Mentre lo zelo dell’arciprete non desiste nel cercare con ogni mezzo di stabilire tra le due potenze antagoniste una vera e ferma amicizia, un evento imprevisto turba i trattati di pace tra il Luna e il Perollo.
Una mattina di primavera, dopo aver costeggiato le riviere di Sciacca, una flotta di ventidue maestose galee si àncora nel tratto di mare antistante la città: sono le navi del famoso corsaro dei Mori Sinam Bassà detto il Giudeo, conosciuto per la sua ferocia e perché da tempo infestava le coste meridionali della Sicilia. Già nelle spiagge di Solunto la ciurmaglia ai suoi ordini ha fatto prigionieri il barone del luogo, dieci suoi gentiluomini e persone di servizio che villeggiavano con il barone. Fatta questa preda, il corsaro, giunto in vista di Sciacca, inalbera la bandiera del riscatto, sicuro di approfittarsi di un gran guadagno, essendovi in codesta città numerosa nobiltà e moltissime ricchezze. Il conte Luna, ambizioso di gloria, ammassata una gran somma di denaro, si reca a bordo della galea presieduta dal Bassà per presentare la richiesta di riscattare il barone prigioniero. Il corsaro dalla statura slanciata e dal portamento aristocratico, ha un volto fiero, solcato da rughe e coperto da una barba corta e ricciuta; ha il naso adunco e occhi nerissimi e saettanti con i quali sembra trapassare colui su cui posa lo sguardo. Il suo abbigliamento è molto curato: indossa un’elegante casacca di seta nera impreziosita di pizzi e con risvolti di pelle; i pantaloni di seta attillati sono stretti
in vita da una larga fascia color porpora. Porta un cappello di feltro a falde larghe, adorno di una lunga piuma. Sigismondo viene ricevuto in un piccolo ambiente, situato sotto il cassero, a livello della tolda, ammobiliato in modo sfarzoso: le pareti sono rivestite di seta verde trapuntata d’oro e adorne di magnifici specchi di Murano. Il pavimento è coperto da un soffice tappeto orientale, gli scaffali agli angoli, traboccano di vasellame d’oro e d’argento. Al centro spicca una tavola riccamente imbandita attorniata da poltroncine di velluto verde con borchie di metallo. Il pirata raduna il consiglio dei suoi capitani subalterni per concordare il prezzo del riscatto e pone sul tappeto la somma offerta dal conte: questa viene giudicata assai scarsa da quell’avida ciurmaglia e rifiutata, sebbene si tratti di una somma assai ragionevole. Il conte, di conseguenza, è costretto a tornare indietro, afflitto e deluso ancor più perché tutto il popolo è accorso spettatore sopra le muraglie della città, per godere la vista della generosità del conte in così gloriosa impresa. Ma la folla, vistolo tornare senza applausi e senza gloria, stupita si ammutolisce. Fra la plebaglia si sente allora un gran sussurro: alcuni sostengono che il denaro del conte non è stato sufficiente ad appagare l’ingordigia dei barbari; altri invece mormorano che il conte non deve essersi mostrato troppo generoso. Il barone Perollo, considerato che il conte non aveva tratto profitto alcuno dalla sua missione, con grandissima velocità fa caricare diverse imbarcazioni con preziosi rinfreschi come pane, vino, pollame, ortaggi, neve, abbondanza di pasta, non senza bestiame scelto e invia tutto al Bassà.
Rischiando di essere fatto prigioniero, il barone sale su una feluca superbamente addobbata e si reca a trovare il corsaro che, vedendolo arrivare, rimane
meravigliato da tanto nobile ardimento; così decide di dargli udienza pensando che egli sia un personaggio degno di riguardo.
Arrivato Giacomo, è lo stesso Bassà che si reca ad accoglierlo sulla poppa della galea. Il corsaro si rivolge al barone con espressioni di finissima gentilezza, poi, porgendogli la mano, lo conduce onorevolmente nel suo alloggio. Qui, terminati i complimenti di rito, il Perollo si mette a completa disposizione del pirata anche a nome di tutta la città, e lo prega di accettare quel poco rinfresco che, prontamente, è riuscito a mettere insieme. Inoltre, porge nelle mani di un fidato del Bassà una preziosissima borsa contenente una cospicua somma di monete d’oro da distribuire alle ciurme delle galee. Dopo questo gesto il nobile Perollo, enfaticamente, prega il Bassà di liberare il cavaliere che tiene prigioniero, giurandogli eterno obbligo. Il corsaro rimane impressionato dalla grande generosità d’animo manifestata dal Perollo; nel frattempo Giacomo, mentre attende l’arrivo dei capitani delle altre galee, continua a distribuire monete d’oro e gli uomini che lo accompagnano urlano a gran voce: «viva, viva Sinam Bassà». Il Bassà, nonostante sia un barbaro per natura, poco avvezzo al cerimoniale della civile politica, è capace di squisiti gesti di cavalleria ed essendo assai soddisfatto, non tanto per la somma di denaro offerta, quanto per la generosità d’animo del Perollo, che con spregio del pericolo si è completamente affidato a lui, senza alcun salvacondotto, decide che il Perollo è un cavaliere di alto concetto e di grandezza più che sovrana, per cui decide di concedergli, senza pretendere alcun riscatto, non solo il barone già fatto schiavo e tutti gli altri che con quello erano stati catturati, ma stabilisce anche che nei mari di Sciacca, da Capo San Marco a Capo Bianco, non avrebbe mai fatto prigioniero alcuno, né mai avrebbe recato
danno alla città; anzi se in avvenire, accidentalmente, un saccense fosse stato preso dalle sue galee, egli lo avrebbe fatto restituire in nome del merito acquisito dal Perollo. Detto ciò, il Bassà, nel separarsi dal gentiluomo, come segno di grande stima gli regala un preziosissimo anello di diamanti contornato da smeraldi e rubini, poi, licenzia i due baroni di Solunto e di Pandolfina con mille onori, facendo sparare in segno di festa l’artiglieria, i moschetti e gli archibugi. Giunto a terra il Perollo, ai mortaretti della città si aggiungono le grida di giubilo di tutto il popolo in festa per la recuperata libertà del barone di Solunto e per il coraggio dimostrato da Giacomo.