III. ASCESA E DECLINO DEL GENIO
III.5. WITTGENSTEIN: DAL GENIO-FILOSOFO AL LOGICO
Come Kant, che con il termine “critica” indicava l’esame delle condizioni di possibilità delle varie facoltà dell’uomo, allo stesso modo Wittgenstein vuole individuare le condizioni di possibilità del linguaggio, ossia indagare le condizioni per cui il linguaggio, nel suo rapportarsi alla realtà, si può dire abbia senso. Lo scopo della sua opera prima è, quindi, quello di arrivare a distinguere con chiarezza ciò che può essere detto da ciò che non può essere detto. In questo senso, la filosofia si trasforma in una critica del linguaggio e il filosofo diventa un logico che, dedicandosi allo studio rigoroso delle leggi di funzionamento del pensare e del dire, ne determina i limiti.
Il concetto base della filosofia del Tractatus di Wittgenstein sta nel riconoscere che è proprio nel linguaggio che il mondo intero manifesta il proprio significato, per cui la sua struttura interna, costituita da proposizioni complesse, proposizioni semplici e nomi, collegati e messi in relazione l’uno con l’altro, rispecchia quella del mondo, dove per mondo si intende un insieme di
fatti che accadono. Questi fatti sono a loro volta costituiti dalla combinazione di una serie di stati di cose, cioè fatti semplici, derivanti dalla correlazione di unità elementari, che stanno alla base del
mondo intero, ossia gli oggetti, o cose. Sono questi oggetti, quindi, per Wittgenstein, a costituire la sostanza del mondo, sono cioè gli elementi più semplici di cui è fatta la realtà, non ulteriormente scomponibili e immutabili, per cui il cambiamento di stati di cose e fatti è dato da una diversa combinazione di questi fattori primi, che rimangono però inalterati. Mentre per Schopenhauer, la realtà fenomenica è frutto dell’oggettivazione delle idee operata dalla volontà, per Wittgenstein, questa è costituita di stati di cose realmente esistenti, di cui facciamo esperienza diretta, dati dall’organizzazione degli oggetti. Gli oggetti, quindi, acquisiscono significato solo nel momento in cui vengono messi in relazione tra di loro secondo determinate leggi e lo stesso vale per i nomi, i
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quali possono designare oggetti diversi in base al contesto, anche sintattico, descritto dalla proposizione.
Clegg sottolinea come questo parallelo formulato da Wittgenstein tra realtà e linguaggio sembri richiamare quello sviluppato da Schopenhauer e Nietzsche relativamente alla musica e il mondo fenomenico, dove la musica non riproduce semplicemente la realtà, altrimenti sarebbe apparenza dell’apparenza, ma si pone sullo stesso piano ontologico del mondo fenomenico in quanto manifestazione diretta delle idee, cioè i toni. La stessa identità formale è quella che collega il linguaggio alla realtà per Wittgenstein, dove però, come surrogati delle idee, non troviamo più i toni, ma i nomi, ossia l’elemento fondamentale del linguaggio che denota l’oggetto.
La riabilitazione della figura del filosofo non passa, quindi, per la convinzione che l’essenza delle cose possa essere espressa come contenuto o comunicata concettualmente; anzi, le proposizioni possono rappresentare i fatti del mondo, gli stati di cose, ma non possono offrire una descrizione dei nomi stessi, cioè dell’essere. Wittgenstein ha la stessa concezione della filosofia, così come viene intesa tradizionalmente, espressa anche da Schopenhauer e Nietzsche, cioè come di qualcosa che tende a un fine impossibile, quello di esprimere pienamente la verità attraverso concetti e parole. Lo studio del linguaggio e della logica, tuttavia, può portare l’uomo alla vera conoscenza, quella che permette di cogliere i limiti del mondo e di trasformarsi nel Soggetto, perché, proprio come fa la musica per Schopenhauer, il linguaggio “rispecchia” la realtà nella sua struttura, non la descrive:
The work of the logician is as much a vocation of genius as is that of the moralist and the artist, who show what cannot be said in silent behaviour and wordless music.266
Secondo la tesi di Clegg, le qualità metafisiche che Schopenhauer e Nietzsche attribuiscono al genio e all’arte, Wittgenstein le attribuisca al logico e al linguaggio, in quanto, come afferma Wittgenstein: “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”267
, per cui anche per ognuno di noi il mondo può essere pensato come “mia rappresentazione”, finendo col porci nella posizione del Soggetto, il limite del mondo, la coscienza che sottostà all’intera realtà. Anche in Wittgenstein ritroviamo quindi la duplice natura dell’individuo, il suo essere costituito da una parte individuale che percepisce solo i fatti empirici e un’altra parte transpersonale che è in grado di cogliere la dimensione noumenica, trascendente ed eterna, per cui ognuno di noi comprende il significato dei nomi, anche se impossibili da descrivere, e condivide una stessa logica che è comune a tutti gli uomini:
266 Jerry S. Clegg, op. cit., p. 64 267
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That the Subject of the Tractatus is of a transcendent, not personal and empirical, nature allows each of us, not Wittgenstein alone, to claim in one sense to be the Self.268
Il fatto che linguaggio e realtà, poi, siano legati da un’identità solo formale e non sostanziale, implica che le proposizioni riescano a mantenere un senso anche quando non sono vere, cioè anche quando non corrispondono alla realtà dei fatti. Per Wittgenstein, una proposizione ha senso nel momento in cui i nomi, associati tra di loro, descrivono uno stato di cose possibile, che può essere cioè vero o falso, e questo avviene quando gli elementi della proposizione sono collegati tra di loro in modo logico: una proposizione, cioè, ha senso quando esprime coerenza da un punto di vista logico, non quando corrisponde alla realtà e questo è dimostrato dal fatto che noi riusciamo a comprendere il senso di una proposizione anche quando questa è falsa. Se assumessimo, invece, che il linguaggio coincide perfettamente con la realtà, non potremmo mai dire niente di falso.
