm. 6,49sqq.).

56 Cfr. Nem. 8,25: μέγιστον δ᾿ αἰόλῳ ψεύδει γέρας αντέταται.

57 Per la compresenza delle figure di Aiace ed Eracle si confronti il loro impiego in Isthm. 6,37sqq.: nell’ode eginetica, Aiace occupa il posto dell’eroe locale, mentre il campione tebano alla mensa di Telamone costituisce la proiezione mitica di Pindaro (vd. Pfeijffer (1999) 204). Come si è visto per altre odi, anche qui il mito è impiegato in relazione al rapporto ospitale tra committente e poeta.

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addirittura che il laudando dovette essere un “nano”59. Va però detto che ὀνοτός non

significa “basso”60: connesso con il verbo ὄνομαι, l’aggettivo ha piuttosto il senso di

“vile”, “spregevole”. Tiene a ragione conto di questo fatto Boeke, che vede nella scelta anomala di esplicitare l’inadeguatezza fisica di Melisso61 l’affermazione del “real

redemptive power” del suo canto da parte del poeta62. Questo “potere”, tuttavia, si

manifesta proprio nel trattamento che Pindaro riserva alla figura di Eracle. καί τοί ποτ’ Ἀνταίου δόμους Θηβᾶν ἄπο Καδμε ᾶν μορφὰν βραχύς, ψυχὰν δ’ ἄκαμπτος, προσπαλαίσων ἦλθ’ ἀνήρ τὰν πυροφόρον Λιβύαν, κρανίοις ὄφρα ξένων ναὸν Ποσειδάωνος ἐρέφοντα σχέθοι, υἱὸς Ἀλκμήνας63.

La lotta di Eracle contro Anteo doveva essere celebre tra le imprese dell’eroe a Tebe, se ancora Pausania riferisce della sua presenza sul frontone dell’Herakleion, dove questa fatica sostituiva altre due “canoniche”64. In proposito, Krummen e Olivieri hanno

avanzato ipotesi sulle possibili relazioni tra l’opera d’arte e l’ode pindarica65. Quello che

va precisato, però, è che mai Eracle è altrove definito μορφὰν βραχύς.

In un passo delle Imagines, in particolare, Filostrato descrive la scena della lotta tra l’eroe e l’avversario libico fornendo dettagli precisi sulla loro conformazione corporea: mentre Anteo è fisicamente sproporzionato, ὀλίγον ἀποδέων ἴσος εἶναι τῷ μήκει καὶ

59 Krummen (1990) 91.

60 Così il termine è tradotto in Privitera.

61 La prestanza dell’atleta era sottolineata soprattutto per specialità come quella del nostro vincitore: cfr.

e.g. Ol. 8,19; 9,24; Nem. 3,19. 62 Boeke (2007) 123.

63Isthm. 4,70sqq.

64 Paus. 9,11,6: Θηβαίοις δὲ τὰ ἐν τοῖς ἀετοῖς Πραξιτέλης ἐποίησε τὰ πολλὰ τῶν δώδεκα καλουμένων ἄθλων· καί σφισι τὰ ἐς τὰς ὄρνιθας ἐνδεῖ τὰς ἐπὶ Στυμφάλῳ καὶ ὡς ἐκάθηρεν Ἡρακλῆς τὴν Ἠλείαν χώραν, ἀντὶ τούτων δὲ ἡ πρὸς Ἀνταῖον πάλη πεποίηται. Risale a tempi recenti (2005) la scoperta, da parte di V.L. Aravantinos, di un tempio dedicato ad Eracle a Tebe: cfr. Aravantinos (in corso di stampa).

