Giungiamo, dunque, ad un incrocio, ove sul sentiero fra i campi troviamo un altro pensatore, ancor più di Heidegger interessato a questioni pedagogiche: Jean ‐ Jacques Rousseau141. Prima di addentrarci nel suo Emilio, un autentico manifesto sul come l’educazione possa meglio svolgersi in campagna142, scorriamo alcuni passaggi della “settima passeggiata” de Les Rêveries du promeneur solitaire del pensatore svizzero143.
139 Cfr. Id., Abitare la terra, in P. B
ERTOLINI, M. DALLARI (a cura di), Pedagogia al limite, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. 207‐225.
140
Cfr. E. FAURE, Apprendre à être, UNESCO, Paris 1972; J. DELORS, Nell’educazione un tesoro, Armando, Roma 1999, pp. 87‐89.
141 Per una approfondimento sugli aspetti più autobiografici del pensatore cfr. L. S
OZZI, Introduzione agli
Scritti autobiografici, Einaudi, Torino 1997; Id., J.‐J. Rousseau, F. Angeli, Milano 1985; P. CASINI, Introduzione
a Rousseau, Laterza, Roma‐Bari, 1981; A. PIZZORUSSO, Rousseau secondo Jean‐Jacques, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1979; J. STAROBINSKI, Rousseau e la fantasticheria, Rizzoli, Milano 1979; J.
GUÈHENNO, Introduzione alle Confessioni, Einaudi, Torino 1978; V. SOTTILE, Introduzione alle Confessioni, UTET, Torino 1956. Sempre valida la lettura di G. FLORES D’ARCAIS, Il problema pedagogico nell’Emilio di Gian
Giacomo Rousseau, La Scuola, Brescia 1972.
142
Vari ed egualmente carichi di piacevoli ricordi i più luoghi che racchiudono in Rousseau un insieme di emozioni tutte ricollegate alla “madre natura”, di cui la campagna è manifesta espressione. Tra questi l’Ermitage, nei pressi della foresta di Montmorency, che divenne il suo rifugio dopo una lunga parentesi nella capitale francese. In una lettera a Malesherbes del 1762, infatti, R. esaltava questo luogo in cui aveva vissuto, insieme alla governante e al cane, in armonia «con la natura intera e il suo impercettibile Autore». 143 Cfr. D. C
ABASSA, Il passeggiatore solitario, in «Diogene. Filosofare oggi», 16, 2009, pp. 74‐77. Nel 2012, in occasione del trecentesimo anniversario della nascita del Ginevrino, verranno pubblicate in due dozzine di volumi tutte le sue opere, compresi alcuni inediti; cfr. A. TORNO, Rousseau padre ambiguo di illuministi e
46
L’autore è immerso in un rapporto intimo con la natura, mai reciso, in lunghe passeggiate144 per le campagne fuori dalle civetterie delle città145. Cerca di placare i fantasmi del suo tormentato animo, ormai vegliardo, riuscendovi solo a tratti. La natura, con le sue erbe officinali, che sempre lo affascinarono, rimane per Rousseau il con‐testo migliore per ri‐trovarsi. Le sue passeggiate «sono, al tempo stesso, immersione nella natura e immersione nell’io, ma proprio perché la natura (qui fissata nel paesaggio campestre) è l’habitat primario dell’uomo, ora riattraversato con la dimensione di un io‐ privato‐alla‐ricerca‐di‐se‐stesso»146. Si tratta di un contatto che per lui non è solo intellettuale, bensì fisico: seduto per terra, “di erba in erba, di pianta in pianta”. Ma nulla, nemmeno tutto questo, può ridestare serenità se il soggetto non è in pace con la vita! Rousseau, infatti, scrive le sue “fantasticherie” in età avanzata, in quella “sera dei bilanci” che induce al pensiero e alla meditazione147, in un momento della sua vita in cui lo stesso appare come afflitto da un costante lamento, al limite del delirio. Le sue passeggiate, però, non raccontano solo di ciò. Esse rappresentano «anche e soprattutto percorsi interiori di ritrovamento e rinnovamento e di rinascita»148. C’è sì la solitudine (che per Heidegger, se autentica, è la condizione base a partire dalla quale “un uomo incontra veramente un altro”), che non è isolamento bensì ricerca di una delle condizioni della vita, in cui convergono desideri di riflessione e contemplazione, angoscia e silenzi, così come attese e speranze149, ma vi è pure il fascino della “maestra” Natura. «Gli alberi, gli
144
Cfr. A. MONTANDON, La passeggiata. Ritualità e divagazioni, Salerno Editrice, Roma 2006; G. IERANÒ,
Passeggiate ai piedi del pensiero, in «il Giornale», domenica 23/7/2006, p. 22.
