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Contesto italiano

1.13. I criteri oggettivi di imputazione

I criteri oggettivi sono due e sono indicati dall’art. 5 del d.lgs. 231/2001. Il reato deve essere stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da un soggetto qualificato (apicale o subordinato)81.

I soggetti apicali di regola saranno coloro in grado di impegnare la volontà dell’ente mentre i soggetti subordinati operano alle dipendenze dei primi anche occasionalmente.

Il legislatore non ha individuato tassativamente le figure inquadrate nell’una e nell’altra categoria, ma ha preferito un approccio oggettivo- funzionale che non postula la necessaria esistenza di un rapporto di lavoro formale tra il soggetto e l’ente, ma ritiene sufficiente che l’individuo svolga una data funzione anche solo di fatto al momento in cui l’evento si verifica. In questo modo si può far fronte alle evoluzioni che caratterizzano la vita interna delle imprese, i ruoli sono dinamici e non vi è una distinzione netta tra le varie figure, anzi ne vengono create continuamente di nuove.

Tuttavia resta fondamentale la distinzione tra le due categorie: l’appartenenza di un soggetto ad una o all’altra categoria, oltre ad essere indispensabile per attribuire l’illecito all’ente, ha importanti risvolti sulla disciplina del quadro probatorio. Se da un punto di vista teorico le due categorie sono ben distinte, non può dirsi lo stesso sul piano pratico.

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Art. 5 del d.lgs.231/2001. Responsabilità dell’ente: “L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o

di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).

2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio

Non sempre è agevole stabilire se la posizione ricoperta dal soggetto sia apicale o subordinata. Può accadere che la persona fisica svolga concretamente più funzioni che, talvolta, indurrebbero a qualificarlo come dipendente ed altre volte a considerarlo un soggetto di vertice. La situazione si complica più è complessa la compagine aziendale: nei nuovi modelli aziendali questa distinzione così rigida è ormai superata82.

Per quanto riguarda l’espressione “nell’interesse o a vantaggio” dell’ente sono necessarie ulteriori spiegazioni.

La formula ha sostituito il generico termine “per conto” dell’ente che avrebbe potuto sfociare in un’imputazione obiettiva per il solo fatto che il reato fosse stato commesso da un soggetto “appartenente” all’ente, così come appunto avviene nella tradizione statunitense.

Il secondo comma stabilisce infatti che l’ente non risponde se la persona fisica ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, perché in questa ipotesi il rapporto organico si rompe e l’eventuale vantaggio che l’ente ne abbia ricavato sarebbe frutto di un caso fortuito, dato che la persona fisica non

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Si assiste ad un processo di deverticalizzazione per cui le decisioni non sono più prese dal singolo ma sono il risultato di un lavoro di squadra o il frutto di più processi decisionali che impediscono di individuare con certezza un solo individuo o gruppo responsabile dell’azione finale. Da considerare è anche il meccanismo di

settorializzazione che ha spostato verso il basso gli iter decisionali. Coloro che in

principio si occupavano di questioni di natura puramente tecnica, stante le competenze specifiche che certi settori richiedono, sono delegati anche a prendere le decisioni principali che riguardano tali attività, deresponsabilizzando i superiori che non hanno le competenze specifiche necessarie per compiere determinate valutazioni. Infine le nuove figure contrattuali inserite nella prassi delle imprese non aiutano. Per un’analisi dettagliata si veda DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito

punitivo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti, cit., a cura di LATTANZI, 67:

“i cosiddetti management contracts, che sembrerebbero superare il vecchio principio per cui delegatus non potest delegare, e dispongono l’attribuzione di poteri gestionali attinenti alla conduzione quotidiana di una società ad altra società, appartenente di solito al medesimo gruppo e specializzata, appunto, nella prestazione di servizi di

ha agito come organo interno ma come individuo, non impegnando così la volontà dell’ente83. Nessun dubbio sull’opportunità di questa scelta.

Ciò che invece ha sollevato varie questioni è il ruolo attribuito al vantaggio risultante dalla combinazione del primo e secondo comma dell’art.5. Concettualmente possiamo chiarire che i due termini sono distinti: l’interesse agisce sul piano soggettivo e deve essere presente “a monte”, nelle intenzioni dell’autore, richiede pertanto una valutazione “ex ante”; il vantaggio è al contrario un concetto concreto, valutabile solo “ex post”, dopo che si sia verificato materialmente il reato e che potrebbe prescindere dalle intenzioni del suo autore. Dal punto di vista giuridico, la formulazione della norma ha dato adito a varie interpretazioni che in modo diverso tentano di oggettivare il più possibile la nozione di interesse per aggirare il rischio di una probatio

diabolica sulle intenzioni prospettate nella mente del soggetto agente84.

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In senso conforme Cass., 02.10.2006 (ud. 23.06.2006), n.32627, G. Dir, 2006, 42, 61 s.

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Parte autorevole della dottrina ritiene che i due concetti debbano essere considerati come un’endiadi, nel senso che invece di rappresentare ipotesi disgiuntive sarebbero l’una il completamento dell’altra. Ciò comporterebbe la necessaria compresenza di entrambi i criteri, interesse e vantaggio, laddove un interesse sia a priori presente. In alternativa, la dottrina ipotizza una reductio ad unum del concetto di interesse o vantaggio, come se l’interesse non fosse altro che una valutazione soggettiva ex ante del potenziale vantaggio oggettivo che si realizzerà ex post.