65 Per Krummen (1990) 38 non è impossibile che i frontoni, pur attribuiti da Pausania allo scultore Prassitele (IV sec.), fossero di epoca precedente e compatibile con quella del poeta: essi avrebbero perciò costituito “zur Erzählung Pindars […] eine demonstratio ad oculos”. Per Olivieri (2011) 98, al contrario, “è possibile pensare che sulla scelta dello scultore di IV secolo […] abbia potuto influire la notorietà che l’impresa aveva acquistato a Tebe anche grazie alla celebrazione che ne aveva fatto Pindaro”. Nessuna delle due ipotesi è, credo, dimostrabile con un certo grado di sicurezza in assenza dei materiali artistici: possiamo solo limitarci a rilevare, nella testimonianza pausanea, la corrispondenza tra poesia e scultura, indizio della diffusione dell’episodio mitico in Tebe.

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τὸ εὖρος, Eracle εἴη δ᾿ ἄν καὶ πελώριος καὶ το εἶδος ἐν ὑπερβολῇ ἀνθρόπου66.

Prendendo in considerazione questa testimonianza, Farnell ha ipotizzato che Pindaro ricorresse qui non alla figura tradizionale dell’eroe, ma ad una sua versione “sincretica”, connessa con i Δάκτυλοι Ἰδαῖοι, maghi-demoni di bassa statura67. Tra di essi, infatti, era

annoverato un “Eracle”, cui Pausania fa corrispondere l’Eracle venerato a Micalesso e a Tespie68. Su questa linea anche l’interpretazione di B. Hemberg, per il quale l’eroe di

Istmica 4 avrebbe potuto essere associato ai Cabiri, altri demoni-nani cui egli era talvolta legato, forse anche a Tebe69. Più recentemente, la Krummen si è spinta oltre, proponendo

una possibile influenza della divinità egizia Bes, rappresentata nell’iconografia in forma nana e con attributi simili a quelli di Eracle70.

Non è da escludere che qui, come accade altrove, Pindaro abbia attinto a tradizioni mitico-cultuali collaterali e meno note: una tale ipotesi, tuttavia, non sembra necessaria. Già gli scolii fornivano una spiegazione illuminante del nostro passo:

τοῦτο γοῦν φησι· καὶ Ἡρακλῆς μικρὸς ὢν πρὸς σύγκρισιν τοῦ Ἀνταίου ἦλθεν ἐπ’ αὐτόν, ἀλλ’ ὅμως οὐκ ἐνικήθη. βραχὺν δὲ εἶπεν αὐτὸν οὐ μάτην, ἀλλ’ ἐπεί τινες σύμμετρον αὐτὸν εἶναί φασι τῷ σώματι. Ἡρόδωρος γοῦν ἐν Οἰδίποδί (FGrH 31 F 19) φησι τῶν ἄλλων αὐτὸν περιττεύειν, ὥστε τὸ ὅλον σῶμα πηχῶν εἶναι τεσσάρων καὶ ποδός71.

Secondo lo scoliaste, la bassezza dell’eroe sarebbe da imputarsi al confronto con la statura gigantesca di Anteo. Finora, la spiegazione antica è stata accolta solo da Wilamowitz72, mentre Privitera, seguito da Willcock, ha escluso che il poeta potesse avere

in mente un paragone con Anteo, ipotizzando che Eracle sia descritto “assolutamente”

66 Philostr. Imag. 2,21. 67 Farnell (1932) 354.

68 Paus. 9,27,8: ἀλλὰ γὰρ ἐφαίνετό μοι τὸ ἱερὸν τοῦτο [scil. il santuario di Eracle a Tespie] ἀρχαιότερον ἢ κατὰ Ἡρακλέα εἶναι τὸν Ἀμφιτρύωνος, καὶ Ἡρακλέους τοῦ καλουμένου τῶν Ἰδαίων Δακτύλων, οὗ δὴ καὶ Ἐρυθραίους τοὺς ἐν Ἰωνίᾳ καὶ Τυρίους ἱερὰ ἔχοντας εὕρισκον. οὐμὴν οὐδὲ οἱ Βοιωτοὶ τοῦ Ἡρακλέους ἠγνόουν τοῦτο τὸ ὄνομα, ὅπου γε αὐτοὶ τῆς Μυκαλησσίας Δήμητρος Ἡρακλεῖ τῷ Ἰδαίῳ τὸ ἱερὸν ἐπιτετράφθαι λέγουσιν. Per il sincretismo tra l’Eracle tradizionale e il Dattilo vd. anche Brelich (1958) 234-7.