Ma, se il senso di una proposizione è indipendente dalla realtà e il suo essere vera è da interpretare come qualcosa di secondario o, addirittura, casuale, come è possibile arrivare a dire qualsiasi cosa del mondo? E’ necessario postulare l’esistenza di elementi ultimi, non ulteriormente riducibili, posti in rapporto diretto gli uni con gli altri; in altre parole, è necessario pensare che i nomi designino in modo certo gli oggetti, cioè la sostanza del mondo. Mentre una proposizione può mantenere un senso pur non descrivendo nulla di reale, i nomi si presentano come simboli, segni che assumono significato solo in relazione con il mondo. Un nome non può essere vero o falso, deve necessariamente designare un oggetto, rappresentare un elemento della realtà. In questo modo, il nome assume un significato, che può anche cambiare in base al contesto in cui è utilizzato, ma che lascia immutato il suo potere referenziale.
La concezione del linguaggio espressa nel Tractatus differisce fortemente dall’immagine che ne fa Schopenhauer come di uno strumento al servizio della volontà stessa: Wittgenstein nega che ci sia qualcosa come la volontà alla base del mondo, che ci sia un rapporto diretto causale tra la volontà e il mondo fenomenico. Il mondo non può essere la mia volontà, non solo perché non tutto è come noi vorremmo, ma anche perché se il mondo fosse determinato da una volontà, nulla di falso potrebbe essere detto. L’unica necessità è quella logica, non esiste una necessità causale: come il fatto descritto da una proposizione può confermarsi o meno nel mondo, la stessa contingenza si rispecchia anche a livello fenomenico, in quello che è può essere inteso come linguaggio oggettivato, dove i fatti e gli stati di cose sono frutto di una connessione casuale degli oggetti: “Just
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as it is essential to the propositional format of a thought that it could be wrong, so it is essential to any fact that it might not be”269
.
La liberazione del mondo dalla volontà porta a due conseguenze principali. La prima sta nel fatto che il mondo acquisisce una dignità ontologica propria, per cui esso diventa realtà e non apparenza, esistente indipendente dalla volontà del soggetto e questo stesso innalzamento al piano dell’essere si trasmette anche al linguaggio che ne è l’immagine da un punto di vista formale. In secondo luogo, si ha una negazione della capacità “creatrice” dei nostri sensi, per cui, come afferma Schopenhauer, “il mondo è la mia rappresentazione” e il suo contenuto, le nostre percezioni sensibili, sono frutto della nostra volontà, anzi questa capacità creatrice viene assunta proprio dal linguaggio: “la proposizione costruisce un mondo con l’aiuto di un’armatura logica”270
. Il mondo, costituito da fatti che accadono, da stati di cose esistenti, non è che un sottoinsieme, una parte della realtà, intesa come spazio logico più ampio, in cui trovano posto tutte le proposizioni aventi senso, non solo quelle che descrivono qualcosa di esistente. Questa caratteristica delle proposizioni del linguaggio, reali anche quando non sono vere, permette all’immaginazione di creare altri mondi, mondi possibili, ma diversi da quello di cui facciamo esperienza, aventi in comune con quest’ultimo gli oggetti, i nomi che stanno alla base del linguaggio, connessi però tra loro in modo diverso:
Reality is broader than the world, which is merely all that happens to be the case. Thus the imagination may construct models of what has never been, and that is a power that we exercise whenever we think, assert, or picture.271
Ogni qual volta noi costruiamo una proposizione avente senso e, in quanto tale possibile, non importa che sia vera o falsa, creiamo un altro mondo. Abbiamo visto come, nel passato, si fosse delineata la teoria dei mondi possibili a partire da questione teologiche relative alla possibilità che il nostro mondo potrebbe non essere l’unico che la divinità nella sua onnipotenza avrebbe potuto creare. Wittgenstein, a partire dallo studio delle proprietà del linguaggio, arriva a delineare la possibilità per l’uomo di creare mondi possibili, cioè mondi linguistici aventi la stessa valenza ontologica del mondo reale, in quanto espressione diretta delle idee, cioè dei nomi per i primi e degli oggetti per i secondi. In questo senso, si può parlare del mondo come di oggettivazione del linguaggio, che ne condivide la stessa logica. Nel momento in cui andiamo a costruire una proposizione, possiamo organizzare liberamente i nomi in modo nuovo, creando però un tutto che sia coerente e possibile. Questo lavoro di messa assieme è svolto dall’immaginazione, la quale
269 Jerry S. Clegg, op. cit., p. 66. 270 Ludwig Wittgenstein, op. cit., p. 23. 271
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viene, quindi, prima del pensiero, in cui l’immaginazione viene comunque applicata e riferita ai fatti del mondo:
We are free to imagine the world as we have never sensed it, and to say and think what is false without falling into incoherence. We are free, in other words, to create propositions.272
L’indipendenza dell’immaginazione dall’esistente è pari a quella per cui Schopenhauer, parlando della musica, affermava che questa potrebbe per un certo verso esistere anche senza un mondo, dato il suo carattere non imitativo, ma ontologicamente autonomo. L’immaginazione, cioè, è una facoltà trascendente, in grado di superare la separazione tra la dimensione fenomenica e quella noumenica e, a partire dai nomi, di creare un altro mondo, un mondo possibile, fatto di un linguaggio non oggettivato, ma che condivide la stessa logica di quello esistente.