145 Non è solo in tarda età che Rousseau individua nella passeggiata fuori città il luogo migliore per riflettere, ma anche per trasformare il camminare in un’occasione educativa. In una nota al libro II del suo
Emilio, Oscar Mondadori, Milano 1997, p. 170, il pedagogista svizzero racconta un aneddoto che si svolge
attorno ad una passeggiata campestre e precisa che «i luoghi di pubblico passeggio in città sono dannosi per fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. È lì che cominciano a diventare vanitosi e vogliosi di farsi ammirare». 146
F. CAMBI, Tre pedagogie di Rousseau. Per la riconquista dell’uomo di natura, Il Melangolo, Genova 2011, p. 68. 147 «La sera, – scrive Heidegger in Discorsi …, cit., p. 514 – tanto quella del giorno che quella della vita – la sera è il momento e l’ora della meditazione; Meditare significa raccogliersi nel pensare».
148 F. C
AMBI, Tre pedagogie …, cit., p. 69.
149
Cfr. E. BORGNA, La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011. In un’intervista allo stesso psichiatra realizzata da L. SICA, La solitudine come rifugio ai tempi del social network, in «la Repubblica», martedì 18/1/2011, p. 56, alla domanda sul cosa sia la solitudine e cosa la differenzi dall’isolamento, questi rispondeva: «Solitudine e isolamento sono due modi radicalmente diversi di vivere, anche se spesso vengono identificati. Essere soli non vuol dire sentirsi soli, ma separarsi temporaneamente dal mondo delle persone e delle cose, dalle quotidiane occupazioni, per rientrare nella propria interiorità e nella propria immaginazione – senza perdere il desiderio e la nostalgia della relazione con gli altri: con le persone amate, e con i compiti che la vita ci ha affidato. Siamo isolati invece quando ci chiudiamo in noi stessi, perché gli altri ci rifiutano o più spesso sulla scia dell’effetto di un cuore arido o inaridito».
47
arbusti, le piante – scrive Rousseau – sono l’ornamento e il vestito della terra. Niente è triste come l’aspetto della campagna nuda e spoglia, che offre allo sguardo solo pietre, fango e sabbia. Ma vivificata dalla natura e vestita del suo abito nuziale tra i corsi d’acqua e i canti degli uccelli, la terra offre all’uomo nell’armonia dei tre regni uno spettacolo pieno di vita, d’interesse e di fascino, il solo spettacolo al mondo di cui i suoi occhi e il suo cuore non si stanchino mai. Un contemplatore ha l’anima tanto più sensibile quanto più si abbandona all’estasi che quell’armonia eccita in lui»150. È immedesimazione con la natura, ri‐spondenza, un ri‐conoscersi l’un l’altro nell’abbraccio che con‐fonde ed affianca, lima le differenze. Anche solo per un attimo, infinito. È, quello di Rousseau, un vagare per boschi alla ricerca dei fenomeni della natura, di tutte quelle manifestazioni da osservare con attenzione, da cogliere con lo sguardo avido di chi vuol capire e carpire i segreti che lo circondano. Il Ginevrino annota: «Presi gusto a questa ricreazione degli occhi, che nella sventura riposa, diverte, distrae lo spirito e sospende la coscienza delle proprie disgrazie. La natura degli oggetti aiuta molto in questo diversivo e lo rende più seducente. Gli odori soavi, i colori vivi, le forme più eleganti sembrano fare a gara per avere il diritto di calamitare la nostra attenzione. Per abbandonarsi a sensazioni così dolci non occorre altro che amare il piacere, e se questo effetto non si produce in tutti coloro che ne sono colpiti, in alcuni è colpa della sensibilità naturale, e nella maggior parte delle persone del fatto che la loro mente, troppo occupata da altre idee, si abbandona solo di sfuggita agli oggetti circostanti»151. Vediamo, ma non guardiamo, né tanto meno osserviamo; asserviti, ieri come oggi, alla dittatura della “cultura” dell’utile, del vicino a cogliersi, senza sforzo né acume. Una mente poco avvezza al prestar attenzione al dimesso, al fuori schermo, al non‐detto, alle tracce sparse sui sentieri umanizzanti, poco comprende talune circostanziate analisi esistenziali. Le piante non sono solo strumenti di farmacia officinale, buone per arginare i guasti che affliggono la salute dell’uomo. Farmacia come tecnica152. «Questo modo di ragionare – continua il passeggiatore che