Infine c’è chi si attiene al dato letterale e sostiene non solo che i due concetti siano distinti ma che debbano restare anche separati. A sostegno di questa conclusione giungerebbe il successivo art. 12 del d.lgs. 231/2001 che alla lettera a) prevede come caso di riduzione della pena pecuniaria l’ipotesi in cui la persona fisica abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi e che l’ente ne abbia ricavato un vantaggio minimo o nullo. I due termini, interesse e vantaggio, sono inequivocabilmente contemplati in maniera autonoma.

La giurisprudenza maggioritaria ha avallato la teoria che mantiene separati il concetto di interesse e vantaggio ma riserva al primo una lettura obiettiva.85

Coerentemente con la sua natura di criterio oggettivo, l’interesse va inteso come idoneità della condotta illecita a produrre un beneficio per l’ente. Deve trattarsi inoltre di un interesse concreto ed attuale al momento in cui è posto in essere il reato presupposto e non soltanto futuro ed ipotetico.

Ad ogni modo la previsione del secondo comma dell’art. 5 era stata imposta specificamente dalla legge delega, per cui il Legislatore delegato non ha potuto evitare la contraddizione che ne è derivata.

Il rapporto tra interesse e vantaggio non è l’unico problema sollevato dalla normativa, ulteriore e forse più spinoso punto riguarda la configurabilità

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Nel merito, il tribunale di Milano si è espresso nei seguenti termini: «l’espressione nell’interesse o a vantaggio dell’ente non costituisce un’endiadi rafforzativa, in quanto i due termini non sono sinonimi e la congiunzione o deve essere intesa in modo disgiuntivo, nel senso che, purché il reato sia stato compiuto nell’interesse dell’ente, non occorre anche che da esso l’ente ne abbia tratto vantaggio ». T. Milano 20.12.2004, DPSoc, 2005, 6, 69 e ss.; Anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata sul punto: « secondo la Relazione alla legge, l’interesse, quanto meno concorrente della società va valutato ex ante, mentre il vantaggio richiede una verifica ex post. Non sembra quindi da condividere la definizione dei endiadi attribuita da parte della dottrina alla locuzione: che diluirebbe, così, in più parole un concetto unitario. A prescindere dalla sottigliezza grammaticale che tale figura retorica richiederebbe la congiunzione copulativa “e” tra le parole interesse e vantaggio; e non la congiunzione disgiuntiva “o” presente invece nella norma, non può sfuggire he i due vocaboli esprimono concetti giuridicamente diversi: potendosi distinguere un interesse “a monte” della società ad una locupletazione prefigurata, pure se di fatto, eventualmente, non più realizzata, in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato “ex ante” dall’agente. Concorso reale, quindi, di presupposti, che pone un delicato problema di coordinamento, laddove disposizioni particolari della legge non ripetano entrambi i requisiti, ma facciano riferimento al solo interesse (e. g. art. 5, 2° co.) ». Cass., 30.01.2006 (ud.20.12.2005), n. 3615, GDir, 2006, 15, 59 s.; Le due posizioni sono poi brevemente sintetizzate da altra giurisprudenza di merito più recente: T. Milano, 26.02.2007, in www.rivista231.it.

di un reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente che abbia natura colposa86

. La domanda che si pone è: come è possibile che un reato colposo sia commesso nell’interesse dell’ente o a vantaggio dello stesso?

Evidente è che il soggetto non possa figurarsi alcun interesse per l’ente dalla commissione di un reato di questo tipo e tanto meno possa ricavarne successivamente un vantaggio, anzi la pubblicità negativa che ne seguirebbe avrebbe risvolti assolutamente non desiderati.

Onde evitare una interpretatio abrogans della norma e in attesa di un intervento conciliatore del Legislatore, l’unica possibilità di salvare l’applicabilità della norma senza contrastare il dettato della legge è quella di riferire l’interesse o il vantaggio realizzato non all’evento determinato dal reato bensì alla condotta che ha portato all’evento.

In altre parole, la motivazione soggettiva dell’agente andrebbe proiettata sulle finalità vantaggiose che il reato avrebbe potuto raggiungere nell’ambito dell’attività svolta se l’evento dannoso non si fosse verificato.

La valutazione sulla sussistenza dell’interesse o vantaggio dovrà collegarsi solo al momento della condotta e non anche all’evento che ne è seguito. La maggior parte delle volte i due concetti si concretizzeranno in un “risparmio di costi” o “risparmio di tempo” che rappresentano un beneficio nell’ambito dell’attività d’impresa, come tale idoneo ad integrare uno dei criteri obiettivi di imputazione87.

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In conformità all’attenzione che la legge delega aveva riservato ai reati colposi, l’elenco dei reati presupposto che possono dare vita alla responsabilità amministrativa dell’ente è stato infoltito con l’aggiunta dell’art. 25-septies che richiama l’omicidio e le lesioni colpose con violazione della norma antinfortunistica.

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PULITANÒ, La responsabilità da reato degli enti: i criteri di imputazione, cit. Confermato dalla giurisprudenza più recente, Sez. Un. Thyssen, cit.