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IL CINEMA COME STRUMENTO: L'ANALISI DEL FILM STORICO

2.3 LA STORIA NEL CINEMA: IL CINEMA COME FONTE STORICA

2.4 IL CINEMA COME STRUMENTO: L'ANALISI DEL FILM STORICO

Come nota Fernaldo Di Giammatteo: «Il cinema, proprio per le sue qualità illusionistiche di ricreazione della realtà ha cercato nella storia sin dalle origini uno sbocco spettacolare diventando anche immediatamente uno strumento critico di letteratura e di interpretazione. L'ambito del cinema storico comprende un arco di possibilità che va dal kolossal al cinema militante, dalla biografia romanzata di personaggi emblematici alla ricostruzione di eventi significativi vissuti invece attraverso il punto di vista di gente comune».43 Di Giammatteo traccia una mappa

del cinema “storico”: «Per l'Italia si parte da “Cabiria” di Giovanni Pastrone del 1914; per gli USA da “The Birth of a Nation” di David W. Griffith del 1915; per l'URSS da “La corazzata Potemkin” di Ejzenstejn del 1926».44

A partire da Omero, per molti popoli la celebrazione delle loro lontane origini è nella poesia epica. Le origini della nazione americana sono recenti e proprio per questo il desiderio di avere un'epica ha trovato espressione nel cinema. «Basta fare riferimento al ricco filone di film storici americani con cui si è rappresentata la nascita di una Grande Nazione fin dai tempi del muto».45 Il primo film

importante su questo argomento è “The Birth of a Nation” di David W. Griffith del

43 F. Di Giammatteo, Dizionario universale del cinema, Roma, Editori Riuniti, 1985. 44 P. Iaccio, Cinema e storia, cit., p. 25.

1915 ma la maggior parte dell'opinione pubblica degli Stati Uniti non l'ha accettato come atto di nascita dell'epica americana, perché celebrava i bianchi degli stati del sud, rivalutando il “Ku Klux Klan”, con accenti che sfioravano il razzismo. Il western, invece, «che potremmo definire una variante del film storico americano e, allo stesso tempo, la quint'essenza di un certo spirito nazionalista che si vuol fare risalire all'epoca dei pionieri, è la migliore dimostrazione di come lo strumento cinematografico sia stato capace di imprimere, nell'immaginario di tutto il mondo, una versione addomesticata di un avvenimento storico.»46 I pionieri,

protagonisti dei western, rendevano stabile la conquista dei territori del West, da dove le truppe avevano scacciato gli indiani, introducendovi l'agricoltura e l'allevamento e costruendo ferrovie. La base di quasi tutti i film western è l'individualismo, considerato la tipica virtù dei pionieri, che non contrasta con la famiglia, perché trova linfa anche nei valori tradizionali. L'individuo è l'eroe dell'epica cinematografica, si pensi al personaggio interpretato da Gary Cooper, che, spinto dalla necessità di difendere la legge, affronta da solo i banditi in “Mezzogiorno di fuoco” del 1952.

Nei primi film Western gli indiani erano assenti o considerati soltanto come nemici, a volte invisibili, come avviene in un altro film famoso, “Ombre rosse” di John Ford del 1939, interpretato da John Wayne. Questo attore è stato protagonista di molti film Western, tra cui il “Fiume rosso” di Howard Hawks, apparso sugli schermi nel 1948, che evoca il mito della frontiera: il fiume è il limite da oltrepassare per conquistare nuovi spazi alla nazione americana, guidando mandrie in territori ostili o costruendo una nuova linea ferroviaria.

Come è avvenuto per altri popoli, anche l'epica americana ha conosciuto il tramonto. Il mito della conquista è stato sottoposto a una dura critica: gli indiani non sono più stati visti come nemici, selvaggi quasi sempre feroci, ma come un popolo dotato di una propria civiltà. Come ben nota Iaccio, negli anni Sessanta il cinema americano ha rappresentato la “questione indiana”: «come una “epopea”, una gloriosa “conquista”, una palestra di libertà e di affermazione individuale e collettiva dei valori più autentici di una giovane nazione in ascesa. Nella realtà, la soluzione del problema indiano non è stata altro che un brutale genocidio perpetrato da una società tecnologicamente più avanzata nei riguardi di popolazioni indigene, per la gran parte nomadi, originarie delle Americhe. […] Col Novecento si andava affermando il cinematografo e la conquista del West divenne uno dei principali modelli di autorappresentazione attraverso cui la società dei bianchi celebrò la propria espansione utilizzando il nuovo mezzo di comunicazione. I film sugli indiani divennero un vero e proprio genere cinematografico, tra i più spettacolari e popolari, in cui la società rappresentata era divisa tra “buoni” e “cattivi”, dove i buoni erano naturalmente i bianchi e i cattivi gli indiani».47 Iaccio continua: «La conquista del West nei territori del Nord

