UNIVERSITA’ DI PISA
DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE
ANNO ACCADEMICO 2012 / 2013
TESI DI LAUREA MAGISTRALE
IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO
SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA - CLASSE LM-65
UN’ ANTICA STORIA DI SANGUE E DI VENDETTE
TRATTAMENTO CINEMATOGRAFICO
DELLO STORICO CASO DI SCIACCA
IL RELATORE IL CANDIDATO
Chiar.mo Professore Giulia Tagliavia
Maurizio Ambrosini
UNIVERSITA’ DI PISA
DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE
ANNO ACCATEMICO 2012/2013
TESI DI LAUREA MAGISTRALE
IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO
SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA
CLASSE LM_65
UN’ ANTICA STORIA DI SANGUE E DI VENDETTE
TRATTAMENTO CINEMATOGRAFICO
DELLO STORICO CASO DI SCIACCA
IL RELATORE IL CANDIDATO
Chiar.mo Professore Giulia Tagliavia
Maurizio Ambrosini
INDICE
PREMESSA………Pag. 5
CAPITOLO PRIMO
Il caso di Sciacca nel dibattito storiografico……….8
1.
2Il primo caso di Sciacca: gli accadimenti………..13
1.
3Il secondo caso di Sciacca: l’odio si riaccende……….20
CAPITOLO SECONDO
Cinema-storia: forme di conoscenze a confronto…………...30
2.
2Il cinema e la conoscenza storica………..31
2.
3La storia nel cinema: il cinema come fonte storica……... 41
2.
4Il cinema come strumento: L’analisi del film storico………48
TERZO CAPITOLO
Trattamento cinematografico del secondo caso di Sciacca:
i nobili di Sciacca congiurano contro Giacomo Perollo……….75
Primo incidente: l’arciprete di Sciacca cerca di calmare Sigismondo
per un agguato teso ai suoi da uomini d’arme del Perollo…………..82
IL corsaro Sinam Bassà a Sciacca: Scacco del Luna………..84
Primi scontri: Sigismondo entra segretamente a Sciacca………91
Perollo scrive al re: Viene inviato a Sciacca il capitano Statella……93
Sigismondo Luna si impadronisce di Sciacca: ha inizio la strage…...96
Il conte Luna assalta il castello del Perollo……….99
Il conte Sigismondo Luna si impadronisce del castello di Giacomo
Perollo………...104
Uccisione di Giacomo Perollo………..106
BIBLIOGRAFIA………..110
OPERE MANOSCRITTE RIGUARDANTI IL CASO DI
SCIACCA………..115
Alla mia amatissima nonna,
la mia forza e il mio sostegno,
sempre vicina in ogni traguardo della mia vita.
PREMESSA
IL CASO DI SCIACCA
Francesco Savasta, celebre studioso saccense, prima di iniziare la dolorosa storia del tragico caso di Sciacca, descrive il luogo dove esso accadde dicendo; «Molto conferisce alla cognizione di un qualche ragguardevole fatto, la notizia del luogo, ove esso è accaduto; poiché ne rischiara le circostanze, ne singolarizza le parti, e ne delucida il tutto. A ragione dunque, pria di narrare la dolorosa Storia del Caso di Sciacca, pongo in campo la descrizione della città, che è il luogo, ove egli accadde».1 Il nome della città di Sciacca soleva essere scritto con la lettera X, Xacca dunque, derivato dal saraceno Xach che vuol dire Signora e Governatrice.
Alcuni collegano il nome a Xak, forse Mercurio (per un famoso tempio a lui dedicato), o a Pomona, dea dell’abbondanza. In latino si scrisse poi Sacca, con riferimento alla sua ricchezza. Fu anche chiamata dagli antichi Therma o
Thermae, dal greco Thermon che vuol dire Bagno d’acqua calda. Al nome Sacca è
aggiunto l’appellativo di Urbs digna. Il viceré di Sicilia, nominato da Ferdinando il Cattolico, chiamò Sciacca “Urbs dignissima et fidelissima”, per la fedeltà incorrotta nei confronti dei suoi regnanti. Il territorio di Sciacca si estendeva dal fiume Platani a quello del Belici, nella zona sud-occidentale dell’isola di Sicilia, affacciato sul mar Mediterraneo. La sua storia è quella di un antichissimo municipio, centro cosmopolita nel quale convivevano Arabi, Ebrei, Cristiani,
1F. Savasta, Il Famoso Caso di Sciacca, Palermo, Ristampa dell’edizione del 1725, Arnaldo Forni
mercanti pisani e genovesi, poi catalani e veneziani. Nel 1240 Federico II di Svevia ne fece una città demaniale, con un suo magistrato comunale e la rappresentanza in parlamento. Nel 1416 re Ferdinando I dichiarò il regno di Sicilia inseparabile dall’Aragona e nell’isola fu mandato un viceré, Antonio Cardona. In tal modo cessa di esistere il regno indipendente fondato dai Normanni e la Sicilia diviene vicereame di uno stato dominatore lontano. In questi anni avrà inizio la feroce rivalità tra le famiglie Perollo e Luna che si inquadra nella formazione di consorterie allo scopo di conquistare e mantenere il dominio degli appalti, delle gabelle, dei beni comunali e delle mete frumentarie. Col nome di Caso di Sciacca è rimasto tristemente famoso nella storia di Sicilia proprio l’epilogo di una rivalità secolare tra due delle più illustri famiglie siciliane. I Perollo provenivano dalla Borgogna e risultano presenti in Sicilia al tempo di re Ruggero, ma il loro nome appare per la prima volta nei documenti della storia di Sciacca verso la fine del ‘300, nell’elenco dei cavalieri saccensi che re Martino I, il giovane, chiamava a prestare servizio feudale. Della famiglia Luna il primo che venne a Sciacca fu Artale, figlio di Don Ferdinando di Luna e di Margherita d’Aragona, sorella di re Martino I. Il conte di Luna è il protagonista dell’immortale melodramma di Verdi “Il Trovatore”, che ne ha reso il nome noto al mondo. Proprio con Artale di Luna inizia quella catena di odio che culminerà nel famoso Caso.
Nel prossimo capitolo ricostruirò lo sviluppo dei fatti storici facendo riferimento alle seguenti fonti:
1) Da un dispaccio consegnato in Palermo al vicerè Lopez Ximenes d’Urrea, 7 aprile 1459, Registro del Protonotaro, anno 1558-59;
2) Francesco Savasta, Il famoso caso di Sciacca, 1843; 3) Isidoro La lumia, I Luna e i Perollo, Saggio Storico, 1844; 4) Milo Guggino, Luna e Perollo ovvero Il Caso di Sciacca, 1845; 5) Vincenzo Mortillaro, Leggende Storiche Siciliane, 1867;
6) Calogero Di Mino, Giornale di Sicilia, 25 luglio 1929;
7) Manoscritto Q.Q. D. 90, contenuto nella Biblioteca Comunale di Palermo;
8) Ignazio Scaturro, Il Caso di Sciacca, episodio di storia siciliana, secoli
XV-XVI, 1948;
9) Giuseppe Giarrizzo, La Sicilia dal viceregno al regno, in Storia della
Sicilia, 1978;
10) Mario Ciaccio, Sciacca. Notizie storiche e documenti, 1989;
11) Luigi Lo Bue, Il Caso della città di Sciacca nella tradizione manoscritta
di anonimo, 1991;
12) Francesco Cassar, Storia di Sciacca, secoli XV-XVI, 1997.
CAPITOLO PRIMO
IL CASO DI SCIACCA
NEL DIBATTITO STORIOGRAFICO
Scrive il canonico Mario Ciaccio, erudito saccense e protagonista della storiografia municipale siciliana: «Fu questo Caso una specie di guerra cittadina, che, ripetuta due volte, sparse tanto sangue e produsse danni immensi alla patria nostra, sì che restò proverbiale in Sicilia, dicendosi in occasione di risse: «E chi fu
lu Casu di Sciacca?»; «Ficiru un Casu di Sciacca».2 La storiografia locale è stata
tradizionalmente campo esclusivo di appassionati cultori di memorie patrie che, con cura e sacrificio, hanno voluto tramandare perché non andassero disperse. Di tale storiografia si riconosce, anche da parte degli storici professionisti, la funzione e l’importanza ai fini della ricostruzione storica generale che è tanto più interessante quanto più sono tenuti in conto, nella sintesi finale, i risultati della storiografia dei singoli Comuni.