Il linguaggio inteso come semplice rappresentazione dei fatti del mondo è stato creato dall’uomo, nasce dalla sua parte empirica, dai suoi bisogni animali, legati alle preoccupazioni e ai problemi della vita, ma che risulta del tutto inutile nel raggiungimento di una qualsiasi verità. Non è la negazione della volontà a farci tornare al mondo originario dell’essere, ma è l’immaginazione che permette di innalzarci rispetto alle miserie della vita, all’interesse per il mondo fenomenico, per la distinzione di ciò che è vero da ciò che è falso. Secondo l’interpretazione di Clegg, in questo modo, Wittgenstein riafferma il potere cosmogonico, creatore del mondo, della coscienza, tratto essenziale del genio, anche se qui diversamente da Schopenhauer il mondo creato non è quello fenomenico, ma un mondo linguistico possibile: chi compie il reditus, cioè chi nel linguaggio arriva a vedere i limiti del mondo, diventa indifferente alla vita, non si interessa di costruire proposizioni vere, che siano confermate dai sensi, come accade nella scienza –queste infatti costituiscono solo una parte della realtà. Costui si interessa piuttosto di costruire proposizioni che siano “modelli della realtà”, cioè che non descrivano il mondo, ma che lo “rispecchino” nella struttura e nella logica, sollevandosi al di sopra della particolare configurazione degli oggetti che costituisce il nostro mondo e creandone di nuove. Questo è il caso di chi si dedica, non alla contingenza, e quindi alla scienza, ma alla logica, all’arte e allo studio delle condizioni del raggiungimento della felicità che si realizza nel reditus, cioè all’etica:
The logical, the ethical, and the aesthetic belong to the same province of existence and presuppose the same truth: that we are at once human beings and the Subject that names, that is the bearer of an effective, ethical will, and that contemplates the world in a timeless present.273
272 Jerry S. Clegg, op. cit., p. 76. 273
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Rispetto a Nietzsche e a Schopenhauer, le sofferenze e le preoccupazioni degli altri uomini che il genio osserva da una posizione esterna non sono da intendersi come qualcosa di negativo da rifuggire o da trasformare in bene estetico, ma vengono ora riconosciuti come insignificanti e privi di qualsiasi valore.
Dopo alcuni anni, Wittgenstein giunge ad una nuova concezione del linguaggio, comprende che l’aspetto denotativo, scientifico fino a lì da lui considerato costituisce solo una parte dei possibili modi in cui il linguaggio può essere usato. Il linguaggio non ha solo una funzione descrittiva di stati di cose, basata sul legame tra nomi e oggetti, ma nella vita di tutti i giorni può svolgere funzioni di vario tipo, può esprimere un ordine, una domanda, una valutazione, estendendosi all’ambito morale, religioso, estetico, mantenendo la stessa sensatezza. La seconda parte della vita di Wittgenstein non sarà più, quindi, dedicata alla ricerca del linguaggio logicamente perfetto, ma allo studio delle circostanze, dei contesti pratici in cui il linguaggio viene utilizzato, abbandonando le speculazioni metafisiche che avevano caratterizzato il Tractatus. Come Nietzsche, anche Wittgenstein finisce con l’adottare una concezione definitivamente naturalistica dell’essere umano, in cui il genio non trova più posto e il linguaggio è visto come uno strumento pratico estremamente variegato, privo di un’essenza, ma connesso in modo indissolubile ai contesti d’uso e alla vita della comunità linguistica di riferimento.
III.6. DAL REDITUS ALL’EXITUS: LA RIAFFERMAZIONE DELL’UOMO