150 J.J. ROUSSEAU, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario, Einaudi, Torino 1993, p. 97. 151 Ib., p. 98. 152 Il giudizio di Rousseau sulla medicina, tranne il ramo dell’Igiene, è stato spesso aspro. Si veda quanto scritto nell’Emilio, cit., a p. 33: «la medicina è la scienza di chi non vuole perdere la vita». Poco oltre, lo stesso aggiunge (pp. 34‐35): «Volete trovare uomini davvero coraggiosi? Cercateli là dove non esistano medici, dove si ignorano le conseguenze delle malattie e non si pensa minimamente alla morte. L’uomo che
48
osserva e contempla – che riconduce sempre tutto agli interessi materiali, e fa cercare ovunque un guadagno o un rimedio, e farebbe guardare alla natura con indifferenza se stessimo sempre bene, non mi è mai appartenuto. […]. Provo delle estasi, dei rapimenti inesprimibili quando mi fondo, per così dire, nel sistema degli esseri, e m’identifico con la natura intera»153. Né lo studio dei minerali, pur provenienti dalle viscere della Terra, né quello intorno agli animali, nostri co‐abitanti di questo mondo, alleviano il tempo della riflessione rousseauiana. È la natura, la sua esplosione di vita che sana, giova: «Fiori brillanti, splendore dei prati, fresche ombre, ruscelli, boschetti, verzura, venite a purificare la mia immaginazione insozzata da tutti questi orribili oggetti. […]. Non cerco affatto di istruirmi: è troppo tardi. D’altra parte non ho mai visto che tanta scienza contribuisca alla felicità della vita»154. L’istruzione che perviene dall’osservazione della natura non è cosa da anziani, ma, se ne trae per converso, di bambini. In quell’età sì che la natura può farlo, si presta all’opera dell’indirizzo educativo. Rimane, però, centrale, l’assunto che “poco sapere, ma molto gioire – direbbe Hölderlin – ai mortali è dato”. Il sapore dolce‐amaro della vita è assai più ricco e sfuggente, complesso, del suo stesso studio sui libri. Jaspers, infatti, sosteneva che “la vita è qualcosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica”. Non è solo l’erudizione a farci uomini, ma il saper custodire e tessere quel che abbiamo compreso con l’esperienza vissuta in ogni direzione. «Le piante – continua il Nostro – sembrano essere state seminate a profusione sulla terra come le stelle in cielo per invitare l’uomo allo studio della natura con l’attrattiva del piacere e della curiosità; ma gli astri sono situati lontani da noi, […]. Le piante ci sono naturalmente»155. Guai, però, a trasformare questa conoscenza in smania di lode altrui, a far di ciò la base per un metodo di ricerca, per bramosia di celebrità, perché questo svilisce una così amabile applicazione della curiosità umana. Rousseau nelle sue fantasticherie non ha più l’età per andar per sentieri, ma l’erbario che s’è fatto nel corso delle sue lunghe passeggiate gli spalanca ancora le porte del cuore, placandone i tumulti: «I prati, le acque, i boschi, la solitudine, la pace soprattutto e il riposo che si trova in
vive secondo natura sa soffrire con costanza e morire in pace. […]. La temperanza e il lavoro sono le due vere medicine dell’uomo: il lavoro stimola il suo appetito e la temperanza gl’impedisce di abusarne». 153 Id., Le fantasticherie …, cit., p. 101. 154 Ib., p. 105. 155 Ib., p. 106.