Oggi si è molto attenuato il contrasto, più o meno latente, tra gli storici professionisti, specie se accademici, e gli storici di storia locale, che si dedicano alla ricerca storica mossi principalmente dal desiderio di fare conoscere i fatti
2 M. Ciaccio, Sciacca. Notizie storiche e documenti. Sciacca, Edizioni Storiche saccensi, 1989, p.
salienti relativi al proprio Comune, senza alcuna pretesa di professionalità, non avendo altro scopo, che quello di manifestare, attraverso la loro opera, la passione, l’amore e l’attaccamento al luogo che li ha visti nascere o al quale sono, per vicende personali, particolarmente legati. Alla storiografia locale si riconosce quindi anche una funzione, per così dire propedeutica rispetto alla storiografia generale, proprio per la sua capacità di penetrare, con il particolarismo delle sue indagini, fin nelle pieghe più riposte delle vicende e delle situazioni locali, a volte molto intricate. Da secoli, il Caso, vive nelle canzoni popolari, nelle leggende, nei proverbi ed ha trovato finanche una sua dignità drammatica nel teatro. Eppure un lungo silenzio è calato su questo straordinario caso di storia siciliana (1459- 1534) tanto che Calogero Di Mino nel Giornale di Sicilia in un articolo del 25 Luglio del 1929 puntualizzava che mancava storicamente uno studio definitivo sul Caso di Sciacca, quasi a voler dimostrare il fatto che il Caso fu il tragico epilogo della lotta tra latini e catalani. Il più rilevante apporto di studio e di ricerca di fonti e documenti rimane quello fornito dagli storici dell’Ottocento: da Isidoro La Lumia e dal barone Raffaele Starrabba, all’abate Vincenzo Di Giovanni e a Mario Ciaccio.
Il merito di avere squarciato tale silenzio va attribuito ad Ignazio Scaturro che si è occupato del Caso non solo nella sua monumentale opera relativa alla storia della città di Sciacca, ma anche in un altro specifico e pregevole lavoro dal titolo: «Il Caso di Sciacca, episodio di storia siciliana, secoli XV-XVI». 3 L’insigne storico
ha riportato gli avvenimenti legati al Caso nell’alveo della storia, sgombrando così
3 I. Scaturro, Il Caso di Sciacca, episodio di storia siciliana, secoli XV-XVI, Mazara, Società Editrice
il terreno dalle interpretazioni dei tempi passati, spesso fantasiose o di parte, dai toni ampollosi, celebrativi e retorici.
Sul Caso di Sciacca Alfredo Li Vecchi nell’introduzione alla ristampa della Storia
di Sciacca dello Scaturro, ha inquadrato il Caso come uno degli episodi delle lotte
tra i signori feudali per il controllo delle città demaniali, emblematico di quel vasto fenomeno di divisione del potere locale in clientele legate al baronaggio, su cui la ricerca storica non ha ancora fatto piena chiarezza.
Interessante appare anche la riflessione storica di Giuseppe Giarrizzo secondo il quale: «L’episodio rivela con uno schematismo da manuale, il livello del contrasto città-campagna, in un’area di intenso sviluppo nel secondo ‘400, che avverte tra le prime, le conseguenze di una crisi del primo ‘500: dalla rocca di Caltabellotta i Luna pretendono il controllo economico della fertile piana di Sciacca e il controllo politico della città demaniale, saldamente nelle mani dei piccoli nobili di estrazione mercantile, che hanno esteso il loro dominio nel contado, e dei quali il Perollo è il capo naturale». 4 La riproposizione del Caso acquista una particolare
valenza per il fatto che molto rimane ancora da indagare e forse anche da scoprire sulla vicenda in sé ed anche su quegli anni così complessi e difficili di storia siciliana, nell’ambito politico, economico e sociale di un tempo tormentato. Il Caso diviene, infatti, emblematico dell’insanabile dissidio fra due nobiltà diverse: normanna e più antica l’una, catalana e recente l’altra. Tale contrasto è anche espressione di un profondo disagio spirituale derivante da incertezze e confusioni politiche rese ancora più acute dall’insorgere prepotente della mai sopita
4 G. Giarrizzo, La Sicilia dal viceregno al regno, in Storia della Sicilia, Napoli, 1978, vol. VI, pp. 15-
vocazione all’autarchia isolana, rispetto a culture o dominazioni straniere. Il Caso, dunque, nell’essenzialità della reale vicenda storica, appare l’icesberg, la punta avanzata di una situazione esplosiva e torbida quale si era andata configurando negli anni: il portato violento di una società violenta.
Molto è stato scritto sui fatti sanguinosi e violenti che funestarono per lungo tempo la città di Sciacca e che provocarono tanti lutti non soltanto per i membri delle due potenti e nobili famiglie in lotta, i Luna e i Perollo, ma anche fra le altre illustri famiglie che parteggiarono per l’una o per l’altra, e fra la popolazione inerme che assistette impotente al massacro provocato dalla lunga catena di odi e di vendette.
Isidoro La Lumia, autore di un pregevole saggio storico su questi avvenimenti narra: «…ovunque spettacoli di sangue, dovunque uomini strozzati, teste recise, corpi fatti a brani e appesi nei luoghi pubblici e negli alberi delle foreste, ovvero abbandonati alla voracità delle fiere».5
Sugli avvenimenti che si protrassero dal 1409 al 1529 ed oltre, esiste un imponente numero di pubblicazioni per la maggior parte risalenti ai secoli passati e non tutte conosciute, oltre che diversi codici manoscritti custoditi nella Biblioteca Comunale di Palermo e presso la Biblioteca centrale della Regione Siciliana, alcuni dei quali opera di testimoni oculari dei fatti narrati.
Stranamente, Tommaso Fazello, illustre storico saccense, di solito più che informato e documentato, scrive una storia della Sicilia in pieno ‘500, in età vicina ai fatti in questione, ma come nota Francesco Cassar, autore di una Storia di Sciacca: «Vede solo ciò che vuol vedere, sa quel che vuole sapere. Di
conseguenza è acritico, come possono essere solo i narratori».6 In realtà il frate
domenicano, non solo appare stranamente distratto, ma scrive dei Perollo sempre in chiave negativa. In proposito un manoscritto della Biblioteca Comunale di Palermo, contiene quattro “relazioni” tra loro coeve –prima metà del ‘600- che concordano sulla motivazione per la quale il Fazello non fa menzione di tali avvenimenti nella sua celebre opera. Si legge nella prima: «Né si ammiri niuno se il Fazello gravissimo historico delle siciliane, che scrisse minuziosamente le cose di questo regno, abbia passato questo caso in silenzio, perché D. Pietro Luna duca di Bivona, figlio di D. Sigismondo ci fece ad intendere che non gustava, che se ne scrivesse minuziosamente di più s’havveria concitato grande odio della nobiltà che era in quelli tempi grandissima e veniva tacciata di molti mancamenti.» 7
Nella seconda e nella terza si ribadisce che del Caso non fece menzione alcuna il Fazello, grande cittadino di Sciacca, per far cosa gradita a Don Sigismondo Luna e per non infamare molte casate di cavalieri che avevano avuto parte in questa ribellione. Nella quarta si legge: «[…] niuno scrittore né il Fazello in particolare che scrisse l’Historia di Sicilia per molti rispetti ne ha fatto menzione…». 8
6 F. Cassar, Storia di Sciacca, secoli XV-XVI, Sciacca, Acta Siciliae, 1997, Vol. II, p. 173. 7 Manoscritto Q.Q. D. 90, contenuto nella Biblioteca Comunale di Palermo.
