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IL CONTE LUNA ASSALTA IL CASTELLO DEL PEROLLO

Fiero per l’ottenuta vittoria, Sigimondo raduna i soldati dispersi e giunge davanti al castello. Dà ordini che a colpi di ariete la porta venga abbattuta. Gli assaliti, però, si difendono con accanimento: le scale vengono buttate giù, sugli attaccanti piovono i colpi di archibugio, le frecce, i colpi delle artiglierie; le fiamme vengono spente da una tale quantità d’acqua da formare un rivo che scende fino al mare. Con il calare della notte diminuisce la furia del combattimento, sulle torri del Castelvecchio si accendono fuochi per vigilare sui movimenti dei nemici, si contano i morti e si mettono al riparo i feriti. La mattina seguente, ai primi chiarori dell’alba, l’attacco riprende con violenza da più parti. Alcuni muratori indicano a Sigismondo un passaggio sotterraneo che porta nelle camere di Giacomo. Per tale via si lancia l’Amato seguito da alcuni compagni ma, appena arrivati alla fine del passaggio, gli si para dinanzi lo stesso Giacomo il quale gli scarica contro l’archibugio ferendoli a morte benché protetti da una robusta celata d’acciaio. Gli uomini del Luna assalgono la porta principale del castello e non appena i nemici si ammassano contro di essa, Gian Paolo Perollo, nipote di Giacomo, dà l’ordine di scaricargli addosso una petriera uccidendone parecchi, ferendone molti e spargendo il terrore; quindi, approfittando dello sgomento e dello scompiglio fra gli assalitori, con una ventina di uomini armati semina la strage fra i superstiti. Le genti di Sigismondo, scoraggiate e avvilite si ritirano. Il Luna si crede schernito e abbandonato dalla fortuna: non riesce a stare fermo

parte e disperato pensa alle sofferenze patite dalla sua gente, alle espressioni di dolore impresse nei loro volti e alla terra zuppa del loro sangue. Per non esporre ad una ulteriore carneficina i suoi soldati, arresta l’assalto e, lasciate le guardie in ogni parte del castello, convoca a consiglio i suoi amici ed i comandanti delle truppe. Impartisce l’ordine che i corpi dei nobili che sono rimasti uccisi vengano seppelliti a Bivona, i feriti curati con scrupolo e che il restante esercito si ristori con cibo e riposo. Date queste disposizioni, Sigismondo, infelice e turbato, si ritira nei suoi appartamenti ricercando un po’ di quiete, per poter risorgere più vigoroso ai danni del suo nemico.

Passato il tempo necessario a rasserenarlo dopo l’infelice riuscita dell’assalto contro il Perollo, determina d’insorgere più vigoroso: fa convocare a suono di tromba tutti i capi e i soldati al suo cospetto e con un contegno nobile e fiero li sprona ad essere sempre più agguerriti e coraggiosi. Ripreso vigore dopo le parole del conte, una voce unanime si leva da quei soldati che sono dinanzi a lui: «che muoia il comune nemico, Giacomo deve perire».

Impazienti, i soldati del Luna, attendono che venga l’ora di combattere e di assaltare nuovamente la dimora del Perollo. Accompagnati dal suono delle trombe giungono sul posto e Sigismondo divide l’esercito in quattro squadroni che da tre parti attaccano ferocemente il castello, incredibilmente difeso fino allo stremo dagli uomini che vi stanno dentro. Gli aggressori vengono valorosamente respinti attuando la difesa detta a “piombante”: grandi quantità di pietre, acqua bollente, sabbia arroventata e calce viva vengono gettate attraverso le caditoie dalla merlatura del castello.

