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I modelli del settore culturale e creativo

IV. USI DELLA CREATIVITÀ IN AMBITO ECONOMICO

IV.2. INDUSTRIE CULTURALI E INDUSTRIE CREATIVE

IV.2.2. I modelli del settore culturale e creativo

Prima di analizzare alcuni modelli che hanno cercato di fornire una raffigurazione del settore culturale e creativo, può essere utile ricapitolare alcune delle numerose definizioni date dagli economisti relative a questi tipi di industria. Caves, ad esempio, fa rientrare nell’industria della creatività quelle attività

che producono e distribuiscono beni e servizi cui viene in generale associato un valore culturale, artistico o semplicemente di intrattenimento. Tale insieme di settori comprende quello dell’editoria libraria e periodica, quello delle arti visive (pittura e scultura), quello delle arti rappresentate (teatro, opera, concerti, balletto), quello discografico, quello cinematografico e dei film realizzati per la televisione, perfino quello della moda e dei giocattoli.326

Towse, utilizzando i concetti di industria culturale e creativa come sinonimi, vi fa rientrare quei settori che

mass produce goods and services with sufficient artistic content to be considered creative and culturally significant. The essential features are industrial-scale production combined with cultural content. The cultural content mostly results from the employment of trained artist of one sort or another (creative artists, performers, craftspeople) in the production of goods in the cultural industries, but it may also arise from the social significance that attaches to the consumption of goods.327

La definizione data da Throsby328, infine, permette di riassumere quelle caratteristiche che tendono a emergere più spesso e che possono quindi essere considerate come tratti essenziali delle industrie culturali o creative. Egli individua le tre caratteristiche principali che i loro beni e servizi devono presentare, primo fra tutti il carattere creativo della produzione:

324 UNCTAD (2008), “The Creative Economy Report”, op. cit., p. 26.. 325 Ibid., p. 4.

326

R.E. Caves, L’industria della creatività. Economia delle attività artistiche e culturali, Milano, Etas, 2001, p. 1.

327 R. Towse, “Cultural Industries” in Towse (a cura di), A Handbook of Cultural Economics, Cheltenham (UK), Elgar,

2003, p. 170.

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[Essi] a) comportano una certa forma di creatività nella produzione; b) riguardano la creazione e la comunicazione di un significato simbolico; c) implicano, almeno in potenza, una qualche forma di proprietà intellettuale.329

Questi punti costituiscono la base comune su cui si sono articolati tutti i vari modelli che hanno cercato di delineare i confini tra le diverse attività al fine di riuscire ad analizzarne l’impatto a livello economico. In alcuni casi, questo viene fatto dando la priorità a uno di questi tratti distintivi che viene posto come principio regolatore, come avviene nel modello della World

Intellectual Property Organization (WIPO), dove le industrie vengono classificate e valutate sulla

base del ruolo più o meno centrale svolto dai diritti di proprietà intellettuale nella creazione dei loro beni o servizi. Nonostante resti il ruolo fondamentale svolto dal copyright su cui si basa la commerciabilità di beni intangibili, quali le idee e la creatività stessa, il concetto di creatività è, invece, posto al centro di uno dei primi e più significativi modelli che è quello realizzato nell’ambito dello studio, organizzato nel 2006 dalla Direzione Generale per l’educazione e la cultura della CE, L’economia della cultura in Europa, definito “modello KEA”.

Questo modello individua come premessa una distinzione tra settore culturale e creativo basata sul ruolo, più o meno diretto, svolto dalla cultura e dalla creatività al suo interno: nel primo, comprendente sia arti tradizionali che industrie culturali, “la cultura costituisce un prodotto finale di consumo, che non è riproducibile e finalizzato al consumo in loco (cioè sul posto, come un concerto, una fiera o mostra d’arte) o alla riproduzione di massa, alla diffusione e all’esportazione (un libro, un film, una registrazione audio)”; nel secondo, “la cultura […] può entrare nel processo produttivo degli altri settori economici e diventare un input «creativo» nella produzione di beni non- culturali”330

. In altre parole, mentre nel settore culturale, i prodotti finali culturali “non hanno alcuna funzione «utilitaria» secondaria”331

, nel settore creativo, la creatività artistica viene utilizzata nel processo produttivo di prodotti non-culturali al fine di creare valore e renderli più competitivi.