1.2 IL PRIMO CASO DI SCIACCA:
GLI ACCADIMENTI
Nell’Ottobre del 1399 moriva a Sciacca, nel Castello nuovo, Nicolò Peralta, figlio di Guglielmo Peralta e di Eleonora d’Aragona. Egli aveva ereditato dal padre la signoria quasi assoluta della città e le proprietà di immensi territori. Qualche giorno prima di morire Nicolò aveva chiamato al castello il notaro Albo Triolo e gli aveva dettato il suo testamento. Lasciava eredi tre figlie: Giovanna, Margherita e Costanza e disponeva che non avrebbero potuto sposarsi senza il consenso di re Martino; dell’Infanta Eleonora d’Aragona, sua madre; del barone Cabrera; di Nino Tagliavia, barone di Castelvetrano e del cavaliere Giovanni Perollo. Appena re Martino apprese la notizia della morte del Peralta, nell’Ottobre del 1399 venne a Sciacca e si stabilì nel castello nuovo dei Peralta. Qui avendo appreso che la secondogenita di Nicolò ereditava la maggior parte dei beni paterni, per assicurarsi l’appoggio della potente famiglia, stabilì di darla in moglie a suo zio Artale di Luna. Ma uno dei tutori, il cavaliere Giovanni Perollo, amava ardentemente Margherita la quale non era insensibile a tale amore. La richiesta di matrimonio da parte di Artale non trovò l’unanime consenso del consiglio di tutela, per cui re Martino portò con sé Margherita nel palazzo reale di Palermo, dove la affidò in custodia al castellano Giacomo Ortal e chiese e ottene dal padre,
Martino il vecchio, re d’Aragona, il permesso di superare le disposizioni testamentarie di Nicolò Peraltra, grazie all’autorità regia. Così Margherita fu ricondotta a Sciacca e il 17 giugno del 1400 furono celebrate le nozze sfarzosamente, con feste solenni alla presenza dello stesso re Martino il quale «non sapea quanto splendesser funeste quelle nuziali tede».9 Quelle nozze imposte
dalla ragion di stato furono un colpo fierissimo per Giovanni Perollo: egli di antica nobiltà latina, considerava Artale di Luna, catalano, come un intruso che approfittava della parentela reale per acquistare denaro e potenza e nel vedersi portar via la donna amata il suo odio si centuplicò. Odio di stirpe e di fazione, rivalità in amore, incupirono l’animo di Artale di Luna e di Giovanni Perollo. Il padre di questi lo persuase a sposare donna Livia Squarciafico, figlia del signore di Pantelleria ed anche queste nozze vennero celebrate in Sciacca. Finché visse il vecchio genitore, Giovanni ne ebbe sempre consigli di prudenza e di moderazione ma quando egli morì, l’11 ottobre del 1409, rimasto erede universale di una grande e ricca proprietà, cominciò a trattare palesemente da nemico il Luna che, d’altra parte, non tralasciava di ricambiare insolenza con insolenza. Da Artale di Luna e Margherita Peralta nacque il piccolo Antonio, da Giovanni Perollo e Livia Squarciafico, il piccolo Pietro. Intanto, moriva il 26 luglio del 1409 Martino il giovane, e il 31 maggio del 1410 Martino il vecchio di Aragona. La morte dei due sovrani riaccese le lotte tra i grandi del regno e la stessa Sciacca «non lasciò di assaggiare le amarezze delle guerre intestine continuamente fomentate dagli odi reciproci, che si portavano l’un l’altro, il Conte Artale di Luna ed il Cavaliere
Giovanni Perollo».10 Nel maggio del 1412 nella chiesa Madre di Sciacca si
celebravano per ordine della regina Bianca le esequie anniversarie di Martino il vecchio, suo suocero, e di Martino il giovane, suo marito. Alla funzione erano intervenuti tutti i nobili di Sciacca, compresi i due contendenti che, dopo uno scambio di insolenze tra di essi e i loro aderenti, sarebbero passati alle vie di fatto se il rispetto per il pio luogo non li avesse trattenuti dal lordare di sangue la cerimonia. Poco dopo questo incidente Artale venne colto improvvisamente da atroci dolori finché in preda a violente convulsioni morì nel pomeriggio del 5 giugno 1412. Si sparse ben presto la voce che il Perollo aveva avvelenato l’acqua del rivale, vendicandosi così dell’oltraggio subìto. Perollo respinse l’accusa infamante affermando che «avrebbe voluto piuttosto incontrare la morte da cavaliere con le armi alla mano anziché commettere un assassinio così esecrando». 11 A nulla peraltro avrebbero condotto le tiepide indagini a carico del
Perollo che di lì a poco avrebbe cessato anch’egli di vivere. Nei figli dei due rivali, però, Antonio de luna e Pietro Perollo, l’odio, lungi dal placarsi, crebbe a dismisura ritenendo ciascuno dei due di avere ragioni più che valide per desiderare la morte dell’altro. Pietro Perollo fu un uomo colto e amante delle lettere, legato al famoso umanista Antonio Beccadelli detto il Panormita. Antonio De Luna, conte di Caltabellotta, nella prima giovinezza seguì re Alfonso d’ Aragona alla conquista del reame di Napoli, acquistandosi la stima del re che gli conferì diversi incarichi onorifici e creandolo Gran Contestabile del regno di
10 F. Savasta, cit., p. 153. 11 M. Ciaccio, op. cit., p. 68.
Sicilia. Durante il regno di Alfonso detto il Magnanimo, la città di Sciacca era divisa in due grandi ceti sociali: la nobiltà e il popolo, il quale, se pure contava poco, aveva comunque il suo peso nelle pubbliche faccende politiche, ed essendo i nobili divisi in due opposte fazioni, acquistava maggior potere quella parte che aveva dalla sua la classe lavoratrice. La rivalità tra le varie famiglie aristocratiche era dovuta all’ambizione di primeggiare nel governo di Sciacca, la quale, essendo unica città demaniale fra tanti comuni feudali circostanti, assumeva la notevole importanza di centro tra i più rinomati della Sicilia. In sostanza Sciacca era divisa in due fazioni che facevano capo una al Luna e l’altra al Perollo, riproducendo così, in diversa forma, le antiche lotte tra latini e catalani che avevano agitato l’isola un secolo prima. All’odio che i padri avevano trasmesso ai rispettivi figli, va aggiunta una disputa per il possesso della Baronia del feudo di S. Bartolomeo, rivendicata per sé da Antonio de Luna e che apparteneva a Pietro Perollo, avendola questi ereditata dal padre Giovanni che l’aveva comprata da Nicolò Peralta per duemila fiorini. Ma Antonio, quale figlio di Margherita Peralta, adducendo ragioni ereditarie, portò la questione davanti al re Alfonso, che nel 1444, da Napoli, dove si trovava, accolse le sue ragioni. «Perdette così Pietro, dopo cinquant’anni di legittimo possesso nella sua casa, feudo sì bello che si stende tra i comuni di Sciacca e di Menfi». 12 «Giurava Pietro Perollo che non si
resterebbe finché non avesse ammazzato il nemico; questi, reso consapevole, abbandonò Sciacca e si ritirò nel forte e munito castello di Caltabellotta; di là spediva sicari che trucidassero il Perollo». 13 «Chiuso verme di doglia intarlava il
core di Antonio de Luna e di Pietro Perollo e…l’uno e l’altro minacciavansi la vita, insidiavansi; e sitibondi di sangue non trovavano pace, divorati di rabbia, invasati di furore, e smaniosi di disfarsi l’un dell’altro con un assassinamento clamoroso».14 Le ininterrotte reciproche provocazioni culminarono in un violento
fatto di sangue nell’aprile del 1459, giorno in cui in Sciacca si celebrava la festività delle Sante Spine di Cristo. Pietro Perollo sapeva che il conte Antonio sarebbe venuto a Sciacca per partecipare alla solenne processione e decise di approfittare di quell’occasione per mandare a segno il suo piano. Il conte temeva qualche imboscata in occasione di quella solennità ed avrebbe preferito non prendervi parte, ma per non essere tacciato di viltà, interrompendo una tradizione che risaliva al suo trisavolo materno, Guglielmo Peralta, decise di partecipare ugualmente alla processione ed il Sabato, accompagnato da uno stuolo di nobili e uomini armati, da Caltabellotta scese a Sciacca, e partecipò al vespro solenne nella chiesa del Monastero grande. Il Perollo, saputo che il conte era a Sciacca con così largo accompagnamento, pensò che tramasse qualcosa contro di lui e perciò fece tenere pronti i suoi uomini, sellare i cavalli e sparse alcuni uomini armati per la città per sorvegliare le mosse del nemico. Egli rimase asserragliato in casa con i figli, i fratelli, suo zio Pietro e il cugino. Il giorno seguente, Domenica 6 aprile, tutto era pronto per la processione che richiamava a Sciacca una folla numerosa proveniente anche dai paesi vicini ed alla quale partecipavano il clero secolare e regolare, le confraternite, la milizia urbana e tutta la nobiltà. Subito dopo le sacre reliquie sfilava il conte Antonio circondato dai nobili a lui fedeli e da trenta
uomini armati di tutto punto e riccamente vestiti. Calava la sera e la processione giunse in vista del palazzo dei Perollo, parato a festa con le luminarie di innumerevoli torce e con ricchi drappi di seta e preziosi arazzi pendenti dai balconi e dalle finestre, però tutte le vetrate erano chiuse come se il palazzo fosse disabitato. Intanto il Perollo, non veduto, osservava e quando vide passare il Luna che si pavoneggiava in mezzo ai suoi seguaci che indirizzarono segni di scherno agli invisibili abitatori del palazzo, fremente di rabbia, scese a precipizio le scale e ordinando ai suoi di seguirlo, fece spalancare il portone e si precipitò con la spada sguainata contro il suo odiato nemico. Lo scontro fu violento e sanguinoso; il Perollo stesso, colpì ripetutamente Antonio, facendolo calpestare anche dai suoi soldati. Gli uomini del conte, allora, visto cadere il loro capo, si diedero alla fuga incalzati da tutte le parti.15 Padrone del campo il Perollo «traeva finalmente alla
testa di una bordaglia verso il palagio del Luna, uccideva, incendiava, metteva a soqquadro ogni cosa».16 Ma Antonio de Luna sopravvisse miracolosamente:
raccolto ancora in vita dai suoi amici, durante la notte, fu condotto in Caltabellotta dove, curato delle ferite che gli erano state inferte, ritornò ben presto in forze e in salute. Naturalmente la vendetta non tardò a giungere. Riorganizzato il suo esercito, Antonio de Luna tornò a Sciacca mettendo a ferro e a fuoco il palazzo del suo rivale e uccidendo senza pietà coloro che egli stimasse amici dell’odiato nemico. L’orrore degli avvenimenti fu tale da indurre re Alfonso a mandare in esilio i due contendenti. Antonio riparò con la famiglia a Roma; Pietro si rifugiò
15 Da un dispaccio consegnato in Palermo al vicerè Lopez Ximenes d’Urrea, 7 aprile 1459, Registro
del Protonotaro, anno 1558-59, vol. 53, pp. 165 sgg.
