Sigismondo si reca nelle stanze di Giacomo e lo cerca in tutti i luoghi del castello, in ogni camera, nei nascondigli e nelle cave sotterranee. Il Perollo non si trova: è scomparso. Il Luna freme di rabbia, rimprovera aspramente i suoi soldati perché tanto si sono impegnati a saccheggiare durante la conquista del castello, da lasciarsi sfuggire il nemico dalle mani. Mentre Giacomo con il suo fidato servo, Andrea Carusello, sta per recarsi, attraverso viuzze recondite, da Luca Parisi, uno degli artiglieri della città che ha ricevuto molti benefici dal Perollo e perciò gli offre ospitalità, viene avvistato da Antonello Palermo il quale lo avvicina con faccia serena e bocca ridente, esclamando: «sia lodato Dio che vi siete salvato». Giacomo gli regala un pugno di scudi d’oro e gli risponde: «Se saprai tacere, proverai con che prodiga mano saprò ricompensare chi mi ha saputo beneficare». Il Carusello avrebbe voluto eliminare con una pugnalata lo scomodo testimone, ma Giacomo glielo impedisce in quanto non crede nell’ingratitudine del Palermo, anch’egli in più occasioni beneficato. Invece costui si reca immediatamente da Sigismondo e con fare baldanzoso esclama: «Signore, non vi adirate con i vostri soldati, ho la lepre nella tana; venite con me e la consegnerò nelle vostre mani». Così la casa del Parisi viene circondata, la porta sfondata. Giacomo vistosi perduto, si rivolge al Carusello: «mio caro, non ti far sentire. Questa gente cerca solo me e quando mi avrà tra le mani non cercherà altro». Uscito allo scoperto, Giacomo si rivolge al Lauria, capo di quella ciurmaglia, gli regala una preziosa collana, togliendosela dal collo e lo prega di condurlo vivo alla presenza del
conte. Il Loria acconsente e si sono appena incamminati quando si avvicina il trapanese Giovanni Lipari, malfattore e uomo di barbari costumi il quale gli lancia volgari ingiurie e urla: «oggi hai da pagare tutto il male che hai fatto». Il Perollo risentito e ferito nella sua reputazione così prorompe coraggiosamente: «Taci, perfido villano, taci, non intrometterti nei fatti degli uomini grandi e sappi, vile mercenario, che a Sigismondo, per avermi nelle sue mani non è bastata la sua potenza, ma ha voluto l’aiuto di un misto di più congiurati, composto di ladri e uomini di mala vita come sei tu». A questo punto tutti si lanciano su Giacomo e lo colpiscono ripetutamente con furenti stoccate e non smettono di colpirlo fino a quando non stramazza, morto, sull’orlo del pozzo di san Martino. Usano poi sul corpo tutti quegli atti di crudeltà che avrebbero fatto arrossire i più crudeli tiranni: ne strappano la carne a morsi, ne bevono il sangue. Così termina la sua vita il ventitré luglio alle ore ventidue dell’anno 1529 Giacomo Perollo, barone di Pandolfina e regio Portulano della città di Sciacca, illustre per lo splendore dei suoi antenati e per le sue gloriose azioni. Alle insolite grida di quei festanti carnefici esce il Luna e, visto il cadavere del suo peggiore nemico, raggiante di ferocia, fissando gli occhi in quelle ferite, da cui sgorgano ancora tiepidi rivi di sangue, dà chiaramente a vedere che mai ai suoi occhi si era mostrato spettacolo più gradito. Poi, atteggiato il volto ad una contegnosa severità grida: «Muoiano i nostri nemici, viva l’imperatore». È assai lieto Sigismondo per la morte di Giacomo e non avendo potuto sfogare tutto il suo odio contro di lui vivo, lo sfoga contro il suo corpo morto. Ordina dunque che gli venga portato un indomito cavallo e fatto legare alla sua coda quel cadavere straziato, lo fa trascinare per le principali strade della città, seguendolo egli stesso a cavallo, vestito di armi
bianche, insieme a tutti i nobili e al resto della sua gente. Il cadavere di Giacomo rimane per tutto il giorno seguente senza che nessuno osi avvicinarlo e dargli sepoltura: orrendo esempio dell’instabilità della fortuna umana, per cui imputridisce a terra, lacerato, imbrattato di sangue e di polvere colui che poco prima per la sua potenza e ricchezza era rispettato, ossequiato e temuto non solo in Sciacca ma in tutta la Sicilia.
Ancora oggi nei pressi del Castelvecchio alcuni sostengono di vedere il fantasma del barone, prematuramente morto, che si aggira senza pace tra le rovine, in cerca di nemici da atterrare, ululando al cielo.
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