America nella seconda metà dell'Ottocento non è stata sostanzialmente diversa dalla conquista del Centro e del Sud America operata dagli Spagnoli, e dalle altre potenze europee, dal Cinquecento in poi. Anche questo evento fu salutato dai mezzi di comunicazione di allora come un’epopea, una grande conquista in nome della fede e della civiltà. […] Questa visione del cinema western è continuata fino agli anni Sessanta quando cominciarono ad essere prodotti i primi film che si

posero chiaramente dalla parte degli indiani. Il cambiamento di ottica di fronte a questi problemi fu favorito dalle trasformazioni volute dalle riforme kennediane in tema di rapporti razziali, all'interno della società americana, che portarono ad una più matura riflessione intorno al primato della stirpe anglosassone rispetto a tutte le altre. […] Nonostante la correzione di ottica sopravvenuta negli ultimi anni, la lunga e incontrastata rappresentazione del film Western americano ha dimostrato quanto il cinema sia importante nella diffusione di una determinata visione di un'epoca storica. Che questa diffusione corrisponda ad una fedele traduzione in immagini della realtà, è tutto un altro discorso».48

Il cinema americano, da sempre ha avuto un interesse particolare nel portare sullo schermo film riguardanti la mostruosità della schiavitù, peccato originale della nazione. Non diversa dal genocidio indiano è la guerra di Secessione americana (1861- 1865), la quale vedeva contrapposti due schieramenti: la parte dei nordisti, che si battevano par l’abolizione della schiavitù, e la parte dei sudisti (sebbene non tutti lottassero per preservare la schiavitù), che intendevano mantenerla. Negli stati del sud quella guerra ha continuato ad essere ricordata come una dolorosa ferita dagli yankees a popolazioni da cui, in fondo, secondo i sudisti, i neri non erano veramente oppressi, perché venivano trattati con benevolenza da generosi padroni. Era un’immagine del tutto falsa, che però il cinema è riuscito a diffondere, trasformandola nel mito di un Sud dove la classe dei piantatori di cotone aveva costruito una società pervasa dal sentimento dell’onore, pacifica e prospera, attaccata da un Nord dedito soltanto agli affari. Il film “Birth of a

Nation”, di Griffith, apparso nel 1915, aveva offerto una versione della guerra di

Secessione favorevole agli ideali del Sud: i nordisti erano visti come occupanti e gli schiavi neri liberati erano considerati come un corpo estraneo alla futura nazione, ma questa interpretazione era stata accolta negativamente dalla maggior parte dell’opinione pubblica. In “Via col vento” del 1939, il regista Victor Fleming propose e riuscì a far accettare, non solo al pubblico statunitense, un’immagine mitica del sud, celebrandone i valori tradizionali. Il film mostrò la grande influenza che il cinema può esercitare sull’immaginario collettivo. “Via col vento” è stato il più grande successo della storia del cinema, con il più alto numero di spettatori, grazie alla bravura degli attori (Vivien Leigh, Clark Gable e Leslie Howard) e alla capacità del regista di dare un’interpretazione melodrammatica degli avvenimenti storici. Anche negli Stati del Nord si affermò così una visione della guerra civile in cui i sudisti non erano rappresentati come schiavisti ma come patrioti che si battevano contro gli invasori. Di recente il cinema ha affrontato questa tematica da un’ottica diversa con due grandi pellicole: “Lincoln” e “12 years a slave”. “Lincoln” è un film biografico del 2012 di Steven Spielberg, basato sul libro della scrittrice Doris Kearns Goodlwin, “Team of