invece in Francia presso il signore di Perignon suo parente. Poco prima di morire, però, re Alfonso perdonò i due fuoriusciti che poterono rientrare in Sciacca nel 1458, senza avere nel frattempo dimenticato i loro rancori e i loro sdegni, anzi lasciandoli quale retaggio ai figli e ai nipoti. Aveva così termine «Il primo caso di Sciacca», ma l’odio fra le due potenti famiglie avrebbe continuato ad ardere per molti anni ancora fino a quando tornò ad esplodere con violenza, se possibile, maggiore, quando Giacomo Perollo e Sigismondo Luna si fronteggiarono per affermare definitivamente la supremazia dell’uno sull’altro, dando così vita ad uno scontro di sangue, che fu inevitabilmente, ancora una volta, scontro di potere, per l’affermazione dell’antica nobiltà siciliana ( quella dei Perollo) su quella più recente e straniera catalana (quella dei Luna). Tale divisione costituì una ragione non secondaria dei sanguinosi conflitti avvenuti alla morte dei due Martino e nella quale confluivano motivi di razza, di ambizioni politiche e passioni personali altrettanto sanguinose e durature.
1.3 IL SECONDO CASO DI SCIACCA:
L’ODIO SI RIACCENDE
«L’odio tra le due famiglie», scrive il Ciaccio, «dopo il corso di oltre un secolo, non si era peranco estinto; e nel 1529 il Caso fu rinnovato, e più atroce del primo».17 Re Alfonso aveva reintegrato i due esuli, dietro le insistenze degli
illustri amici di entrambi i rivali, purché promettessero di riappacificarsi e di vivere con vincoli di cristiana concordia. Questo indulto venne confermato da re Giovanni, suo successore. Per evitare nuovi turbamenti venne stabilita una tregua che doveva essere valida fino all’agosto del 1459, piccolo espediente per tutelare l’ordine pubblico tanto scandalosamente turbato. Così in Sciacca si ebbe la calma e, apparentemente, la pace; ma la pianta dell’odio aveva messo troppo salde radici perché potesse estinguersi. Passarono alcuni decenni durante i quali Sciacca rifiorì per i commerci che vi portavano benessere e agiatezza; si edificarono palazzi signorili; sorsero nuove chiese e si abbellirono le antiche. Fu quello il periodo di maggiore splendore della città che sul finire del 1467 ospitò il grande scultore Francesco Laurana che scolpì per don Carlo de Luna il famoso busto di Eleonora d’Aragona, sua trisavola. Nei primi anni del XVI secolo, all’inizio del regno di Carlo V, il pingue patrimonio dei Luna era in possesso di Giovanni che nel 1523 diede in moglie al suo primogenito Sigismondo la fiorentina Luisa Salviati e gli
cedette il titolo di conte di Caltabellotta. Tornando da Roma, dove si erano celebrate con grande solennità le nozze, gli sposi novelli si recarono a soggiornare nei feudi dei Luna. Sigismondo Luna aveva allora circa trent’ anni; «era di aspetto truce, di indole dura e selvatica, di animo cupo ed impenetrabile; al soggiorno nel suo castello di Sciacca preferiva la solitaria Rocca di Caltabellotta isolata fra rupi scoscese e fitte boscaglie. La solitudine di cui si compiaceva rendeva ancora più aspro il suo carattere e fomentava in lui gagliarde passioni».18 A Sciacca in quel
tempo era regio portulano Giacomo Perollo, signore di vastissimi territori, il quale per la sua carica e per antico privilegio del proprio casato, viveva nel castello vecchio che egli aveva restaurato, ingrandito e fornito di nuove artiglierie. Giacomo era stato paggio della regina Isabella, alla corte di Ferdinando il Cattolico, poi, tornato in patria, aveva rivestito la carica di portulano e quella di console dei Genovesi che erano numerosi in Sciacca per ragioni di commercio. Era uno dei principali magnati di Sicilia, aveva larga ed illustre parentela e potenti amicizie che gli assicuravano uno smisurato ascendente. «Nel suo castello teneva molti parenti e numerosa servitù e quando usciva destava stupore per il largo seguito di gentiluomini, di bravi e di seguaci. Ma più che da generosità d’animo Giacomo Perollo era spinto da ambizione di predominio e da borioso sussiego; si compiaceva della sua popolarità, dell’ascendente che aveva sui suoi consanguinei, delle potenti amicizie; sensibile alle adulazioni ed agli omaggi servili, mal nascondeva la sua contrarietà per chi, se pur non contrario, fosse verso di lui indifferente; chi osava contrariarlo incorreva nel suo disprezzo a cui seguivano
18 L. Lo Bue, Il Caso della città di Sciacca nella tradizione manoscritta di anonimo, Sciacca, Edizioni
spesso, per opera dei suoi bravi, le bastonature, le coltellate e talvolta anche le uccisioni...».19 Padrone incontrastato della città dispensava le cariche, le
confermava o le toglieva a suo piacimento; in una parola tutta l’amministrazione civica era nelle sue mani. Sciacca era allora una delle più importanti città della Sicilia: unica città regia in mezzo a tante baronie e ospitava circa quaranta famiglie nobili. Ma se la plebe allettata e pasciuta era devota al Perollo, i nobili mal sopportavano la sconfinata superbia e gli atteggiamenti dittatoriali del Perollo, pertanto congiurarono contro di lui e si recarono da Sigismondo Luna, ricordandogli che il suo trisavolo Artale era stato avvelenato da Giovanni Perollo, che il suo bisavolo Antonio era stato assalito e sfregiato da Pietro Perollo, gli additarono Giacomo come un tiranno insolente che oscurava la potenza della casa dei Luna e gli dissero che toccava a lui , giovane, valoroso e potente, frenare l’audace baldanza di Giacomo, raddrizzare i torti da lui compiuti, liberare Sciacca dal suo giogo. Il conte rispose che egli da lungo tempo notava lo strapotere del Perollo e che attendeva quella protesta per vendicare ad un tempo i torti perpetrati nei confronti della sua famiglia e schiacciare per sempre colui che teneva in soggezione l’intera città. Passò così del tempo. Una mattina di primavera del 1528 una gran folla di saccensi accorreva alla marina; nel tratto di mare antistante la città si erano ancorate ventidue galee corsare. Erano queste al comando di Sinam Bassà, giudeo rinnegato e corsaro assai temuto, famoso per la sua ferocia: cupido di guadagno egli si presentava davanti Sciacca dove sapeva dell’esistenza di ricchissimi signori ed innalzava la bandiera del riscatto. Fra la curiosità della folla, Sigismondo Luna si recò a bordo della nave corsara ed offrì una cospicua somma
per il riscatto, ma i capitani delle varie galee, riuniti a consiglio dal Bassà, ritennero l’offerta insufficiente e così Sigismondo, umiliato, tornò a terra fra i mormorii e i commenti degli spettatori. Era stata da poco ammainata la bandiera del riscatto quando alcune imbarcazioni si mossero verso le navi corsare. Una di esse, riccamente addobbata, portava il barone Giacomo Perollo, le altre erano cariche di viveri e di rinfreschi. Il corsaro, stupito dall’audacia con cui il Perollo si avvicinava alle sue navi sfidando il rischio di essere fatto prigioniero, lo accolse onorevolmente. Mentre i suoi servitori distribuivano i rinfreschi e gettavano monete alle ciurme delle varie navi, lanciando evviva al Bassà, Giacomo disse che era pronto a dare per il riscatto la somma che fosse stata richiesta, assicurando inoltre al corsaro la devozione sua e di tutta la città. Il corsaro fu così colpito da tanta sfarzosa liberalità che non solo liberò senza riscatto il barone e i suoi uomini, ma promise che mai avrebbe arrecato danno a persone di Sciacca, né avrebbe commesso rapine nel tratto compreso tra Capo Bianco e Capo San Marco; inoltre in pegno della sua amicizia, donò al Perollo un preziosissimo anello. Fra le salve delle navi corsare Giacomo tonò a riva accolto con grida di giubilo dai cittadini che, dalle mura avevano seguito la sua missione. Il Luna fremeva di dispetto per lo smacco subìto e atroci disegni di vendetta mulinavano nella sua mente: fuori di sé dalla collera giurò di bruciare nelle sue stanze il Perollo e di fare una strage tale da lasciarne perpetua memoria. Passò l’intera notte a scrivere ai suoi amici e vassalli delle terre vicine invitandoli a recarsi a Caltabellotta per un affare di somma importanza. Dopo pochi giorni si riunirono diversi nobili di Sciacca e dei dintorni aderenti ai Luna. Fu chiaro subito a tutti però che non era facilmente realizzabile il piano di Sigismondo ovvero assalire il Perollo nel suo
