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I nobili di Sciacca congiurano contro Giacomo Perollo

( Anno Domini 1529 )

I tragici avvenimenti che mi accingo a narrare si sono svolti nel XVI secolo a Sciacca, ridente cittadina siciliana e unica città regia in mezzo a tante baronie, teatro della violenta e sanguinosa rivalità tra due potenti e nobili famiglie, i Luna e i Perollo.

A Sciacca, in quel tempo, Giacomo Perollo, barone di Pandolfina, è regio Portulano, possiede feudi sconfinati, più volte viene eletto deputato al Parlamento siciliano ottenendo varie grazie per la città, si fregia di un’ illustre parentela e di amicizie influenti che effettivamente gli conferiscono uno smisurato ascendente, tanto che nel 1520 sono gli stessi membri del Parlamento a chiedere a Carlo V (a cui Giacomo è stato sempre fedele) di rendere trasmissibile la carica di Portulano agli eredi del Perollo. Oltre alla sua nobiltà e alle grandissime ricchezze, Giacomo vanta una strettissima amicizia con Don Ettore Pignatello, duca di Monteleone e Vicerè del regno, conosciuto presso la corte del re Ferdinando il Cattolico. Sicuro anche dell’appoggio di una tale autorità, egli si sente il padrone assoluto e incontrastato della città di Sciacca: nomina gli ufficiali, carcera e scarcera chi decide lui, impartisce ordini e guai a chi, arditamente, replica. È uno dei principali magnati di Sicilia, spende a piene mani, largheggia, dona a monasteri e chiese, soccorre i poveri e gli infermi, bandisce feste e pubblici spettacoli. Nella sua dimora ospita parenti ed intimi amici, mentre uno stuolo di servi si aggira

alacremente per le sale del castello. La sua passeggiata suscita sempre scalpore: gli abitanti della città osservano con stupore e meraviglia il suo seguito costituito da nobiluomini, bravi, seguaci e lacchè. Come in processione, il codazzo si snoda per le vie principali: il più fiero è il Perollo che sfoggia un copricapo in velluto bordato da una ricca passamaneria e impreziosito da penne d’airone; indossa un abito in broccato di seta sontuosamente intessuto con fili d’oro, una larga catena, d’oro anch’essa, incastonata da smeraldi e rubini riluce sul suo petto, dal fianco pende una spada forbita e lucente con una guardia traforata a lamine d’argento cesellate in modo da formare preziosi arabeschi, dai corti calzoni rigonfi spiccano le calze di broccatello, ai piedi pianelle di morbido capretto infiocchettate. Il volto del barone è radioso, egli è fiero di apparire in tutto il suo splendore e si pavoneggia sottoponendosi con condiscendenza agli occhi dei popolani che lo ammirano senza riserve. Non è da meno, in quanto a magnificenza, il suo seguito: si sprecano i ricami e gli ornamenti sugli abiti dei nobili, desiderosi di mostrarsi degni di appartenere alla corte di un tal signore; gli stessi paggi destano l’invidia degli astanti: indossano un berretto di velluto nero con una piuma, la livrea è una casacca di velluto giallo con pantaloni a sbuffo, un pugnale dorato è legato in vita da un cinturino di velluto intrecciato con fili d’oro. Tra i suoi accompagnatori compaiono anche uomini di malavita e indebitati, che per non essere castigati per i loro delitti e non pagare i creditori servono Giacomo e lo seguono dappertutto.

Il popolo è devoto al Perollo, lo ammira e lo omaggia servilmente anche per le elargizioni di cui gode, frutto non solo della munificenza del Perollo quanto anche

alcuni aristocratici saccensi non sopportano la sua immane superbia e nutrono nei suoi confronti un odio viscerale dovuto ai suoi atteggiamenti boriosi e dittatoriali. A Sciacca vivono circa quaranta famiglie nobili di cui alcune si mantengono neutrali, molte sono avverse a Giacomo e poche quelle a lui devote. L’unica famiglia ad essere divisa tra i Perollo e i Luna è il casato dei Tagliavia.

Ecco che la congiura prende forma: Girolamo Peralta barone di San Giacomo, Accursio Amato barone della Bordìa, Bartolomeo Tagliavia, Cola Vasco, Erasmo Lauria, Ferrante Lucchesi e altri componenti delle famiglie aristocratiche di Sciacca, riuniti una sera in un ridotto da loro determinato, si coalizzano e incominciano a macchinare il modo di abbattere Giacomo con le sue odiate grandezze. Di comune accordo concludono che il Perollo non si deve più atterrire con le minacce ma va eliminato. Alcuni congiurati suggeriscono di fare ricorso al re Carlo V perché atterri l’alterigia del Perollo e metta fine alle sue sopraffazioni, ma altri si oppongono asserendo che il re, troppo lontano, avrebbe chiesto informazioni al viceré Pignatelli, nella cui integrità molto confidava e che questi, parzialissimo verso il Perollo, avrebbe rasserenato l’animo del regnante, rivoltando la medaglia al rovescio di quello che era, facendo passare per impostura quanto era oggetto del ricorso. L’insuccesso di un ricorso avrebbe inoltre accresciuto la boria del Perollo, il quale, reso assai più insolente, avrebbe ingrandito il fasto, aumentata l’alterigia, ingigantito il disprezzo verso i nobili, che sarebbero rimasti esposti alla sua crudele vendetta. Pertanto tutti decretano che è necessario considerare la situazione con più matura serietà per giungere poi alla vera risoluzione. Ciò stabilito, si scioglie per quella volta l’assemblea e,