rivals: the political genius of Abraham Lincoln”. Il presidente, nelle fasi

conclusive della guerra di Secessione americana, affronta il problema dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d’America e riesce a fare approvare alla camera dei rappresentanti il XIII emendamento della costituzione. “12 years a slave”, film del regista Steve McQueen,del 2013 è tratto dal romanzo di John Ridley ispirato alla storia vera di Solomon Northrup, uomo libero divenuto schiavo: pellicola cruenta, intensa e sconvolgente per la violenza fisica e piscologica a cui è sottoposto il protagonista. Il film racconta l’epopea dello

schiavismo: tutto ha inizio nel 1841, Solomon si ritrova in un incubo lungo dodici anni, in cui sarà prigioniero e subirà violenze fisiche e psicologiche inaudite. Questa drammatica esperienza terminerà nel 1853, quando Solomon verrà liberato e potrà riabbracciare la sua famiglia. Per il resto del suo popolo ci vorranno invece quattro anni di guerra civile e un proclama di emancipazione di un presidente illuminato, Abraham Lincoln.

Il primo conflitto mondiale (1914- 1918), spartiacque del Novecento, per molti individui rappresentò l’evento cardine dell’esistenza. Proprio in questo periodo le proiezioni cinematografiche vedono la loro prima diffusione di massa e, con l’avvento del sonoro, il cinema consente di far conoscere i diversi aspetti della guerra. Come nota Mario Monicelli: «La Grande Guerra è stata un evento che ha certamente cambiato tragicamente la storia del mondo, anche se una certa esaltazione retorica l’ha resa a lungo un’icona culturale e artistica intoccabile. Ciò non di meno il cinema si è sempre posto anche come strumento di ricostruzione del processo storico. Così anche nei conflitti la macchina da presa ha sovente avuto la necessità, se non il compito, di rileggere gli eventi bellici, mentre lo sguardo quasi sempre finisce per essere rivolto all’aspetto umano della guerra». 49

Nicola Bultrini e Antonio Tentori nel loro libro “Il cinema della Grande Guerra” scrivono che il primo conflitto mondiale: «è stato un evento esattamente a cavallo tra due epoche e in quanto tale, in esso hanno convissuto in maniera tragica e lacerante tutti i contrasti, le frizioni tra due modi radicalmente diversi di intendere l’uomo».50 I registi cinematografici della grande America si accorsero, di avere

49 Mario Monicelli (prefazione), N. Bultrini, A. Tentori, Il cinema della Grande Guerra, Chiari

tra le mani un nuovo strumento tecnico-letterario, il cinema, capace di suscitare i sentimenti umani, molto di più di quanto avessero finora fatto la letteratura e le altre arti visive. Solo pochi registi, però, valorizzarono fin dall'inizio questa possibilità, creando opere di un certo spessore letterario. Durante il conflitto, il cinema ebbe un orientamento più che altro propagandistico, con il fine di coinvolgere emotivamente la popolazione al dramma della guerra e di inculcare tra i valori della vita quotidiana il mito dell'eroe e del valore, elementi che saranno fondamentali pure nella propaganda fascista. Il soldato-simbolo, con il suo eroismo, la sua triste vita privata fatta di addii e di grandi amori e la crudeltà della guerra rimasero difatti protagonisti dell'immaginario collettivo ancora per molti anni. I temi che maggiormente si svilupparono durante gli anni del conflitto furono orientati, più che altro, all'esaltazione della guerra e ad un certo estetismo del campo di battaglia; e ciò non soltanto in senso letterale ma anche in senso figurato: uomini con l'elmetto e donne innamorate sono spesso protagonisti di una storia privata che si intreccia in qualche modo con la guerra; e ognuno di loro ne combatte a sua volta una propria interiore, che di volta in volta può assumere i più diversi significati: ideologici, esistenziali o puramente materiali. Esiste la guerra dei patrioti, quella degli uomini che sperano di migliorare il proprio futuro dopo la pace, quella degli innamorati che attendono di poter abbracciare la propria amata. Molti di questi uomini torneranno a casa disillusi. Alla propaganda del riscatto nazionalista si affiancò la cinematografia pacifista, ne è un valido esempio “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick. Capolavoro del cinema antimilitarista, apparve nel 1957 e suscitò violente proteste per il suo carattere pacifista. In Francia venne proiettato soltanto nel 1975. Un altro film famoso sulla Grande