castello che era una vera fortezza, munita di artiglierie, e condurre questo assalto in una città regia difesa da mura bastionate e in mezzo ad un popolo devoto al Perollo. Fu deciso allora di penetrare nascostamente a Sciacca con uomini scelti, decisi e bene armati. Ma malgrado la segretezza con cui fu condotta l’impresa il Perollo ne ebbe sentore e, fatta spargere la voce di una sua malattia, non uscì più dal suo castello; inoltre visto che gli eventi sembravano precipitare e intimorito dall’audacia dei nemici, scrisse al viceré che allora si trovava a Messina, facendo presente che il Luna terrorizzava la città, senza tenere in nessun conto l’autorità regia e minacciando la sua vita. Subito il viceré inviò a Sciacca con l’ufficio di capitano d’armi, il nobile catanese Girolamo Statella, barone di Mongellino, il quale giunto in città, raccolte le testimonianze, ingiunse a Sigismondo di sciogliere le proprie masnade e gli promise pieno indulto se non avesse tardato ad obbedire. Ma Sigismondo temporeggiava in quanto non intendeva rinunziare al suo proposito; riconosceva suoi nemici il viceré e lo Statella, ma il primo era lontano ed il secondo non aveva forze temibili, mentre lui, al contrario, era circondato da molti aderenti e da numerosi uomini pronti a tutto perché desiderosi di bottino. A questo punto visto che il Luna non smetteva le ostilità, temendo il peggio, Perollo decise di inviare dal viceré il suo primogenito Federico affinché facesse conoscere la situazione di Sciacca evidenziando la pertinacia del Luna, il vilipendio dell’autorità regia, i rischi corsi dallo Statella e la necessità di urgenti soccorsi. Federico Perollo scortato da sessanta uomini d’armi a cavallo, partì per Messina, ma suo padre, con tale decisione, affrettò la propria rovina perché il Luna, visto indebolito il rivale e temendo l’arrivo di forze regie, decise di sterminarlo al più presto. In effetti, all’alba di martedì 20 luglio 1529, Sigismondo
coperto da una splendida armatura, alla testa delle sue truppe entrava in Sciacca, e la città, ancora immersa nella quiete notturna, veniva bruscamente destata dal clamore delle soldatesche, dal rullo dei tamburi, dai colpi di archibugio sparati per aria per spargere terrore e sgomento. Gli uomini del Luna, con grande strepito assalirono il palazzo che ospitava lo Statella sopraffecero la resistenza dei pochi difensori e uccisero gli scrivani, i consultori, gli algoziri e le guardie. Lo Statella , ritiratosi nella torre, salì sulla terrazza e di lì urlava chiedendo aiuto al popolo tutto in nome dell’imperatore Carlo V, ma invano: raggiunto dagli assalitori, dopo essersi valorosamente difeso, cadde trafitto nel petto e il suo cadavere fu gettato in strada assieme a quello degli altri difensori. Il palazzo fu saccheggiato, gli atti processuali e tutte le carte furono dati alle fiamme e i cadaveri furono lasciati per strada e vennero divorati dai cani perché nessuno osò dare loro sepoltura. Si dice che qualcuno pietosamente raccolse in un vaso da fiori il cervello dello Statella, schizzato fuori dal cranio e lo seppellì nella vicina chiesa di S. Cataldo. Liquidato lo Statella, Sigismondo partì alla volta del castello vecchio dove erano asserragliati i Perollo con i loro uomini. Riusciti vani i primi assalti che erano costati già parecchi morti, Sigismondo fece sospendere l’attacco, poi, dopo avere dato ordine di curare i feriti e fatti rifocillare i combattenti, ringraziò i suoi uomini per il valore dimostrato, li assicurò a non temere nulla perché il pontefice Clemente VII era zio di sua moglie e rimarcò che se i pericoli erano grandi i premi sarebbero stati grandissimi. Ripresero gli assalti e solo con il calare delle tenebre diminuì la furia del combattimento. Nel frattempo Giacomo Perollo elogiava i suoi uomini per la magnifica difesa, esortandoli a tenere duro fino all’arrivo dei soccorsi da parte del viceré. La mattina seguente, alle prime luci dell’alba le
milizie del Luna tornarono all’assalto e l’attacco riprese con violenza, ma non appena i nemici si ammassarono contro la porta principale del castello, il Perollo fece scaricare su di loro una gragnola di pietre uccidendone e ferendone molti. Le genti del Luna scoraggiate si ritirarono e Sigismondo, addolorato per la perdita di tanti suoi fedeli e pieno di rabbia per gli insuccessi, stabilì di ricorrere alle artiglierie dei bastioni della città. Otto grosse bombarde furono piazzate di fronte al castello e sotto i loro colpi iniziarono a sgretolarsi le mura della vecchia costruzione normanna. «Le donne e i bambini che in essa erano rifugiati levavano altissime grida, la torre cominciava a rovinarsi; le munizioni erano quasi esaurite, i difensori erano ridotti a 44 uomini stremati dalla fatica e dalle veglie, dei soccorsi del viceré nessun indizio; la situazione era insostenibile e pertanto Giacomo, cedendo alle preghiere della moglie, decise di trattare la resa e fece segno di voler parlamentare».20 A questa richiesta Sigismondo, esultante e
baldanzoso, rispose di essere pronto a cessare la battaglia purché il Perollo si recasse a chiedere perdono in ginocchio e si prostrasse fino a baciargli i piedi. Giacomo Perollo ascoltò indignato le parole dell’ambasciatore Bartolomeo Tagliavia e quando ebbe finito di parlare lo fece cacciare dai servi a furia di bastonate e oltraggi. Iniziò così la rovina del Perollo. Il mattino seguente le genti del Luna, rincuorate dal successo e rinfrancate dal riposo, compirono l’ultimo sforzo e penetrarono attraverso una breccia nelle scuderie del castello. Ma Giacomo riuscì a fuggire con alcuni suoi congiunti calandosi con una corda dalla finestra. A difesa delle donne e dei bambini rimase solo Gian Paolo Perollo che poco dopo chiedeva la resa. Sigismondo ordinò che si cessasse il bombardamento
e mentre le sue soldatesche saccheggiavano il castello, egli vi entrò. Al suo apparire la baronessa si gettò ai suoi piedi chiedendo pietà per i suoi figli e per le donne e i bambini. «Quell’uomo dal cuore di pietra ebbe un momento di commozione misto a cavalleresco rispetto per la supplicante. Sollevò la baronessa dicendole: "Alzatevi, signora, voi non siete rea delle colpe di Giacomo e non dovete umiliarvi. Perché Perollo con le sue offese mi ha spinto a tanto?" e poi, rimessa la spada nel fodero e levato l’elmo dal capo, le offrì il braccio e la condusse con le altre donne nel vicino monastero delle Giummare».21 Gian Paolo
Perollo che si era nascosto insieme al figlio minore di Giacomo, viste portare in salvo le donne, uscì col nipote e riuscì a fuggire nello scompiglio generale. Intanto, all’interno del castello Sigismondo non trovando Giacomo cominciò ad imprecare contro i suoi uomini accusandoli di essersi lasciati sfuggire l’odiato nemico. Al saccheggio seguì l’incendio del castello. Giacomo in fuga, mentre i suoi si disperdevano trovò rifugio presso uno degli artiglieri della città, un tale Luca Parisi che era stato da lui molte volte aiutato e beneficato. Ma mentre stava per entrare nella casa ospitale, fu visto da un certo Antonello Palermo a cui Giacomo diede alcune monete d’oro promettendogli che lo avrebbe ricompensato per il suo silenzio. L’involontario testimonio, invece, si recò subito da Sigismondo dicendogli di «avere il lepre nella tana». 22 Il conte, che non stava più nella pelle
dalla gioia, insieme a cento armati circondò la casa del Parisi. Su Giacomo si lanciarono furenti alcuni nobili, amici dei Luna e lo crivellarono di ferite finché