strada. Appena trascorsi pochi giorni tutti quei nobili si radunano nel medesimo luogo e Accursio Amato così arringa in quel consiglio: «Questa pessima e maligna pianta di Giacomo Perollo non da altra potenza può essere divelta dal suolo di Sciacca se non da quella del conte Sigismondo Luna. Egli solo può umiliare tanta superbia e abbassare tanta alterigia. Questa è la strada che dobbiamo percorrere per giungere alla meta delle nostre brame; con questo strale potremo colpire nel segno i nostri desideri. Crollerà certamente la potenza del Perollo se sorgerà contro di lui la potenza di questo gran cavaliere. Il conte asseconderà i nostri desideri, non solo per rispetto nei confronti delle suppliche di tanti nobili, ma soprattutto perché è ancor viva in lui la memoria dei passati oltraggi, ricevuti dalla casa dei Perollo». Tale considerazione fa breccia nell’animo del nobile congresso. I congiurati sono tutti d’accordo: essi vedono in Sigismondo Luna, signore di Caltabellotta, Bivona, Sclafani, Caltavuturo e nemico ereditario dei Perollo, l’antagonista per eccellenza del Perollo e stimano dunque che la soluzione migliore sia quella di rinfocolare l’odio atavico scatenando contro il Perollo Sigismondo Luna.

Così, senza por tempo in mezzo, i nobili, caparbi e risoluti, partono dal luogo stesso in cui si sono radunati alla volta del palazzo del conte Luna nella sua solitaria Rocca di Caltabellotta, chiamata anticamente Triokala. Sigismondo invece di soggiornare nel suo castello di Sciacca preferisce vivere in quell’eremo edificato dai normanni e incastonato nella roccia della montagna. Dal monte la vista può spaziare a sud da Capobianco fino all’isola di Pantelleria, e a nord verso le valli e le vette dei monti Sicani. Il castello, articolato a varie quote in aderenza

simbiotica con la roccia della montagna, per la posizione elevata e mimetica si rivela inespugnabile.

Sigismondo Luna è un uomo di trent’anni, alto e fiero, di robusta corporatura, sanguigno e collerico; ama la solitudine e raramente si mostra in pubblico. La sua grande passione è la caccia: gli sono più cari i suoi cani che i parenti; vive circondato dai suoi animali, per lui più affidabili e fedeli di quelle bestie di uomini che lo circondano; guai a quei servi che non sono abbastanza solleciti con i suoi bracchi, grazie ai quali la sua tavola è sempre provvista di perrnici, beccacce, fagiani; sono famose nel circondario le mute dei meticci con cui il conte scorrazza tra i boschi per stanare corpulenti cinghiali, lepri e conigli.

Quando si trova di fronte i nobili saccensi, giunti a Caltabellotta in gran segreto, il conte li osserva ad uno ad uno, e si prepara ad ascoltarli con fare distaccato ed altezzoso. In cuor suo già pregusta ciò che sentirà, e un impeto di gioia selvaggia si impossessa di lui.

Per nulla intimorito dall’aria poco cordiale e dall’atteggiamento respingente del conte, ma intento solo al perseguimento dell’obiettivo comune, si stacca dal gruppo Erasmo Lauria che si accosta al conte chiedendogli il permesso di parlare. Ricevuto l’assenso da un semplice gesto del capo da parte di Sigismondo, inizia così la sua perorazione: «Illustre signore, giungiamo davanti al vostro cospetto per chiedervi di fermare il despota insolente che oscura la vostra gloriosa casata. Giacomo Perollo, il tiranno della nostra patria, il nostro carnefice, il nemico giurato della vostra casa, con quel suo fasto superbo e con la sua grande alterigia, sevizia a forza di minacce il cuore di chiunque sia, per trascinarlo come glorioso

trofeo, dietro al carro della sua ambizione. Noi saremo miseramente forzati dalla sua potenza a rendergli ossequi, ed a prestargli obbedienza, se voi, o signore, con la vostra potenza non rintuzzerete quella sua grande insolenza, e temerità. E sino a quando egli abuserà della vostra clemenza e della vostra tolleranza? E noi, quanto sopporteremo ancora le sue violenze ed ingiustizie? Egli è divenuto ormai così potente da oltraggiare persino i maggiorenti della città, ignorandone i consigli e le deliberazioni e prevaricando tutti in nome della sua smania di potere. Cosa aspettare? Che faccia fuori i suoi avversari in un sol colpo magari, e che poi si impossessi anche dei vostri domini inviando sicari per uccidervi liberandosi definitivamente dell’unico che possa tenergli testa? A voi, spetta, o conte, mettere in libertà la nostra patria, difendere i vostri concittadini, proteggere i nobili, e cancellare col sangue gli affronti subiti dalla vostra illustre famiglia. Il Perollo continua a gloriarsi nelle assemblee dei suoi aderenti delle macchie impresse dai suoi predecessori alla vostra reale stirpe: egli ancora si compiace per la morte del vostro trisavolo Artale, avvelenato da Giovanni Perollo e del vostro bisavolo Antonio assalito e sfregiato da Pietro Perollo. Vogliamo e dobbiamo fermare la sete di potere di Giacomo e umilmente chiediamo a voi, giovane, valoroso, potente signore, di frenare l’audace baldanza del barone e raddrizzare i torti da lui compiuti, liberando così Sciacca dal suo malefico giogo. Noi tutti saremo vostri compagni fedeli, pronti all’obbedienza e al sacrificio».