Guerra è “All’Ovest niente di nuovo” del regista Lewin Milestone del 1930. Mileston si ispirò a un famoso romanzo dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque, “Nulla di nuovo sul fronte occidentale”, pubblicato nel 1929, fortemente improntato al pacifismo. Nel 1959 fu proiettato un film di Mario Monicelli, “La Grande Guerra”, che ne dava una raffigurazione non retorica: i due soldati, il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e il lombardo Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), fino ad allora intenti soprattutto ad evitare i pericoli, dopo essere stati fatti prigionieri affrontavano eroicamente la morte perché umiliati, come italiani, da una frase offensiva dell’ufficiale austriaco che li interrogava. Come nota Nicola Bultrini: «La Grande Guerra è rimasta nel nostro immaginario in bianco e nero. È questa la scelta artistica dei grandi registi per rappresentarla e raccontarla».51

Uno dei film più famosi degli anni Venti è il “Dottor Mabuse” del regista Fritz Lang. Il film è diviso in due parti e Lang diede sia alla prima sia alla seconda parte un titolo molto significativo: “Un quadro dell’epoca” e “Uomini dell’epoca”. Il film costituisce realmente una testimonianza sul drammatico periodo del dopoguerra che vide la Germania colpita da una grave crisi morale, economica e sociale. Fu girato nel 1922 e l’anno seguente si verificò la terribile inflazione che distrusse i risparmi e di cui si erano già avvertite le avvisaglie, proprio nel 1922. Nel film Mabuse è rappresentato come un criminale che, grazie al suo forte potere ipnotico, può provocare un crollo in borsa e diventare ricchissimo, quasi il simbolo di una Germania in cui la ricchezza non sembra più nascere dal lavoro ma dalle speculazioni azzardate e dall’impoverimento degli

altri. Dieci anni più tardi, Lang riprese l’argomento con “Il testamento del dottor Mabuse”. Scrive Walter Laqueur, storico della repubblica di Weimar che il dottor Mabuse si trova in un manicomio berlinese diretto dal dottor Baum, che è affascinato dal grande criminale ed è in sua balia. Nella sua cella Mabuse sta scrivendo un manuale per la distruzione dell’umanità con un’ondata di atti terroristici inauditi diretti contro le linee ferroviarie, le fabbriche, il sistema monetario. In seguito Lang avrebbe detto che il film era un’allegoria di Hitler e del nazismo. La sua affermazione sembra giustificata dal fatto che, in seguito alla conquista del potere da parte di Hitler nel 1933, il regista si allontanò dalla Germania per non vivere in un regime dittatoriale. In realtà, i nazisti non attribuirono un significato ostile al film e Joseph Goebbels invitò il regista a collaborare con il governo nazista, di cui era ministro della propaganda. Fu Lang a scegliere di recarsi all’estero.

I film degli anni Trenta, oltre a rappresentare una fonte importante per la storia della vita quotidiana, forniscono un quadro completo della propaganda fascista: proprio in quegli anni si capì che potevano essere un efficacissimo strumento propagandistico sia in quelle società, come la britannica, la francese e la statunitense, dove si cercava di consolidare l’idea di democrazia, sia in quelle dove si erano affermati regimi dittatoriali, l’Italia e la Germania.

Dal 1936 al 1939 gli italiani non conobbero il reale andamento della guerra civile in Spagna. Essi, infatti, poterono soltanto disporre delle notizie che apparivano sulla stampa, attraverso la versione ufficiale del governo, o dei documentari cinematografici, anch’essi ispirati dalle direttive governative. Inoltre, nei film di