69 Hemberg (1950) 290-2; cfr. Paus. 9,25,4. 70 Krummen (1991) 95-4.

71 Schol. Isthm. 4,87a (III 235,14 Dr.). Erodoro di Eraclea Pontica compose una Storia di Eracle in 17 libri, di cui restano scarsi frammenti. Il testo dello scolio, come si trova nella paradosi e viene stampato da Drachmann, è stato corretto dallo Jacoby, che accetta la proposta di C. Müller (ἐνὶ πόδι per il tradito ἐν Οἰδίποδι) inserendo il fr. tra quelli appartenuti alla Storia di Eracle.

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come μορφὰν βραχύς, in modo analogo ad altri eroi dell’epica73. Gli esempi citati dai

due studiosi, tuttavia, non sembrano commensurabili con il caso dell’eroe tebano, che è sempre definito o raffigurato come di grandi dimensioni. La spiegazione fornita dagli scolii, inoltre, trova sostegno in un precedente verso dell’ode, in cui Pindaro rifiuta per Melisso il paragone con Orione, un altro gigante74. Mi sembra evidente perciò la volontà,

da parte del poeta, di istituire un duplice raffronto: da una parte i giganti Orione e Anteo, dall’altra Melisso ed Eracle, entrambi lottatori. Scegliendo l’episodio libico tra tutte le imprese del campione, Pindaro può “permettersi” di non tacere l’inadeguatezza fisica del laudando, e di farne anzi un motivo di vanto: un vanto tutto tebano.

In questo, si badi, la formulazione pindarica resta sorprendente75: lo stesso poeta

se ne mostra consapevole, impiegando l’ordo verborum per “giocare” sul motivo del μορφὰν βραχύς. Egli introduce dapprima la figura di Anteo, contro cui, dice, “da Tebe Cadmea venne un uomo basso d’aspetto, ma d’animo inflessibile”: non è impensabile, credo, che il pubblico restasse sorpreso a queste parole. Essi sapevano certo quale tebano avesse affrontato Anteo; ma l’Eracle a loro noto non doveva somigliare all’“uomo” cui Pindaro paragona Melisso. L’effetto è reso ancora più forte dal ritardo con cui la sua identità è esplicitata: υἱὸς Ἀλκμήνας compare solo alcuni versi dopo, con un forte enjambement tra una triade e l’altra76. Anche un confronto con le parole che introducono

l’exemplum di Aiace (v. 35: ἴστε μὰν) permette di notare la particolarità della presentazione di Eracle: là un mito ben noto, qui un eroe apparentemente diverso da quello tradizionale.

La lode di Eracle, che segue l’episodio della fatica, ne ricorda i successi innumerevoli, culminati nell’apoteosi: mentre ad Aiace è riservato onore δι᾿ ἀνθρώπων, Eracle, nonostante la premessa precisata dal poeta, ha potuto assurgere a onori divini77.

73 Vd. Privitera 183: “Pindaro ha dichiarato che Eracle era basso: non rispetto ad Anteo […] ma in assoluto. […] anche Odisseo era basso ma seppe vincere il Ciclope (Omero Od. IX 515)”. Cfr. Willcock 84: “heroes can be solidly built rather than tall, and Homer says tha Tideus was a small man (μικρὸς ἔην δέμας, Il. 5,801)”.

74 Vd. Isthm. 4,49: οὐ γὰρ φύσιν ᾿Ωαριωνείαν ἔλαχεν. Proprio in paragone con Orione Melisso è definito, come si è visto, ὀνοτός ἰδέσθαι. Per il carattere beotico del gigante vd. supra, p. 3.