21 L. Lo Bue, cit., p. 234. 22L. Lo Bue, cit., p. 239.
non si abbatté al suolo ormai privo di vita. Sul cadavere vennero perpetrate sevizie inaudite; alcuni ne bevvero il sangue, altri ne strapparono le carni a morsi. Poi Sigismondo ordinò che il corpo del suo rivale venisse legato alla coda di un cavallo e che venisse trascinato per le vie della città. Così fu fatto e al seguito del cadavere procedeva il conte, ornato da una splendida armatura, a capo scoperto e brandendo la spada sguainata. La gente si affacciava alle finestre e per le vie facevano ala i cittadini spaventati e silenziosi anche se a tratti la pietà aveva il sopravvento sul terrore e si potevano sentire i singhiozzi dei popolani che erano stati beneficati da Giacomo, mentre le donne levavano grida di dolore e si strappavano i capelli invocando il Perollo padre della patria e benefattore dei poveri. Calata la sera, il corpo massacrato di Giacomo fu lasciato ad imputridire per terra senza che nessuno osasse dargli sepoltura. Furono i Padri di San Francesco, uniti ai Carmelitani e ad altri religiosi che si gettarono ai piedi del Luna implorandolo di ricordarsi di essere cristiano e di mostrarsi pietoso e caritatevole nei confronti del nemico morto. Sigismondo si lasciò convincere ponendo però come condizione che si seppellisse il cadavere senza alcuna pompa e senza suono di campane. Intanto in Sciacca regnava la più spaventosa anarchia: non si amministrava la giustizia, erano chiusi i negozi e le botteghe, era sospeso ogni commercio e per le vie deserte l’unico segno di vita erano gli schiamazzi delle truppe del Luna che celebravano la vittoria. «La chiesa Madre, dove alloggiavano le masnade di Sigismondo, era divenuta luogo di orge e di crapule e sotto le sue volte risuonavano le canzoni oscene che accompagnavano le gozzoviglie».23 Intanto a Messina erano giunte notizie di quanto era avvenuto a
Sciacca. Il viceré Pignatelli, costernato per la morte del capitano Statella e del suo amico Perollo, inviò truppe regie nella città e decretò nei confronti del Luna la condanna a morte e la confisca dei beni. Sigismondo fuggì a Roma dove corse a prosternarsi ai piedi del pontefice Clemente VII, zio della moglie, chiedendo
l’assoluzione delle sue colpe e l’intercessione presso l’imperatore Carlo V. Il 22 luglio del 1530 nella basilica di S. Petronio a Bologna, Carlo V veniva
incoronato imperatore. Proprio in quell’occasione il pontefice chiese la grazia per Sigismondo ma l’imperatore la negò. Roso dai rimorsi e atterrito dal diniego della grazia da parte del sovrano, Sigismondo si suicidò gettandosi nel Tevere. Il vecchio conte Giovanni de Luna fu citato in giudizio dalla baronessa Perollo in nome proprio e dei figli; ne riportò una condanna per complicità e l’obbligo di risarcire i danni. La città di Sciacca rimase impoverita, i suoi migliori edifici restarono distrutti, la nobiltà superstite emigrò a Palermo, la popolazione si ridusse a meno della metà e il suo nome rimase macchiato da quella orrenda lotta
civile.
CAPITOLO SECONDO
CINEMA - STORIA:
FORME DI CONOSCENZA A CONFRONTO
Conosciuto come “settima arte”, il cinema, forma d'espressione autonoma e complessa, è di certo l'arte più rappresentativa del XX secolo. Le opere cinematografiche fanno parte della vita di tutti i giorni in quanto rientrano nell'esperienza comune di ognuno di noi. Parlare dell'ultimo film visto, confrontare le impressioni ed esprimere giudizi è ciò che facciamo quotidianamente. Il senso di familiarità che proviamo nei confronti del cinema, è dovuto alla sua capacità di comunicare idee, sentimenti, emozioni, in maniera diretta e immediata, con un linguaggio che tutti sappiamo comprendere, con il quale tutti abbiamo confidenza. A ciò è da aggiungere che i film, possono essere intesi come forme particolari di testi e di fonti storiche. Infatti, il cinema, si caratterizza per la sua grande e particolare eterogeneità, visto che, in un'opera cinematografica si possono riconoscere «squarci» di altre arti: pittura, musica, letteratura, teatro.
Nel secondo capitolo tratterò il rapporto che lega due attività solo apparentemente lontane, come il «fare cinema» e il «fare storia».
2.2 IL CINEMA E LA CONOSCENZA STORICA
«
La lente del cinema ti rivela le singole cellule del tessuto vitale, ti fa
nuovamente sentire la materia e la sostanza della vita concreta. Essa ti
mostra cosa fa la tua mano che tu non osservi e non noti affatto,
mentre accarezza o colpisce.
Tu vivi in lei senza vederla.
Ti palesa l’intimo volto di tutti i tuoi gesti vitali
nei quali appare la tua anima e tu non la conosci.
La lente dell’apparecchio cinematografico ti mostrerà sulla parete
l’ombra con la quale vivi senza notarla e ti racconterà l’avventura e il
destino
del
sigaro
nella
tua
mano
ignara
e la segreta, perché inosservata, vita di tutte le cose che ti sono
compagne nella vita».
24Bela Balàzs
“Der sichtbare mensch”, testo molto incisivo dello scrittore ungherese Balázs, costituisce uno dei primi tentativi di sviluppare una teoria del cinema. Ciò che emerge dalle parole dell'autore non è solo l'importanza di un dispositivo che ci consente di riappropriarci dello sguardo, ma è anche l'esplicitazione del ruolo fondamentale del cinema: il saper cogliere le molteplici atmosfere emotive che attraversano la realtà per poi rappresentarle sullo schermo.
24B. Belázs, Der sichtbare mensch oder die kultur des films, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 2001,
Andrè Bazin, uno dei più grandi teorici del cinema, sostiene che: «il cinema è il completamento temporale dell’oggettività fotografica».25 Secondo Bazin la
caratteristica principale della fotografia, antenata del cinema, è la sua oggettività: l'immagine fotografica, infatti, è l'unico metodo di riproduzione della realtà che non ha bisogno dell'intervento creativo dell'uomo. A differenza delle opere di pittura e di scultura, l'immagine fotografica nasce e si forma con un semplice “clic”. L'uomo può modificare la realtà da fotografare, può scegliere l'obbiettivo e la posizione della macchina fotografica, ma non può intervenire nel processo di creazione fisica dell'immagine: nel caso della fotografia questo processo spetta alle leggi meccaniche e chimiche su cui si basa il funzionamento dell'apparecchiatura fotografica.
All'oggettività della fotografia comunque, sempre secondo Bazin, mancava qualcosa, cioè la dimensione del tempo e del movimento. L’ invenzione del cinema ha finalmente sopperito a questa mancanza: con l'immagine cinematografica, dotata di durata e movimento, l'oggettività fotografica è divenuta finalmente completa. E così il cinema si è rivelato lo strumento più adatto, anzi l'unico strumento veramente adatto alla conservazione del passato.
Condivisibile o meno che sia tale concezione del cinema, è indubbio che una caratteristica comune al cinema e alla fotografia è quella di rispondere ad una particolare esigenza: registrare la realtà, ma registrarla nella forma più immediata e diretta, in modo che sia più “aderente” ai fatti, dal momento che è la realtà stessa che si imprime “spontaneamente” sulla pellicola.