Sigismondo, sempre più alterato ed impaziente, è intenzionato ad abbattere la torre del Cotogno, situata sopra la porta del castello; così decide di porre quattro cannoni vicino alla porta della città, chiamata di San Nicolò e da lì fa predisporre fascine, parapetti, trincee, ed altre fortificazioni per tenere al riparo gli stessi cannoni. Altri quattro pezzi di artiglieria vengono posti di fronte la porta ferrata del castello per abbattere la torre del Cotogno, difesa dal valoroso Gian Paolo Perollo e dai suoi soldati. Le torri rappresentano il maggior riparo del regio castello, specialmente quella posta a tramontana, nella quale si sono rifugiate la baronessa moglie di Giacomo, le altre consorti dei Perollo e i loro figli. Per il continuo battere dei cannoni la torre trema e inizia a sgretolarsi: vengono sparati più di duecento colpi, si sentono le grida di terrore delle donne e dei bambini che vi sono dentro. Nel castello sono rimasti vivi centoquarantaquattro soldati che, ormai spossati, combattono con minore ferocia, per le immani fatiche sostenute e per il presagio dell’imminente rovina.

La moglie di Giacomo vedendo che la situazione è divenuta altamente pericolosa e insostenibile, afflitta, implora il marito di chiedere una tregua. Appena lo vede si getta in ginocchio davanti a lui e piangendo disperatamente gli spiega quali sono le ragioni di tale richiesta: «Tu vedi, o mio Giacomo, che in questo castello le munizioni sono quasi esaurite, i difensori rimasti sono stremati dalla fatica e dalle veglie, il vitto è scarso, la fortezza non si sa per quanto tempo ancora resisterà. Dei soccorsi del viceré non si ha nessuna notizia e il popolo non si impegna a difenderti. O amato consorte, ascolta il mio consiglio, fai pace, o almeno chiedi una tregua a Sigismondo, per non esporre te stesso, e tutta la tua infelice famiglia a danni più gravi, fino ad arrivare a perdere miseramente la vita per mano del

comune nemico. Dunque Giacomo mio, non voglio arrecarti offesa parlandoti di armistizio, ma non è disonorevole salvare tante vite, le stesse che sino ora hai difeso con il sangue, con la morte dei tuoi amici e dei tuoi soldati». Giacomo ascolta con molta attenzione le efficaci parole della moglie, si sofferma a riflettere qualche minuto poi chiama parenti, amici e cavalieri per comunicare loro la decisione presa. Tutti, all’unanimità, decretano di trattare la resa e di ricercare la pace con Sigismodo, nel modo più onorevole possibile.

Il Perollo, fa innalzare sui merli della torre bandiera bianca e trascorso un pò di tempo, dinanzi al suo cospetto, si presentano per parlamentare, i nobili più vicini a Sigismondo, Michele Impugiades e Bartolomeo Tagliavia. Intrepido e fiero, Giacomo, accoglie i due ambasciatori davanti l’entrata principale del castello e li conduce alla piccola cappella privata, situata vicino le camere del signore. È considerata una delle camere più belle della fortezza, con le pareti affrescate, i vetri colorati alle finestre e una croce d’oro tempestata di pietre preziose sull’altare. Il Perollo prega i due nobili di riferire a Sigismondo di porre fine alle ostilità e di concedergli la perduta quiete, ritirando le armi e impegnando le forze in azioni più gloriose. I due araldi, dopo aver udito le suppliche di Giacomo, tornano dal conte Luna e, con tutta la loro efficacia, affinché ci fosse una ferma e sicura pace, enfatizzano l’implorazione con più energia di quella con cui si è espresso lo stesso Giacomo.

Il Luna, con un sorriso serrato tra i denti e con fare calmo, ascolta in silenzio e quando i due baroni terminano di parlare, Sigismondo si rivolge loro: «miei fedelissimi amici, riferite a Giacomo che io sono pronto a cessare la battaglia,

L’Impugiades, udita l’arrogante risposta, si rifiuta di andare a riportarla al Perollo che, di natura altera, avrebbe sfogato contro di lui gli impeti del suo sdegno. Al contrario, l’audace Bartolomeo Tagliavia, si presenta da solo al cospetto di Giacomo e gli comunica la risposta sfrontata di Sigismondo. Il Perollo, disgustato dalle parole che sente proferire dalla bocca dell’ambasciatore, dopo che egli ha concluso di blaterare, oltraggiato e inferocito, lo fa cacciare dai servi a furia di bastonate, ceffoni e scapaccioni, gridandogli dietro: «Dì a Sigismondo che questo è il mio responso!».

Terminate definitivamente le trattative per la pace, inizia la totale rovina del Perollo.

IL CONTE SIGISMONDO LUNA S’IMPADRONISCE

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