75 Come dimostra anche la precisazione, da parte dello scolio, che altrove Eracle fosse σύμμετρος o addirittura τῶν ἄλλων περιττεύειν.

76 Per un simile enjambement (intrastrofico) cfr. Pyth. 11,22: qui, a differenza che nell’ode istmica, l’identità del soggetto (Κλυταιμήστρας) precede l’apposizione νηλὴς γύνα, che risulta in posizione rilevata.

77 Isthm. 4,55sqq.: ὃς Οὔλυμπόνδ’ ἔβα, γαίας τε πάσας/καὶ βαθύκρημνον πολιᾶς ἁλὸς ἐξευρὼν θέναρ,/ναυτιλίαισί τε πορθμὸν ἡμερώσαις./νῦν δὲ παρ’ Αἰγιόχῳ {Διῒ} κάλλιστον ὄλβον/ἀμφέπων ναίει, τετίματαί τε πρὸς ἀθανάτων φίλος, Ἥβαν τ’ ὀπυίει,/χρυσέων οἴκων ἄναξ καὶ γαμβρὸς

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Melisso ha imitato il predecessore cadmeo superando le precedenti glorie dei Cleonimidi, che grazie a lui ora οἴκοθεν στάλαισιν ἅπτονθ᾿ Ἡρακλείαις78: più oltre non è concesso

ad un uomo andare, neppure a Melisso.

1.2 L’Inno Primo: Eracle, i Meropi e Apollo Delio

Nell’edizione Snell-Maehler il carme che apriva la raccolta degli inni pindarici si compone di numerosi frammenti, pervenuti i più per via indiretta79, mentre due di essi ci

sono noti grazie ad un ritrovamento papiraceo80. Il carme godette di grande fortuna

nell’antichità, verosimilmente anche in virtù della sua collocazione incipitaria81. La

committenza tebana dell’ode è assicurata dalla Priamel con cui inizia il primo frammento82. Qui, in modo molto simile a Isthm. 7,1sqq., sono ricordate le maggiori

glorie mitico-religiose della città: l’unione di Melia con Apollo, da cui nacque Ismeno83;

Cadmo, gli Sparti, la stessa ninfa Tebe; Eracle e Dioniso; il matrimonio di Armonia. Proprio in occasione di queste nozze si sarebbe tenuto un canto delle Muse accompagnate da Apollo84, ricostruito sulla base dei frr. successivi: in esso, a quanto è

possibile intuire, doveva essere contenuta una Teogonia pindarica, volutamente messa in

Ἥρας. Alla descrizione degli onori tributati all’eroe presso gli Olimpi, il poeta fa seguire quella dei riti degli

Herakleia in onore suo e degli otto figli “defunti armati di bronzo” (vv. 61sqq.). Anche qui è evidente il parallelismo con i caduti in guerra della famiglia: per la scelta del mito dei figli dell’eroe morti “guerrieri”, in alternativa a quello dei bambini uccisi dal padre in un accesso di follia, vd. Privitera 185; cfr. Krummen 62 per l’ipotesi che questa versione costituisse una variante locale. Più controversa l’interpretazione del significato del rito in funzione dell’ode: per Krummen (1990) Istmica 4 fu cantata in occasione della festa religiosa, in cui, insieme ai figli di Eracle, sarebbero stati onorati anche i Cleonimidi morti in battaglia. Come ha osservato D’Alessio (1994) 123 n. 19 tuttavia, la scena sembra più “a general description of the rite”: il poeta ricorda gli Herakleia perché Melisso ha vinto anche ai giochi tenutisi in quell’occasione (vv. 69sqq.).

78Isthm. 4,12: come si vede, l’ode è costruita in forma di Ringkomposition, attorno alla figura dell’eroe tebano. Le colonne d’Eracle segnano il limite oltre cui neppure il laudando, nonostante i suoi successi, può spingersi anche a Nem. 3,19sqq.