governo repubblicano spagnolo furono rappresentati in maniera fortemente negativa, mentre i ribelli di Franco erano raffigurati come eroi. La maggioranza della popolazione venne fortemente condizionata da questa rappresentazione della guerra civile spagnola, che sarebbe stata modificata profondamente soltanto dopo la caduta del fascismo. Un’importante funzione in quest’attività propagandistica ebbe il film “L’assedio dell’Alcazar”, del regista Augusto Genina, su un episodio che si prestava a una mitizzazione. Un gruppo di allievi ufficiali ribelli, seguaci del generale Franco, aveva occupato a Toledo la fortezza dell’Alcazar ed era stato assediato dalle truppe del governo repubblicano, alle quali aveva resistito per oltre due mesi. Genina girò un film in cui la distinzione tra “buoni” (i ribelli di Franco) e “cattivi” (i soldati dell’esercito governativo), era molto netta. L’eroismo ed il coraggio erano dalla parte dei falangisti, mentre i repubblicani (definiti “comunisti”, sebbene tra loro i comunisti fossero solo una minoranza) erano chiamati “assassini” e considerati capaci delle azioni più ignobili. Poiché il film era ben girato e ben recitato, ebbe un notevole impatto propagandistico: dal 1940 al 1943, quando cadde Mussolini, moltissimi italiani ebbero della guerra civile spagnola proprio l’immagine suggerita “Dall’Assedio dell’Alcazar”; essa fu cancellata solo quando, nel dopoguerra, fu doppiato e diffuso anche in Italia il film “Per chi suona la campana”, interpretato da attori famosi come Gary Cooper e Ingrid Bergman. Era stato prodotto negli stati Uniti nel 1943, ma in Italia apparve soltanto nel dopoguerra, quando fu tradotto anche il libro omonimo di Ernest Hemingway che lo aveva ispirato.52

52 R. Gubern, La guerra civile spagnola sullo schermo, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del

L’adesione di scrittori e registi ai fronti popolari diede origine a una letteratura e a una cinematografia che costituisce un importante esempio d’impegno politico degli intellettuali. Infatti, l’americano Ernest Hemingway nel suo romanzo “Per chi suona la campana” (1940), narrò alcuni episodi della guerra condotta dagli aderenti al fronte popolare spagnolo contro le truppe di Franco. L’opera dello scrittore, pur essendo un romanzo e non un libro di storia, contribuì fortemente a diffondere un’immagine della guerra civile spagnola opposta a quella che, nello stesso tempo, cercava di offrire il regime franchista.53

Durante la dittatura staliniana il cinema sovietico fu all’avanguardia per soluzioni tecniche e potenza espressiva e il suo esempio servì ai partiti comunisti degli altri paesi per sostenere che l’appoggio fornito agli artisti dal governo dell’URSS aveva impresso un forte impulso all’arte cinematografica. Ancora oggi alcuni dei film prodotti in quel periodo sono considerati dei capolavori. Dopo la caduta del regime staliniano è venuta alla luce anche una documentazione che mostra come, in realtà, la vita e l’attività dei grandi registi sia stata difficile a causa della censura, anche se non sempre essi venivano perseguitati apertamente. A questo riguardo possiamo ricordare, come particolarmente significativo, il caso di Sergej Ejzenštejn (1898- 19489 e di uno dei suoi capolavori, “Ivan il terribile” (1944). Il regista divise il film in due parti e intitolò la seconda, terminata nel 1946, “La congiura dei boiardi”. Si tratta di un’opera di carattere storico e politico insieme. Sul piano storico, tratta dello zar vissuto nel Cinquecento; su quello politico, può essere vista come una rappresentazione dell’età staliniana: la figura di Ivan IV

cine epañol, Madrid, Ediciones Rialp, 1965; Romàn Gubern, Historia del cine epañol, Madrid,

Càtedra Ediciones, 2009.

richiama fortemente quella di Stalin, mentre i boiardi ricordano i dirigenti comunisti che il dittatore fece eliminare. Per evitare che venisse considerato dagli spettatori come una raffigurazione simbolica di quegli anni e dunque come una critica a Stalin, la visione del film fu proibita dal comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica.

Qualche anno prima di “Ivan il terribile”, nel 1938, Ejzenštejn aveva girato un altro film, “Alexander Nevskj”, su un sovrano che era considerato il simbolo dell’indipendenza russa, perché nel XII secolo aveva affrontato l’invasione dei cavalieri teutonici. Quest’opera non aveva comportato problemi con la censura, perché poteva costituire uno strumento di propaganda patriottica utile in quel momento alla politica staliniana, che in quell’anno mirava a far leva proprio sul patriottismo per mobilitare il popolo russo contro il nazionalsocialismo di Hitler, in riferimento al fatto che nel XII secolo i tedeschi erano stati sconfitti. In sostanza, i capolavori dei registi sovietici hanno esercitato una notevole influenza anche in occidente, ma su un pubblico molto ristretto, formato soprattutto da

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