Sulla base di queste premesse, lo studio sviluppa un modello a cerchi concentrici, dove il centro rappresenta il “luogo d’origine delle idee creative”332

, in altre parole le attività culturali non industriali, in cui la creatività si esprime, per così dire, in modo “puro” (arti visive, arti sceniche, patrimonio culturale). Man mano che ci si sposta verso le fasce più esterne, la creatività si fonde con altri input al fine di ottenere prodotti sempre più diversificati, funzionali e slegati dall’ambito culturale: nel secondo cerchio, si trovano quindi le industrie, in cui i prodotti, ancora unicamente

329 M. Tamma, A. Curtolo, “Lo sviluppo strategico delle organizzazioni di produzione culturale: commitment, risorse,

prodotti” in G. Brunetti, M. Rispoli, Economia e management delle aziende di produzione culturale, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 61.

330 “L’economia della cultura in Europa”, Kea 2006, op. cit., p. 48. 331 Ivi.

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culturali, sono riprodotti per il consumo di massa (film e video, televisione e radio, videogiochi, musica, editoria); nel terzo, si entra nel settore creativo, costituito da attività sia industriali che non, quali il design, l’architettura e la pubblicità, le quali “inglobano gli elementi provenienti dai due strati precedenti nel processo di produzione”333

(spesso, ad esempio, i designer provengono da un percorso legato alle arti tradizionali). Un ultimo cerchio considerato comprende le “industrie correlate”, cioè quei settori economici che risultano strettamente connessi ai precedenti, ma che non rientrano nel settore culturale e creativo, tra questi quelli legati alle tecnologie e alla produzione di strumenti “la cui funzione è interamente o principalmente quella di facilitare la creazione, la produzione o l’uso delle opere e di altro materiale dal contenuto protetto”334

.

333 “L’economia della cultura in Europa”, Kea 2006, op. cit., p. 59. 334

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Rispetto alla prima definizione del DCMS vista, quindi, non solo software e servizi informatici non sono considerati come facenti parte delle industrie culturali e creative, ma viene riconosciuto anche il ruolo centrale svolto dal patrimonio culturale, sia in quanto espressione e fonte di creatività che per il legame con lo sviluppo turistico dei paesi. La concezione di creatività a cui si fa riferimento in questo modello come cuore del settore culturale e creativo è, quindi, sempre quella artistica, che si esprime nelle arti considerate tradizionali, quali la pittura, la scultura, e anche nell’artigianato. Si può notare, in questo modello, però, una contraddizione nell’utilizzo del concetto di creatività, che si pone allo stesso tempo come fonte di idee, fulcro attorno al quale ruotano tutte le altre attività economiche e, con la definizione di industria creativa, anche come un sottoinsieme, una porzione interna a queste. Al fine di rimediare a questo inconveniente, il modello elaborato dalla Work Foundation in associazione con il DCMS nel 2007 propone una suddivisione del settore culturale e creativo, basata su una diversa concezione della creatività.

Nel modello della Work Foundation, infatti, il core creativo non è semplicemente legato al concetto di “arte”, questa costituisce solo una parte di una concezione di creatività più ampia, strettamente connessa, da un punto di vista economico, all’utilizzo del copyright e caratterizzata da un grado elevato di valore espressivo, inteso come “every dimension which […] enlarges cultural meaning and understanding”335

. Questo riferimento al valore espressivo piuttosto che alla creatività permette di recuperare in modo più adeguato, rispetto al modello KEA, la specificità della cultura, non intesa solo come “arte”, ma comprendente altri prodotti originali, quali forme di cultura popolare, videogames e programmi per pc:

commercializing “expressive value” and that necessarily a greater part of their commercial turnover is attributable even more so than other parts of the knowledge economy to acts of genuine “creative origination”.336

Questo modello recupera, quindi, la struttura a centri concentrici del modello KEA ponendo, però, al centro, come origine di contenuti creativi, tutte le attività che consistono nella creazione di valore espressivo: “This is the domain of the author, painter, film-maker, dancer, composer, performer and software writer”337. L’output originato da queste attività è commercializzabile e,

quindi, soggetto a copyright, tuttavia, a differenza del modello KEA, nel settore centrale viene considerato esclusivamente il processo di creazione, indipendentemente da tutte le attività di riproduzione e circolazione che, in una seconda fase, permettono ai contenuti espressivi di essere

335

Work Foundation (2007), “Staying ahead: the economic performance of the UK’s creative industries”, p. 96, consultato in http://www.theworkfoundation.com/assets/docs/creative_industries_chapter4.pdf .