79 Frr. 29, 32, *30, *33, *33b, 33c, *33d,1-10, **34, **35, *31, *35a, *35b, *35c. 80P.Oxy. XXVI 2442 fr.1 col. i, 1-5 = fr. 33a; fr. 1 col. ii, 1-5 = fr. *33d,7-11.

81 Cfr. D’Alessio (2005a) 114: “il testo che Pindaro compose […] era destinato a circolare, e a trasmettere la fama della città di Tebe, dei suoi dei, del suo poeta, viaggiando come scritto, destinato alla lettura, e ad eventuali diverse esecuzioni. […] la prima ode della raccolta acquista dalla sua posizione un valore aggiunto, nello stesso modo in cui la storia dell’ode e della sua fortuna può averne determinato la sua collocazione incipitaria”.

82 Sappiamo che dovette trattarsi dell’incipit del carme da Schol. [Luc.] Encom. Demosth. 19 p. 225,27 R. 83 Per Ismeno, Melia e la centralità del culto di Apollo a Tebe vd. infra, pp. 64sqq.

84 Per il canto delle Muse alle nozze di Cadmo cfr. Pyth. 3,88sqq.: λέγονται {γε} μὰν βροτῶν/ὄλβον ὑπέρτατον οἳ σχεῖν, οἵτε καὶ χρυσαμπύκων/μελπομενᾶν ἐν ὄρει Μοισᾶν καὶ ἐν ἑπταπύλοις/ἄ ον Θήβαις, ὁπόθ’ Ἁρμονίαν γᾶμεν βοῶπιν. Al tempo di Pausania sulla Cadmea era ancora indicato il punto in cui le Muse avrebbero cantato, vd. Paus. 9,12,3.

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rapporto con quella esiodea da parte del poeta85. La centralità della figura di Zeus, di cui

dovevano essere ricordate le unioni con altre entità divine86, culminanti nella nascita delle

Muse stesse87, ha portato Snell, sulla linea di una proposta di Wilamowitz88, a formulare

l’ipotesi che il testo dovesse costituire un inno tebano alla divinità, nella forma, appunto, di un canto nel canto89.

In realtà, il contenuto complessivo dei frr. ascivibili all’inno non sembrerebbe confermare l’“affascinante costruzione editoriale” di Snell. Come ha recentemente sottolineato D’Alessio90, la scoperta di P. Oxy. 2442 ha permesso di aggiungere al carme

un frammento (33a) non immediatamente congruente con la ricostruzione proposta in precedenza: in esso compare la figura di Eracle.

- ⏑ - σκᾶπ]τον χερί· τὰν δ᾿ ἱεράν – - ⏑ – –] Κῶν, ἐπὶ δὲ στρατὸν ἄ σ- σ–⏑–⏓–⏑]ο ς οὔτε θαλασ- σ––⏑⏑– ἀνέ]μοισιν – – ⏑ –]ε .[- ⏑ ⏑]τ η ρ 91

Sin dall’editio princeps, Lobel92 ha visto nel frammento i resti di un episodio di cui l’eroe

era protagonista e che da altre fonti sappiamo fosse narrato da Pindaro negli inni: si tratta dell’assalto ai Meropi dell’isola di Kos. Il passo pindarico doveva essere celebre per

85 Cfr. D’Alessio (2005b) 228: “Pindar’s Theogony evokes the Hesiodic one in rewriting it”.

86 Vd. fr. *30: πρῶτον μὲν εὔβουλον Θέμιν οὐρανίαν/χρυσέαισιν ἵπποις Ὠκεανοῦ παρὰ παγᾶν/Μοῖραι ποτὶ κλίμακα σεμνὰν ἆγον Οὐλύμπου λιπαρὰν καθ’ ὁδόν/σωτῆρος ἀρχαίαν ἄλοχον Διὸς ἔμμεν·ἁ δὲ τὰς χρυσάμπυκας ἀγλαοκάρπους τίκτεν ἀλαθέας Ὥρας. Proprio narrando per prima l’unione con Themis, Pindaro sembra qui proporre una propria versione del racconto teogonico, differente dalla esiodea, dove la prima consorte del dio era Metis (cfr. Hes. Theog. 886: Ζεὺς δὲ θεῶν βασιλεὺς πρώτην ἄλοχον θέτο Μῆτιν).