Con la nascita del cinema sembra quasi che si siano realizzati pienamente quei principi che secondo gli antichi Greci dovevano guidare l'attività dello storico. Gli storici Greci scrivevano preferibilmente del presente, perché soltanto così potevano garantire alle loro opere autopsia e acribia.26 L'aver visto con i propri
occhi (autopsia) e l'aderenza del racconto al reale (acribia) erano le qualità necessarie di un'opera storica attendibile. Uno storico doveva parlare dei fatti di cui era stato testimone oculare o di cui era venuto a conoscenza attraverso testimonianze dirette; in secondo luogo doveva narrare i fatti con assoluta precisione, in modo tale da rendere il racconto il più possibile conforme agli eventi. E allora potremmo chiederci: quale altro strumento, a disposizione dell'uomo, può offrire una testimonianza tanto diretta quanto quella che permette l'obbiettivo cinematografico, che è in grado di registrare gli eventi nel loro accadere? E dove si può trovare un'aderenza ai fatti più minuziosa di quella della pellicola, che è stata impressionata, scritta direttamente dalla realtà?
Il cinema e la conoscenza storica sembrano dunque avere in comune alcuni principi fondamentali, come l'osservazione della realtà e la registrazione dei fatti. Non a caso la parola greca historìa deriva da una radice indoeuropea che è la stessa di “vedere”, verbo che ha molto a che fare con il cinema.
É in questo senso che cinema e storia si rivelano due forme di conoscenza che possiedono una certa identità di fini. Il cinema può essere, a ragione, considerato come strumento di conoscenza storica ed è in tal senso che diventa strumento che si pone al servizio della storia stessa.
Storici e sociologi hanno indagato il rapporto tra cinema e storia attraverso lo studio delle rappresentazioni del mondo offerte dai film e ciò che ne risulta è la profonda convinzione che i testi audiovisivi costituiscano un osservatorio privilegiato sulle dinamiche della realtà storica e sociale.
Secondo Francesco Casetti, gli studi sulla rappresentazione cinematografica del sociale attribuiscono al cinema un duplice ruolo: «Da un lato si sottolinea la capacità del mezzo di riflettere i comportamenti e gli orientamenti di una società: lo si considera un prezioso testimone dei modi di agire e di pensare presenti in una comunità; lo si pensa come uno specchio (magari idealizzato, o magari deformato, ma non per questo meno fedele) dei gesti, delle abitudini, delle aspirazioni, delle credenze e dei valori che danno corpo a una cultura. Dall’altro si sottolinea la capacità del cinema di intervenire sui processi sociali, se ne evidenzia la possibilità di rafforzare o rompere convinzioni diffuse, di fornire modelli a cui ispirarsi, di far emergere aspirazioni represse, di aggregare individui con i medesimi gusti o opinioni, di alimentare mode, di fornire occasioni di lavoro, di creare gruppi professionali compatti; se ne mette in luce insomma la funzione di agente sociale».27
Il cinema può farsi strumento di conoscenza storica secondo diverse modalità. Prendendo spunto dalle riflessioni dello studioso francese Marc Ferro, possiamo individuare almeno tre di queste modalità: cinema come fonte storica, come discorso storico, come strumento di didattica della storia.28
27 F. Casetti, teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, p. 319. 28 M.Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano, Feltrinelli, 1980.
Secondo la tradizionale classificazione del materiale di cui si serve lo storico viene identificato come fonte tutto ciò da cui è possibile trarre delle informazioni sul passato. Per questo i documenti, le fonti a cui lo storico può attingere sono molteplici. Ci sono ovviamente fonti scritte (lettere, diari, cronache, opere storiografiche), fonti orali (i racconti di chi è stato testimone di certi fatti), fonti che appartengono alla cultura materiale (gli attrezzi di lavoro, i manufatti, i resti del cibo o degli abiti, le abitazioni), fonti visive (le carte geografiche, i quadri, le fotografie). Anche i film possono rientrare in questa categoria: una qualunque ripresa cinematografica o televisiva può essere considerata dallo storico una fonte preziosa per conoscere e studiare il passato. Matuszewski, cineasta polacco, in un opuscolo pubblicato nel 1898 sollevò il problema dell'archiviazione dei film e del loro possibile uso come documenti storici in quanto considerava i film come: «documenti assoluti ossia riproduttori del reale capaci quindi di documentare e preservare il passato basandosi soprattutto sull’oggettività della macchina».29
Riguardo a ciò, gli storici apparivano molto diffidenti perché sottovalutavano l'importanza del cinema come fonte o come documento ed infatti solo negli anni trenta si riuscì teoricamente ad imporre il cinema come fonte attendibile alla pari delle altre, merito degli storici Febvre e Bloch.
Ginzburg riporta una frase di Lucien Febvre che diventò famosa: «gli storici non usano solo fonti scritte, ma anche fonti figurate, erbacce, eclissi di luna, arnesi
agricoli, ecc., e perché non anche il cinematografo?».30 Quindi le riprese
cinematografiche o anche quelle televisive possono essere considerate dallo storico una fonte preziosa per conoscere e studiare il passato. Allo stesso modo di qualsiasi altra opera di ricerca o di riflessione storica, anche un film può presentarsi come una forma di discorso sul passato, può essere considerato un tentativo di ricostruire la storia secondo un certo punto di vista, una certa ideologia, un certo metodo. Un documentario come “Notte e nebbia” di Alain Resnais (che attesta quel che restava dei campi di sterminio nel 1955), ma anche un film narrativo come “Schindler's List”, (che fornisce informazioni piuttosto dettagliate su una vicenda realmente accaduta), possono essere considerati fonti storiche.
Allo stesso modo di qualsiasi altra opera di ricerca o di riflessione storica, anche un film può presentarsi come una forma di discorso sul passato, può essere considerato un tentativo di ricostruire la storia secondo un certo punto di vista, una certa ideologia, un certo metodo. Tra i vari film che si propongono come “letture” o “interpretazioni” di un certo episodio o di un certo periodo storico possiamo citare “Il ritorno di Martin Guerre” di Daniel Vigne, grande affresco della Francia del Cinquecento, in cui viene messo in scena un episodio di cronaca che ha alle spalle una lunghissima tradizione di studi, (iniziò ad occuparsene Michel de Montaigne, fino ad arrivare a Leonardo Sciascia). Anche “Terra e libertà” di Ken Loach si presenta come un'opera di storiografia contemporanea nel momento in cui dà un'interpretazione particolare della guerra di Spagna (gli
30 C. Ginzburg, Di tutti i doni che porto a Kaisàre... Leggere il film, scrivere la storia, in (a cura di
) S. Pivato, Storie e storia, quaderno monografico dell'istituto storico della resistenza e della liberazione del circondario di Rimini, a. V, Aprile, 1983, p. 4.
stalinisti come responsabili della sconfitta della repubblica): si tratta di una lettura che tra l'altro non ha mancato di provocare contestazioni e polemiche.31
La grande capacità del cinema di documentare la realtà del passato o di ricrearla artificialmente si rivela molto utile per dare concretezza e attualità agli eventi e ai problemi storici ed è proprio per queste sue notevoli peculiarità che il cinema può e deve avere a che fare con l'attività di insegnamento della storia nelle scuole. Purtroppo, come tristemente nota Pasquale Iaccio: «la scarsa disponibilità dimostrata dalla scuola italiana ad accogliere nei programmi ordinari l'ausilio dell'audiovisivo, per non dire del cinema, è un dato largamente accertato quanto difficilmente spiegabile. Sebbene viviamo sommersi da immagini, nei programmi scolastici non si è verificata fino ad oggi una organica introduzione di strumenti, fonti, metodologie che aiutino gli studenti a “leggere” e a decodificare il flusso di immagini che li investono quotidianamente. […] Evidentemente i responsabili del ministero della pubblica istruzione non hanno mai ritenuto che il linguaggio degli audiovisivi richiedesse un'attività preparatoria inserita nella normale didattica al pari della lingua italiana o di qualsiasi altra disciplina che si insegna agli alunni. Una considerazione del genere si potrebbe fare anche per l'università che, al di fuori dell'ambito degli insegnamenti di storia del cinema e delle discipline che riguardano le comunicazioni o il teatro, non ritiene di doversi servire dello strumento cinematografico. E pensare che già dagli anni sessanta e settanta un personaggio come Roberto Rossellini aveva teorizzato e, in gran parte, realizzato un vasto programma di educazione attraverso programmi televisivi di argomento
31 Sulla tesi proposta dal film di Ken Loach e sulle conseguenti polemiche cfr. l'ampio servizio di
storico. Ma da allora, nonostante i pregevoli risultati ottenuti sia dal punto di vista artistico sia da quello squisitamente pedagogico, né la scuola, né la stessa televisione hanno continuato sulla strada tracciata da Rossellini».32
Negli ultimi anni, sorprendentemente, vi è stato un interessamento ed un avvicinamento da parte della scuola in merito all'utilizzo dell'audiovisivo in genere. Gianfranco Miro Gori in un prezioso volumetto redatto per informare gli insegnanti sulle potenzialità educative del cinema, scrive: «Da quattro o cinque lustri, il cinema si è insinuato nella scuola italiana. E oggi, non pochi insegnanti, soprattutto di lettere, lo usano nel loro lavoro quotidiano, nella maggior parte dei casi nel campo della storia».33 Gori vuole evidenziare che: «il film storico non è la
verità, ma un'ipotesi, un punto di vista».34 Egli sottolinea la necessità di un
approccio multimediale, accostando il film ad altri documenti e cerca di elaborare un metodo che non può prescindere comunque dalla conoscenza del linguaggio filmico.