336 Ivi. 337

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fruiti e commercializzati. La fase di creazione è intesa come autonoma rispetto alle attività economiche che si genereranno in un secondo momento e popolata da “men and women who have the urge to create. […] Although the creator seeks an audience and market, the activity is the pure expression of personalised value in which both creator and users have a unique relationship from which both gain”338

. Proprio perché il processo creativo è strettamente connesso alla soggettività delle persone coinvolte e quindi non controllabile, le industrie culturali (musicali, televisive, radiofoniche, editoriali, cinematografiche), contenute nel secondo cerchio, tendono a lasciare ai creativi ampi margini di autonomia e a esercitare un maggiore controllo sulla fase di riproduzione, circolazione e commercializzazione dei contenuti espressivi. Le industrie e attività creative, nel terzo cerchio, si distinguono da quelle culturali, in quanto non si occupano della distribuzione di solo valore espressivo, ma di valore espressivo unito a un valore funzionale che costituisce il carattere primario del prodotto, come accade nell’architettura, nel design, nella moda, nella pubblicità e nei software.

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Rispetto al modello KEA, in cui, le varie attività venivano organizzate sulla base di un concetto di creatività cha andava da pura ad applicata, dove la creatività pura caratterizzava il settore culturale, in questo modello è proposta una configurazione basata su un concetto di creatività che va da valore espressivo puro, più specifico per le attività culturali, a valore espressivo unito a un grado sempre maggiore di funzionalità, per le cosiddette industrie creative.

Un ulteriore modello è quello proposto dal United Nations Conference on Trade and

Development (UNCTAD) nell’ambito dello studio “The Creative Economy Report” (2008), al

centro del quale viene posto appunto il concetto di “economia della creatività”, strettamente connesso a quello di “economia della conoscenza”, che riconosce il ruolo svolto dalle idee creative nello sviluppo e nella crescita economica e mette in primo piano “una complessa interazione tra cultura, economia e tecnologia, in un mondo globalizzato e dominato da simboli, testi, suoni e immagini”339

.

Alla base della classificazione delle industrie creative proposta in questo modello c’è una definizione di creatività che non mette al centro solo la componente artistica, ma anche quella economica, includendo “any economic activity producing symbolic products with a heavy reliance on intellectual property and for as wide a market as possible”340

. Le attività individuate come facenti parte dell’industria creativa non sono organizzate in centri concentrici, ma raggruppate in quattro settori principali: il patrimonio culturale, le arti, i media e le creazioni funzionali; questi sono a loro volta suddivisi in nove subsettori, distinti sulla base della vicinanza o meno con il mercato delle attività incluse, rispettivamente: espressioni culturali tradizionali e siti culturali; arti visive e arti sceniche; editoria e audiovisivi; design, new media e servizi creativi di vario tipo.

Ciò che emerge da questo modello è, innanzitutto, un utilizzo diverso e più ampio del termine “industria”, fino a ora adoperato per indicare un tipo di riproduzione e commercializzazione dei prodotti rivolto a un pubblico di massa che si distingue dalla singola attività di produzione di artisti e creativi, dalla fase di creazione. Qui, invece, nell’industria creativa vengono fatte rientrare, non solo le cosiddette “creazioni funzionali” riconducibili al concetto di industria creativa fin qui visto (architettura, moda, pubblicità, grafica, software, videogiochi, ecc.), ma anche il patrimonio culturale, definito come “the origin of all forms of arts and the soul of cultural and creative industries”341

, le arti tradizionali, sia visive che sceniche, e il settore dei media, che comprende quella che negli altri modelli era l’industria culturale (editoria, film, televisione, radio, ecc.). In questo modello, quindi, l’industria culturale costituisce un sottoinsieme del settore più ampio

339 UNCTAD-UNPD (2008) tratto da M. Tamma, A. Curtolo, op. cit., p. 60. 340 UNCTAD (2008), “The Creative Economy Report”, op. cit., p. 13. 341

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dell’industria creativa, comprendente, in modo generale, “the cycles of creation, production and distribution of goods and services that use creativity and intellectual capital as primary imputs”342