87 Vd. fr. *31: ἐν Διὸς γάμῳ καὶ τοὺς θεοὺς αὐτούς φησιν ἐρομένου τοῦ Διὸς εἴ του δέοιντο αἰτῆσαι ποιήσασθαί τινας αὑτῷ θεοὺς, οἵτινες τὰ μεγάλα ταῦτ’ ἔργα καὶ πᾶσάν γε δὴ τὴν ἐκείνου κατασκευὴν {κατα} κοσμήσουσι λόγοις καὶ μουσικῇ.

88 Wilamowitz (1916) 468sq. n. 2: “in Pindars ersten Hymnus, den großen Zeushymnus”; cfr. Wilamowitz (1922) 192.

89 Snell (1946), più volte ristampato (vd. Snell (19754) 81-94). 90 Vd. D’Alessio (2005a) 116.

91 Il testo fornito qui non segue l’edizione Snell-Maehler, ma il testo proposto da D’Alessio (2005a) 131, che si avvale di un nuovo esame autoptico del papiro.

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la sua espressività se Quintiliano lo sceglie come esemplificazione di un’hyperboles crescens:

exquisitam vero figuram huius rei deprehendisse apud principem Lyricorum Pindarum videor in libro, quem inscripsit ὕμνους. is namque Herculis impetum adversus Meropas, qui in insula Coo dicuntur habitasse, non igni nec ventis nec mari, sed fulmini dicit similem fuisse, ut illa minora, hoc par esset93.

Che in un passaggio di un inno Pindaro dovesse raccontare più diffusamente la vicenda, lo conferma la testimonianza di Strabone:

ὥς φησιν ἐν τοῖς ὕμνοις Πίνδαρος, οἱ μεθ᾽ Ἡρακλέους ἐκ Τροίας πλέοντες διὰ παρθένιον Ἕλλας πορθμόν, ἐπεὶ τῷ Μυρτῴῳ συνῆψαν, εἰς Κῶν ἐπαλινδρόμησαν ζεφύρου ἀντιπνεύσαντος94.

Per quanto molto lacunoso, il testo del frammento ha potuto essere ricondotto innanzitutto alla figura dell’eroe tebano grazie alla presenza di uno scolio marginale in cui un termine, scomparso nel testo del frammento, è glossato con τὸ ῥόπαλον95. La

clava, infatti, era arma tradizionale dell’eroe, nell’iconografia96 come in poesia: lo stesso

Pindaro la pone altrove tra le mani di Eracle97. Una volta identificato il protagonista, la

probabile menzione dell’isola di Cos, dell’assalto ad un esercito e la serie di negazioni in cui compare il mare (e forse anche i venti) hanno fatto ritenere con buon grado di certezza che il frammento conservi traccia dell’episodio ricordato da Quintiliano.

La seconda colonna di P. Oxy. 2442, fr. 1 conserva invece i vv. 7-11 di un frammento che era già noto nella sua parte più cospicua (vv. 1-10) dalla tradizione indiretta (*33d): qui è narrata la trasformazione di Asteria-Ortigia98 nella “splendente”

93 Quint. Inst. 8,6,71.

94 Strab. 7 fr. 57 p. 380 Jones (= fr. 22 p. 380 Radt).

95 Sulla base di questo scolio, D’Alessio ha supplito a fr. 31a,1 σκᾶπ]τον: la proposta sembra decisamente migliore di quella avanzata nell’edizione da Snell: egli suppliva κορύναν nel verso precedente, che doveva però essere nella colonna precedente, dal momento che il fr. costituisce evidentemente inizio di colonna; in questo modo dovremmo immaginare che l’annotatore abbia posto in cima alla nuova colonna una glossa che si riferisce ad un termine della colonna precedente. Per D’Alessio (2005a) 129 “si tratta di una pratica altamente improbabile”.

