• Non ci sono risultati.

Le condizioni di applicabilità delle misure cautelari interdittive sono contemplate nell’art. 45 comma 1 del Decreto e tendono a riprendere quanto previsto nella

88 G. Fidelbo, op. cit., p. 507.

89 R. Bricchetti, Le misure cautelari, in AA. VV., La responsabilità amministrativa degli enti: d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Ipsoa, 2002, p. 274.

normativa codicistica: i gravi indizi volti a ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ente (fumus commissi delicti ), e fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa specie di quello per cui si procede (periculum in mora).

Nel sistema cautelare de societate, però, non compare la disposizione contemplata dall’art. 287 del codice di rito90 che prevede limiti di applicabilità collegati alla misura della sanzione stabilita, individuando, così, una griglia di fattispecie in relazione alle quali, ricorrendo gli altri presupposti, è consentito l’uso della misura cautelare; il Decreto 231, al contrario, non specifica quali illeciti, tra le ipotesi delittuose che stanno alla base della fattispecie complessa imputabile all’ente, ammettano l’intervento cautelare interdittivo, anche perché non tutti i reati presupposto ricompresi nel catalogo normativo comportano il ricorso alla sanzione interdittiva, ma molti vengono sanzionati o con la sola pena pecuniaria o soltanto con quelle interdittive meno gravi, e da qui, dunque, il dubbio se possa trovare applicazione una sanzione in fase cautelare che, però, l’illecito imputabile all’ente non contempla tra le sue pene previste in via definitiva, cioè se sia necessario che il titolo di reato da cui dipende l’illecito preveda l’interdizione che ci si predispone ad assumere in via cautelare.

90 L’art. 287 c.p.p. così recita: “Salvo quanto previsto da disposizioni particolari, le misure previste in questo capo possono essere applicate solo quando si procede per i delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”.

È servita, allora, una pronuncia della Suprema Corte91 per ribadire un principio che sembrava scontato; il Tribunale di Benevento, infatti, confermando in sede di appello l’ordinanza applicativa della misura cautelare dell’interdizione temporanea dall’esercizio dell’attività ad un’impresa, aveva confermato l’ammissibilità della suddetta misura rispetto a qualunque tipologia di illecito, senza badare all’astratta previsione della stessa quale sanzione definitiva del reato specificatamente contestato, ma la Cassazione ha chiarito che è assolutamente esclusa l’adozione, in via cautelare e anticipata, di sanzioni interdittive che poi non potranno essere applicate in via definitiva all’esito del giudizio di merito, in virtù dei principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità sanciti all’art. 46 del Decreto stesso.

La lettura del giudice di legittimità è senza dubbio conforme a quella fatta propria dalla dottrina per la quale è la natura stessa dell’intervento cautelare ad escludere la possibilità che la misura provvisoria possa ottenere qualcosa in più rispetto a ciò che è possibile perseguire con la sentenza definitiva92; tuttavia il vaglio circa i limiti astratti di applicabilità delle misure cautelari deve necessariamente precedere quello sulla proporzionalità che si riferisce, invece, alla “scelta di quale misura applicare, e non alla scelta del ‘se’ applicare una misura”93, a meno di ritenere che tale criterio operi non come selettore interno tra le varie misure cautelari, bensì come criterio atto ad individuare gli stessi

91 Cass., sez. II, 26 febbraio 2007, in Guida dir., 2007, n. 18, p. 82.

92 P. Moscarini, Le cautele interdittive nel procedimento penale de societate, Aracne, 2010, p. 19. 93 E. Valentini, Principio di proporzionalità e durata della cautela, in Giur. merito, 2010, p. 450.

illeciti per i quali è consentito l’esercizio del potere cautelare94.

Quindi, la conclusione incontestabile è quella di ritenere preclusa l’applicazione dell’interdizione-misura cautelare quando il titolo di reato non rientri fra quelli per cui è espressamente prevista la corrispondente figura interdittiva come sanzione; ma, allora, l’adozione delle misure interdittive si riduce alle sole fattispecie più gravi tra quelle contemplate nel Decreto 231 e questo è un altro degli aspetti che porta a nutrire dubbi sull’efficacia del sistema cautelare destinato agli enti collettivi95.

3.1. Il complicato apprezzamento dei gravi indizi di

colpevolezza.

Analizzando l’art. 273 c.p.p., rubricato ‘Condizioni generali di applicabilità delle misure’, il primo presupposto per l’utilizzo degli strumenti cautelari è costituito dalla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, un criterio che è stato traslato anche nel testo del Decreto 231 all’art. 45; per una definizione di indizi possiamo fare senz’altro affidamento alla copiosa giurisprudenza formatasi al riguardo che li definisce quali “elementi a carico di natura logica o rappresentativa la cui consistenza permette di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di nuovi elementi, saranno idonei a dimostrare la responsabilità, fondando nel frattempo

94 Così sostiene I. Abrusci, Misure cautelari e sanzioni agli enti: proporzione o rigidità normativa?, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2008, p. 735.

una qualificata probabilità di colpevolezza”96, e lo stesso concetto, peraltro, è richiamato anche dalla Relazione al decreto legislativo.

Ora, se l’applicazione di una misura cautelare presuppone una prognosi sulla responsabilità del soggetto collettivo, allora questo giudizio dovrà investire, in modo completo, tutti i diversi elementi che concorrono a fondarla, attraverso un percorso che si presenta, senza dubbio, molto più articolato e complesso di quello delle cautele personali ex codice di rito.