Un sorriso beffardo spiana per un momento i lineamenti truci del conte che si alza di scatto dal suo scranno e misurando a grandi falcate il salone fiocamente illuminato da alcune torce appese alle pareti, prorompe: «L’antica fiamma mai estinta dell’odio, della collera, del risentimento e del rancore mi divampa dentro

da tempo. Le offese subite dalla mia famiglia non le ho mai dimenticate. Attendevo da anni questa protesta di alleanza per poter vendicare i torti fatti ai miei avi e distruggere per sempre colui che tiene la città sotto il suo indegno strapotere».

Girolamo Peralta con enfasi incalza: «Signore mio, la furia alimenta l’odio e l’odio alimenta la vendetta. Finalmente avrete modo di scatenare tutta la vostra ira contro il Perollo. Finalmente giustizia sarà fatta. È giunto l’agognato momento». Adesso è impenetrabile lo sguardo del conte, egli è perso nei suoi pensieri, non vede più davanti a sé nemmeno i nobili imploranti che attendono col fiato sospeso di ricevere ordini. Il cane che gli lambisce la mano lo scuote d’improvviso e Sigismondo dopo avere gettato un ultimo sguardo verso i nobili in attesa, li licenzia bruscamente dicendo loro che presto avranno sue notizie, senza però rivelare cautamente ciò che in cuor suo ha già stabilito. Sigismondo nutre da sempre nascostamente un gran fuoco d’odio verso il Perollo; ma lo copre con la cenere della simulazione. Scorge continuamente nella grandezza di lui una tale gloria di magnificenza che, posta a confronto con la sua, vede la sua sparire come svanisce la luce delle stelle all’apparire della luce del sole. Provocato dunque il suo animo feroce alla vendetta, decide di prendere l’impresa sopra di sé. Da allora Sigismondo si circonda di uomini armati ed il suo castello comincia ad essere frequentato da facinorosi. Impegnando il conte, giovane spavaldo e pronto alle azioni più ardue, i nobili saccensi, finti adulatori, trovano il modo di vendicarsi per mano altrui del loro comune nemico.

PRIMO INCIDENTE

L’ARCIPRETE DI SCIACCA CERCA DI CALMARE SIGISMONDO PER UN AGGUATO TESO AI SUOI DA UOMINI D’ARME DEL PEROLLO

Da allora i cospiratori iniziano a radunare attorno al castello di Sigismondo uomini armati e facinorosi. Marco Lucchesi parte per Bivona con l’intento di raccogliere gente in quella terra: sta per tornare con trenta uomini di valore, tutti bene armati e provvisti di forti cavalli, per servire il Luna, ma le genti del Perollo, avendone avuto il sentore, si dispongono in agguato e vietano loro il passo. Ne segue una sanguinosa mischia nella quale vengono feriti alcuni uomini cari al conte. Sigismondo, messo al corrente di ciò, avvampa di rabbia: le vene del collo si inturgidiscono per il sangue che vi scorre impetuoso, gli occhi si iniettano di sangue, i muscoli del viso si contraggono in una smorfia quasi oscena, la pelle del viso diventa paonazza e per la forte collera, come un fiume bloccato dai detriti scavalca con potenza l’ostacolo, spalanca la bocca ed emette un urlo spaventoso. Da questo momento dichiara apertamente il suo odio e pubblicamente minaccia di estinguere la razza dei Perollo.

Giacomo ha disapprovato la spontanea bravata dei suoi sgherri e riconosce che essa è servita solo ad eccitare di più l’animo del Luna; così, sentendosi circondato da tanta ostilità, decide di consultare l’arciprete della città don Michele Salvo, il quale si reca dal Luna cercando di addolcirlo, facendogli intendere che non è il Perollo a desiderare la sua rovina ma che piuttosto sono i nobili che lo aizzano per

invidia verso Giacomo, da parte sua ben disposto a tenere con l’antico rivale buoni rapporti di amichevole stima. Sigismondo ascolta le parole serene dell’arciprete con fiero cipiglio: gli sembra impossibile che il superbo Giacomo si abbassi a mandargli un ambasciatore. La stima che ha per il degno sacerdote e la calda eloquenza di questi sembrano placare lievemente il suo impeto vendicativo; continua però a tenere sorvegliata ogni mossa del Perollo.

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