96 Vd. LIMC IV-2 nn. 15,17,19-21,26,28,34-5,39-40.

97 Cfr. Ol. 9,30: πῶς ἂν τριόδοντος Ἡρακλέης σκύταλον τίναξε χερσίν.

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Delo in occasione della nascita dei Latoidi99. A partire da Snell, questo frammento è stato

ricondotto all’Inno Primo per l’identità metrica con frr. 29 e 30, così come fr. 33c, che contribuisce alla sezione “delia” dell’inno con un’invocazione all’isola “prodigio immoto della terra”100.

Pur non apportando aggiunte significative al testo di *33d, dalla cui tradizione indiretta trae anzi ampio giovamento data la sua lacunosità, il frammento papiraceo permette tuttavia di dedurre un importante indizio per la ricostruzione della struttura dell’inno: l’episodio dell’assalto di Eracle ai Meropi doveva essere seguito ad una distanza relativamente breve dalla sezione delia del carme. Come ha mostrato D’Alessio101, infatti,

sebbene non si possa stabilire con certezza l’altezza delle colonne del papiro, è possibile però “estrapolare la differenza presente tra il numero di righe per colonna nel papiro e la ricorrenza delle strutture metriche dell’inno”. Al termine di un’analisi attenta che tiene conto di tutti i frr. del carme, lo studioso conclude che la lacuna tra 33a,6 e 33c102 dovette

essere di una ventina di cola (non più di una dozzina di versi); e che i frr. 33a e *33d andrebbero con buon grado di verosimiglianza collocati nelle antistrofi di due triadi successive. Nonostante questo fatto, di cui pure era almeno in parte consapevole103, Snell

non è tornato sull’ipotesi del canto delle Muse, accettando l’idea che anche i frr. relativi all’impresa di Eracle a Kos e a Delo dovessero esservi in qualche modo contenuti; la quale idea è rimasta sostanzialmente invalsa fino a tempi recenti104. In realtà, alcune

considerazioni portano ad escludere che questa sezione dell’inno potesse essere compresa nella narrazione teogonica.

99 Fr. *33d,1-10: ἦν γὰρ τὸ πάροιθε φορητὰ κυμάτεσσιν παντοδαπῶν ἀνέμων/ῥιπαῖσιν· ἀλλ’ ἁ Κοιογενὴς ὁπότ’ ὠδίνεσσι θυίοισ’ ἀγχιτόκοις ἐπέβα νιν, δὴ τότε τέσσαρες ὀρθαί/πρέμνων ἀπώρουσαν χθονίων,/ἂν ⸤δ’ ἐπικράνοις σχέθον/πέτραν ⸤ἀδαμαντοπέδιλοι/κίονες, ἔν⸤θα τεκοῖσ’ εὐδαί⸤μον’ ἐπόψατο γένναν. 100 Fr. 33c: χαῖρ’, ὦ θεοδμάτα, λιπαροπλοκάμου/παίδεσσι Λατοῦς ἱμεροέστατον ἔρνος,/πόντου θύγατερ, χθονὸς εὐρείας ἀκίνητον τέρας, ἅν τε βροτοί/Δᾶλον κικλῄσκοισιν, μάκαρες δ’ ἐν Ὀλύμπῳ τηλέφαντον κυανέας χθονὸς ἄστρον. 101 Vd. D’Alessio (2005a) 138-44.

102 Lo studioso crede, come Snell, che questo frammento precedesse l’altro della sezione delia (*33d), fondando l’ipotesi su considerazioni stilistiche relative all’apostrofe contenuta in 33c, che mi sembrano dirimenti: mentre il solo uso di χαῖρ(ε) non sarebbe indicativo di posizione incipitaria (per incipit si intende qui l’inizio della sezione relativa a Delo), esso lo è sempre, nelle attestazioni arcaiche e classiche, quando accompagnato, come nel frammento, da una predicazione dell’oggetto dell’apostrofe vd. D’Alessio (2005a) 135-7 e 145-7 (appendice completa dei passi paralleli).