Per quanto l'utilizzo del cinema nella pratica didattica non abbia ancora sviluppato tutte le sue potenzialità, e di conseguenza non sia stato ancora studiato a sufficienza, effettivamente il decreto di riforma n. 682 del quattro novembre 1996, modifica a tutto vantaggio del Novecento la scansione dei periodi storici affrontati nei programmi scolastici, ed inoltre, porta delle modifiche anche in materia di indirizzo didattico. Le novità introdotte hanno lo scopo di valorizzare
32 P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi, immagini, testimonianze, Napoli, Liguori Editori, 2001,
pp.14- 15.
33 G. M. Gori, Insegna con il cinema. Guida al film storico, Roma, Edizioni Studium, 1993, pp.
11- 12.
l'insegnamento della storia nella scuola e di porre in luce l'elevato potenziale formativo che esso è in grado di sprigionare grazie anche all'ausilio di una filmografia ragionata. Gli insegnanti valutano personalmente quali sono le pellicole storiche che hanno un reale interesse cinematografico e didattico, in grado di soddisfare le loro esigenze metodologiche.
Adesso possiamo solo sperare che nella pratica quotidiana dei docenti il cinema appaia sempre più come uno strumento utile, a volte indispensabile, per l'insegnamento delle varie materie e per l'approfondimento di tematiche che non rientrano pienamente nell'ambito delle discipline curricolari.
La consapevolezza sempre più diffusa della dignità del cinema come forma di espressione e di comunicazione autonoma, dotata di un proprio linguaggio, di una propria storia, di una propria capacità di produrre opere d'arte nel senso più pieno del termine, porta alla considerazione del film, non più come passatempo o effimero intrattenimento, ma come possibile oggetto di analisi e di studio. La frequenza quotidiana con cui gli allievi entrano in contatto con fonti di informazioni audiovisive e multimediali (cinema, televisione, computer, ecc.) e la familiarità che i ragazzi mostrano di avere con queste forme di comunicazione, crea nuove esigenze e nuove attese nei confronti della didattica. Il cinema si rivela, quindi, una fonte di informazione caratterizzata dalla velocità e dalla capacità di trasmettere stimoli visivi e sonori che colpiscono direttamente i sentimenti e l'immaginazione. Ė davvero importante la presenza all'interno della scuola di attrezzature e supporti didattici che consentano non solo di vedere un film in un'unica proiezione di tipo ricreativo, ma anche di studiare il film da
riflettere sugli aspetti di forma e contenuto. Il fascino del film sta nel presentarsi come vera e propria “macchina del tempo”, capace di rendere visibile e concreto qualsiasi episodio, personaggio o epoca storica. Grazie al cinema e ai film di contenuto storico il passato può risultare meno estraneo ed arricchirsi di emozioni e suggestioni. Non va comunque dimenticato che il cinema offre del passato una semplice ricostruzione, una messa in scena che non può coincidere perfettamente con la realtà vera. Non si deve cadere nell'illusione di aver catturato definitivamente il passato con la magia delle immagini in movimento. La messa in scena del passato deve essere usata soprattutto per sollevare curiosità, per suscitare domande e quindi spingere verso l'approfondimento.
L'insegnante dovrebbe definire innanzitutto il problema storico che intende trattare e successivamente dovrebbe individuare il film o il gruppo di film da analizzare. Prima della visione sarà bene chiarire agli studenti l'argomento che si vuole affrontare, motivando la scelta del film con alcune informazioni preliminari sul film stesso. La visione potrebbe essere sia continuata o in certi casi potrebbe rivelarsi utile spezzarla in più momenti, per sfruttare al meglio i limitati tempi di concentrazione degli allievi. Infine vi è l'analisi del film che è forse la parte più delicata: si tratterà di far emergere tutti gli elementi degni di interesse dal punto di vista storico, mantenendo viva l'attenzione degli allievi, rendendoli partecipi in prima persona del processo conoscitivo.
2.3 LA STORIA NEL CINEMA:
IL CINEMA COME FONTE STORICA
Una prima chiave per addentrarsi nell'universo del film storico, universo vasto e variegato sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, è approfondire il discorso sul film inteso come fonte di ricerca storica. Se ormai è opinione diffusa che i film possono essere annoverati tra le fonti di ricerca storica, in realtà per lungo tempo gli storici hanno avuto nei confronti del cinema una certa diffidenza. Ciò è accaduto perché, come si è accennato, il cinema e i film sono caratterizzati da una certa ambiguità di fondo: al mezzo cinematografico sono connaturate nello stesso tempo l'oggettività fotografica e la possibilità di manipolazione della realtà. Nicola Tranfaglia, storico contemporaneo, durante un’intervista nel 1995 ha dichiarato che: «gli storici dell'età contemporanea, soprattutto in Italia, fanno fatica a rendersi conto dell'importanza delle fonti visive e, in modo specifico, di quelle che noi chiamiamo “immagini in movimento” come il cinema o la televisione. Invece, per quanto riguarda il nostro secolo, queste immagini costituiscono fonti assai preziose perché spesso trattano di avvenimenti o personaggi di cui non rimangono tracce ma solo immagini visive. In questo caso diventano addirittura fonti primarie».35 Peppino Ortoleva, che ha studiato in
maniera approfondita il rapporto tra cinema e storia, nota che: «le fonti filmiche
35 N. Tranfaglia, Storia e cinema. Un incontro troppe volte rimandato, «Cinema Sessanta»,
sono fonti ardue, sfuggenti, spesso ingannevoli; solo tenendo conto della loro peculiarità e complessità è possibile affrontarle su basi, e con filtri, sufficientemente agguerriti da fondarne solidamente l'uso e da giustificarne davvero il superamento delle diffidenze.»36
Sottolinea Iaccio: «il rapporto storia-cinema non è stato facile, almeno fino ad anni recenti. Più che di un’incomprensione reciproca, si è trattato di una sottovalutazione da parte degli storici dell'importanza del cinema come fonte o come documento. Il cinema, invece, ha ritenuto di poter rappresentare la storia, o determinati fatti storici, fin dai propri albori. Non è un caso che il primo film a soggetto prodotto in Italia prese spunto da un avvenimento storico. Si tratta de “La presa di Roma” del 1905 prodotto dalla “Manifattura Cinematografica” Alberini e Santoni.»37 Iaccio ci informa che in un bollettino dell'epoca, subito dopo il titolo
vi è la dicitura: «“Grande ricostruzione storica in sette quadri”, segno evidente che, da parte dei realizzatori del film, si attribuiva molta importanza alla “storicità” della loro produzione.»38 Seguiva un'altra scritta: «Per seguire questa
importante cinematografia si è fatto tesoro dei più minuti particolari storici, desumendoli dai giornali e dalle cronache del tempo.»39
36 P. Ortoleva, Scene dal passato, Torino, Loescher, 1995, p.5.
37 P. Iaccio, Cinema e storia. Percorsi, immagini, testimonianze, cit., p. 21. 38 Ivi.
39 Ivi. Il bollettino de La presa di Roma, è stato riprodotto nel volume curato da Massimo Cardillo,
Da Quarto a Cinecittà. Garibaldi e il Risorgimento nel cinema italiano. Materiali e documenti,
Amministrazione Provinciale di Frosinone, 1984, pp. 11- 17, e da Riccardo Redi, La Cines.