49
mezzo a tutto ciò sono richiamati continuamente alla mia memoria. […]. Mi trasporta in tranquille residenze in mezzo a gente semplice e buona, come quella con cui ho vissuto un tempo. Mi ricorda sia la mia giovinezza che i miei piaceri innocenti, mi fa nuovamente godere, e mi rende felice ancora molto spesso in mezzo alla sorte più triste che mai abbia subito un mortale»156. L’amarezza che attraversa queste parole non deve indurre a conclusioni affrettare circa le riflessioni canute di un pensatore ormai alle ultime lotte, soprattutto contro gli spettri del proprio tormentato passato. La sua non è una lirica concettualizzata del tramonto, che nomina e ghermisce l’inesprimibile tensione “vita – morte” cantando congegni e dispositivi naturali di una terra cui, piaccia o no, apparteniamo. La natura è lo sfondo filosofico e pedagogico dell’intera opera rousseauiana. Una delle più belle pagine del Ginevrino, appartenenti al III libro dell’Emilio, infatti, riesce a saldare assieme natura, osservazione ed educazione in una prosa così pittorica che ripercorrerne interamente le fattezze non può che giovare a questo passaggio. Volete insegnare al fanciullo geo‐grafia? Chiede l’Autore al suo lettore; bene, mostrategli direttamente la realtà e lasciate perdere carte e mappamondi. Nessuno stupore più grande per un fanciullo che indurlo a fissare con attenzione, con spirito critico, tutto ciò che solo apparentemente pare scontato, lì, ovvio. Rousseau scrive: «Sul finir del giorno, mentre si annuncia una limpida sera, si va a passeggiare in un luogo adatto, donde l’orizzonte completamente aperto consente di seguire in tutte le sue fasi il tramonto del sole, e si osservano gli oggetti che rendono riconoscibile il punto in cui tramonta. Il giorno dopo, per respirare il fresco, si torna nello stesso luogo prima che il sole sorga. I dardi di fuoco che lancia innanzi a sé ne preannunciano l’apparizione. L’incendio cresce e l’oriente sembra avvolto di fiamme, così luminose che a lungo suscitano l’attesa dell’astro prima che questo si mostri; ad ogni istante si crede che stia lì lì per levarsi ed ecco finalmente che appare: un punto fulgente s’irradia come un baleno, riempie di colpo tutto lo spazio, e il velo delle tenebre impallidisce e cade. L’uomo riconosce la sua dimora e la trova più bella. La vegetazione durante la notte ha preso nuovo vigore; il giorno nascente che la rischiara, i primi raggi che l’inondano, la mostrano coperta di un brillante velo di rugiada che riverbera luci e colori. Gli uccelli riuniti in coro salutano ad una voce il padre della vita: in questo momento non ve n’è uno che taccia; il
50
loro cinguettio, debole ancora, è più lento e più dolce che nel resto del giorno, indugia nel languore di un placido risveglio. Il concorso di tante meraviglie infonde nei sensi un’impressione di freschezza che sembra penetrare sino in fondo all’anima. È una mezz’ora d’incanto cui nessun uomo resiste: di fronte a uno spettacolo così bello, così grande, così delizioso, nessuno può restare indifferente»157. È nell’attingere al profondo del cuore dell’educando che l’educatore può orientarne l’apprendimento in direzione dello spettacolo della natura. Il bambino non sa ancora scorgere i rapporti fra le cose, né riesce a intendere l’intima armonia del loro concerto. Il maestro, tuttavia, senza andar alla vana ricerca della sola trasmissione di un entusiasmo per i suoi scopi educativi, non trascuri mai di far compiere allo stesso esperienze dirette. Il contatto che lo scolaro realizzerà nel suo iter personale e istruttivo lo educherà naturaliter. Del resto, come commentava Heidegger alla poesia di Hölderlin Come quando al dì di festa, «la natura educa “in lieve abbraccio”»158.