103 Cfr. apparato dell’edizione: “cum e Π26 fr. 14 (= pae. 7b) appareat singulas columnas huius papyri continuisse versus ca. 39, inter fr. 33a,6 et fr. 33d,1 deesse versus ca. 28 conicias”.

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In fr. 33a,2 l’attacco dell’eroe sembrerebbe introdotto con una forma dell’imperfetto di ἀΐσσω (ἄ σ-): ne risulterebbe che la storia di Eracle contro i Meropi, posteriore di alcune generazioni alle nozze di Cadmo e Armonia, vi sarebbe stata narrata al passato! Per la verità, come precisa sempre D’Alessio, l’interpretazione della forma imperfetta resta incerta105. Anche così, però, l’impresa di Eracle, appunto di molto

successiva alle vicende teogoniche raccontate dalle Muse, mal si collocherebbe tra queste stesse vicende: “una struttura narrativa tanto macchinosa non si può escludere in teoria, ma resta ipotesi artificiosa e non necessaria”106. Recentemente Bernardini, tornando sulla

questione della ricostruzione di Snell, ha contestato il valore di queste osservazioni, sostenendo che la distanza temporale tra il canto alle nozze e l’episodio dei Meropi non costituirrebbe una difficoltà107. La studiosa parla infatti di una “divagazione narrativa

con un avverbio di luogo (ἔνθα) o con un avverbio di tempo (ὅτε)” da parte del poeta, che avrebbe ampliato un riferimento a Kos108 presente nel canto delle Muse. In questo

modo, però, si deve ammettere un complicato, e forse poco perspicuo passaggio dalla voce delle Muse a quella dell’io poetico, che si sarebbe “intromesso” nell’esecuzione nuziale. Né si riesce a comprendere in che modo potesse essere “rievocato […] come in un flashback” un avvenimento posteriore rispetto al tema del canto principale. Piuttosto, la rilevanza che l’episodio di Eracle a Kos dovette avere all’interno dell’inno109 lascia

credere che esso ne dovesse costituire, insieme a quello delio, una sezione autonoma e di rilievo.

Questa evidenza ha portato S. Mingarelli a ritenere che frr. 33a, 33c e *33d potessero appartenere ad un componimento del tutto diverso dall’Inno Primo: un Inno a Delo per una delle celebrazioni che si tenevano sull’isola. Il carme sarebbe stato commissionato da non meglio precisati “isolani […] del mondo ionico” legati all’isola sacra dalla loro appartenenza alla Lega Delio-attica110. Questa ipotesi, tuttavia, non è

105 D’Alessio (2007a) 105. Essendo conservate le altre parti in responsione con 33a,2-3 possiamo essere certi della loro sequenza metrica (- e – D – e x D); non essendo a conoscenza della loro articolazione in cola, tuttavia, non possiamo sapere se v. 2 dovesse terminare con due sillabe lunghe (- e – D –/e x D), o con una sola sillaba lunga (- e – D/ – e x D). Nel primo caso l’interpretazione ἄ σ- sarebbe corretta; nel secondo le lettere conservate potrebbero essere lette come ᾄσ-, una forma contratta del tema verbale ᾄσσ-.

106 D’Alessio (2007a) 106. 107 Bernardini (2009) 80-1.

108 Per la successione delle isole di Kos e Delo in relazione alle peregrinazioni di Letò partoriente vd. infra, pp. 20sq. Si noti che Bernardini commenta il passo non mettendo in dubbio, come fa invece D’Alessio, la presenza della forma imperfetta ἀΐσ-.

109 Basti pensare alla fama che il passo ha conservato, come si è visto, nelle fonti indirette. 110 Mingarelli (2003) 128-30.

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