. Infine, il modello più recente è quello delineato nel Libro Bianco della Creatività, uno studio disposto dal Ministero della Cultura nel 2009 volto ad analizzare le possibilità di uno sviluppo della creatività in Italia e a delineare un “modello italiano” delle produzioni creative e culturali. In questo studio, viene messo in evidenza l’impatto che la creatività ha, non solo a livello economico sul mercato e gli affari, ma sulla “qualità della vita”; in particolare, vengono individuati due modalità principali di fare riferimento alla creatività, diverse di paese in paese: nei paesi nord- europei e nord-americani, emerge maggiormente una concezione della creatività intesa, alla luce dell’odierna economia della conoscenza, come innovazione, legata alle ICT, al contributo della tecnologia nella produzione e diffusione dei contenuti e alla ricerca scientifica. In questa visione orientata più al mercato e allo sviluppo economico, la priorità è attribuita al copyright, come avviene nel modello WIPO; nei paesi più meridionali, invece, il concetto di creatività è maggiormente collegato alla cultura, al territorio e, in generale, alle “manifestazioni del vivere sociale”343, incluso “lo sviluppo delle industrie dei contenuti (cinema, radio TV, editoria, software,

pubblicità) e la valorizzazione del patrimonio culturale (archivi, biblioteche, musei, monumenti, musica, arte e spettacolo)”344. In questa concezione della creatività, l’attenzione è volta in

particolare alla cultura materiale, intesa come “l’insieme di beni e servizi che l’uomo ha prodotto dall’alba dell’umanità per modificare il suo rapporto con la natura e la società in divenire”345

. Questa è la concezione che prevale in Italia, quella di una creatività che guarda sì al progresso, ma senza mai perdere di vista “le ragioni etiche e la qualità estetica e sociale del vivere comune”346

. Come nel precedente modello, anche nel Libro bianco le industrie culturali e creative vengono raggruppate in macrosettori individuati secondo il criterio della combinazione di output culturale e utilizzo di creatività al loro interno. Sulla base di questo principio le industrie culturali e creative vengono suddivise in tre ambiti principali: il patrimonio storico e artistico, inteso come capitale culturale di un paese nella sua interezza, espressione dalla creatività passata, ma anche di quella presente (patrimonio culturale; musica, spettacolo e architettura; arte contemporanea); la produzione di contenuti, informazione e comunicazioni, comprendente industrie in cui la creatività, anche tecnologica, diventa un input per la produzione di beni e servizi finalizzati alla circolazione di

342 UNCTAD (2008), op. cit., p. 13.

343 Walter Santagata, Libro bianco sulla creatività-Per un modello italiano di sviluppo consultato in

http://www.beniculturali.it/mibac/export/UfficioStudi/Contenuti/Pubblicazioni/Volumi/Volumi- pubblicati/visualizza_asset.html_1410871104.html , cap. 1, p. 10. 344 Ivi. 345 Ivi. 346 Ibid., p. 11.

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contenuti culturali e simbolici (software, editoria, TV e radio, pubblicità e cinema); e il settore della “cultura materiale”, con cui si fa riferimento a quelle industrie che operano nella produzione di beni funzionali, di uso quotidiano, in cui la cultura diventa un aspetto imprescindibile, in quanto beni per la cui produzione è necessaria una creatività che è “espressione del territorio e delle comunità”347

, cioè frutto di un processo storico, di un sapere accumulato nel corso di generazioni e quindi anche fortemente connesso alla dimensione locale. Vengono individuate come industrie facenti parte del settore della cultura materiale la moda, il design industriale, l’artigianato e, addirittura, l’industria del gusto, comprendente “i prodotti enogastronomici di qualità e il turismo relativo all’enogastronomia”348

.

La particolarità di questo modello sta nel fatto che l’industria culturale e creativa non sono distinte come nei modelli precedenti, anzi, per i settori che ricadevano sotto la definizione di industria creativa a causa del loro carattere funzionale e non strettamente culturale, quali la moda, il design, l’artigianato, viene sottolineato, invece, proprio il loro essere espressione della cultura e dell’identità di una comunità tanto quanto lo sono le manifestazioni artistiche e spirituali.

In conclusione, si può affermare che l’applicazione del concetto di creatività in economia, intesa come processo che sta all’origine della produzione culturale, ha condotto a una concezione della creatività per cui, a un ideale romantico di opera d’arte in cui l’unico interesse è quello artistico, legato cioè esclusivamente al suo valore culturale, viene sempre più messo in evidenza l’aspetto dell’utilità, in cui al valore culturale si affianca quello economico, che ricade sia sulla società, in termini di sviluppo socio-economico prodotto dalle industrie culturali e creative, sia sull’artista stesso, in cui spesso la variabile economica e funzionale finisce con influire nel processo creativo, non solo in termini di compenso, ma anche nella necessità di mettere spesso la creatività al servizio della domanda e delle esigenze che, di volta in volta, devono essere soddisfatte, come accade nel lavoro di compositori, sceneggiatori, ma anche pittori e altri artisti, le cui opere sono destinate a essere poi utilizzate dalle industrie culturali e creative.