Rousseau nelle prime pagine dell’Emilio chiarisce sin da subito il parallelismo centrale nel suo scritto fra natura e infanzia, quando afferma che «le piante si coltivano, gli uomini si educano»159. In ogni caso c’è una crescita da assecondare, assistere, guidare, di cui prendersi cura. Tre, però, sono le vie dell’educazione: quella della natura, degli uomini e delle cose. «Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini c’insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l’educazione delle cose»160. Ma il vero oggetto del suo studio resta “la condizione umana”. Colui che sa sopportare con più energia beni e mali di questa vita è il meglio educato. Ne consegue, pertanto, che l’educazione, ovvero quello che per Kant è il problema più grande e difficile che possa essere posto all’uomo, non può ridursi all’applicazione di precetti, bensì di esercizi. La “pedanteria” non è mai stata buona compagna della pedagogia, tutt’altro; essa ne ha sempre adombrato l’azione e leso la stessa approvazione pubblica in quanto sapere con un proprium disciplinare161. È
157 Id., Emilio, cit., pp. 212‐213. 158 M. HEIDEGGER, La poesia di Hölderlin Adelphi, Milano 2007, p. 66. 159 J.J. R OUSSEAU, Emilio, cit., p. 8. 160 Ib., p. 9. 161
Si dice “pedante”, come leggiamo in G. GENTILE, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. I, Sansoni, Firenze 1962, p. 158, un maestro quando questi non ha quella qualità indispensabile che è
51
l’esercizio, il provare, l’esperienza, che educano. Quel contatto diretto con la vita, che in tutte le sue diverse fasi contribuisce a far di noi uomini, in carne e ossa; poiché vivere non è limitarsi a “respirare”, ma «agire, è fare uso di organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere. L’uomo che ha vissuto di più non è quegli che può annoverare il maggior numero d’anni, ma colui che più intensamente ha sentito la vita»162. Non vi sia altra scienza da insegnare ai fanciulli che “quella dei doveri dell’uomo”. Ciò che contraddistingue il pedagogo, il maestro, è una scienza invisibile e che consiste non tanto nell’istruire, ma nel guidare163. In questo disegno pedagogico, di rilievo appare il dove l’evento educazione viene posto in essere. L’ambiente reclama i propri diritti nella formazione del piccolo d’uomo: «Nell’educazione degli uomini ha non poca importanza il paese che abitano»164. Al di là delle considerazioni specifiche esposte dal Ginevrino, ovvero sulla migliore possibilità offerta dai climi temperati, quel che in questa sede interessa è la centralità attribuita da un pedagogista come il Nostro al luogo in cui l’atto educativo trova realizzazione. È in campagna che l’educazione di Emilio deve avvenire, sin dai primi anni di vita; è lì che il bambino potrà respirare “la buona aria dei campi”, è lì che deve operare la “contadina‐nutrice”165. Gli spazi aperti, arieggiati, pieni di sole e non le anguste e soffocanti stanze delle città devono supportare l’educazione dei più piccoli: «Gli uomini non sono fatti per vivere ammucchiati in formicai, ma sparsi sulla terra che debbono coltivare. Più si ammassano, più si corrompono»166. Prodromi di un mondo che correva già sin dall’allora verso un accentramento urbano contrario alla concezione di una spazialità antropologicamente rispettosa delle persone, in armonia con il buon vivere in una prossimità che sapeva di
“l’originalità o freschezza di ogni momento”. Costui «non sente il flusso della vita, perché egli è pigro e non si muove spiritualmente». Ripete sempre le stesse cose e «si caccia col cervello dentro un sacco di definizioni, di massime astratte, dei così detti concetti generali, che sono fotografie di cose morte, viste una volta». Una simile caricatura del maestro come agente della pedanteria ferisce l’atto spirituale dell’insegnamento, ne rende meccaniche le azioni e poveri i risultati, privi di soffio vitale. Il maestro, come sostiene Gentile, se è tale, non si ripete. Il filosofo di Castelvetrano elogia Rousseau nelle “forme dell’educazione”, sostenendo che la sua pedagogia è «senza dubbio una delle più possenti, anzi, senz’alcun dubbio, la più possente riscossa dello spirito di libertà contro il meccanicismo verso cui tende naturalmente la pedagogia» (Ib., p. 199); ma tiene ad evidenziare come lo stesso, però, abbia poi semplicemente sostituito un sistema ad un altro col suo Emilio, “pedanteggiando” anche lui. 162 J.J. ROUSSEAU, Emilio, cit., p. 16. 163 Cfr. ib., p. 30. 164 Ib. 165 Cfr. ib., p. 40. 166 Ib., p. 41.
52
equilibrio. Rousseau scrive: «Le città sono l’abisso ove precipita il genere umano»; è la campagna che può rinnovare le generazioni in declino: «Inviate dunque i vostri bambini a rigenerarsi, per così dire, da sé e a recuperare in mezzo ai campi il vigore che si perde nell’aria malsana dei luoghi troppo popolati»167.
Nei primi anni è di importanza vitale l’apprendimento del linguaggio ed anche in questo le differenze fra lo studio in città e quello in campagna per Rousseau sono evidenti. In campagna, a differenza che in città, infatti, i bambini imparano a farsi sentire e pronunziare con molta chiarezza, poiché le distanze e i luoghi aperti lo richiedono. Certo, aggiunge il Nostro, la gente del popolo e dei campi parla sempre con toni più forti di quanto occorra alla situazione. Sicché il loro parlare risulta più rozzo, pesante e colorito, e la scelta dei termini non risulta buona. In città s‘impara un linguaggio più