Innanzi tutto, il giudice dovrà stabilire e valutare il quadro indiziario di cui dispone per il reato presupposto, e solo qualora questo darà un’esito positivo allora procederà con gli ulteriori tasselli che costituiscono la responsabilità della persona giuridica; non sarà sufficiente, come ribadito dalla Cassazione in una sua pronuncia97, che sia stata emessa un’ordinanza custodiale a carico degli indagati del reato presupposto per pronunciare un provvedimento cautelare nei confronti dell’ente e motivarlo semplicemente per relationem con l’altro, ma il giudice dovrà sempre analizzare le ulteriori condizioni che dal reato base consentono di configurare la responsabilità diretta dell’ente collettivo; per cui, un’ordinanza cautelare applicativa di misure interdittive a carico della persona giuridica ben potrà rinviare al provvedimento cautelare destinato alla persona fisica per la sussistenza di gravi indizi in ordine al reato presupposto98, ma sarà affetta da nullità qualora si pretendesse di coprire

96 Cass., SS. UU., 21 aprile 1995, in Cass. pen., 1995, p. 2838.

97 Cass., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 32627, La Fiorita, in www.altalex.com. 98 Così T.E. Epidendio, op. cit., p. 398.

soltanto così l’onere motivazionale delle stessa, senza aggiungere gli altri elementi basilari per la prognosi di colpevolezza dell’ente.

Procedendo per stadi, il passaggio successivo sarà quello di vagliare se il reato presupposto sia stato realizzato da un soggetto che riveste una posizione apicale all’interno dell’ente collettivo, o una posizione subordinata, cioè valutare a quale dei due livelli organizzativi appartenga come previsto dagli artt. 6 e 7 del Decreto (aspetto fondamentale per accertare poi quale sistema probatorio si dovrà seguire); a questo punto, si dovranno esaminare i criteri oggettivi e soggettivi di imputazione del reato presupposto all’ente. Il giudice dovrà controllare se il reato presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, secondo quanto previsto all’art 5 del Decreto; tali elementi, analizzati nel capitolo precedente, devono rappresentare una potenziale o effettiva utilità, ancorchè non necessariamente di carattere patrimoniale, derivata dalla commissione del reato, e non possono mai considerarsi impliciti nel rapporto di immedesimazione organica tra autore del reato ed ente, anche quando l’imputato/persona fisica sia l’amministratore unico della società, a meno che non si riscontri la presenza di un suo interesse proprio o di terzi quale motivo dell’agire illecito, il che opererebbe, appunto, come fattore di esclusione della responsabilità della societas.

Per quanto attiene, invece, ai criteri soggettivi, come detto, il discorso muta fortemente a seconda che l’autore del reato sia un soggetto al vertice o un dipendente; nel primo caso, una volta appurato l’interesse o vantaggio dell’ente, la

responsabilità collettiva, attraverso la teoria dell’immedesimazione organica, verrà valutata positivamente dal giudice in modo automatico, e sarà la persona giuridica a dover dimostrate tutte le condizioni esimenti previste dall’art. 6 ma nel secondo caso la responsabilità dell’ente sarà configurabile nel momento in cui il giudice considererà che questa sia stata cagionata dalla violazione degli obblighi di direzione e vigilanza ex art. 7.

Questo è, dunque, il quadro abbastanza ingegnoso del sistema cautelare ex Decreto 231 che si complica ulteriormente nel momento in cui si misura con il regime di esimenti accordate all’ente collettivo; il giudice, prima di pronunciarsi in merito al provvedimento cautelare, dovrà inevitabilmente verificarne l’insussistenza, escludendo in primis che la persona fisica, presunta autrice del reato presupposto, abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, analizzando, poi, i motivi della mancata attuazione del modello di organizzazione e gestione nonché, di fronte, invece, alla sua adozione, l’assenza delle ulteriori condizioni richieste dall’art. 6 che il giudice dovrà sottoporre ad un attento esame.

Il lavoro del giudice potrebbe effettivamente complicarsi, però, laddove l’autore del reato presupposto rimanga ignoto e si proceda comunque in base al principio di autonomia sancito dall’art. 899, situazione che non impedirebbe di ricondurre il reato almeno ad una delle due aree di soggetti previsti dal sistema, anche se poi risulterà complicato

99 L’art. 8 del Decreto 231, rubricato ‘Autonomia della responsabilità dell’ente’ così recita al comma 1: “la

responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile; b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”.

stabilire il criterio oggettivo dell’interesse; qualora, invece, non si possa neanche risalire alla tipologia della persona fisica autrice del reato presupposto, la soluzione dovrebbe essere il completo rigetto della domanda cautelare per mancanza indiziaria in relazione al suddetto illecito100.

L’ultimo quesito da risolvere, allora, è quello che riguarda l’operatività o meno dell’art. 13 del Decreto anche in sede cautelare, un articolo importante perché detta le condizioni che permettono di infliggere le sanzioni interdittive, ossia il conseguimento da parte dell’ente di un profitto di rilevante entità oppure, in alternativa, la reiterazione degli illeciti; infine, con il richiamo all’art. 12 comma 1, si esclude l’applicabilità delle sanzioni medesime nei casi in cui l’autore del reato abbia commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne abbia ricavato vantaggio o ne abbia tratto uno minimo, oppure il danno patrimoniale cagionato sia di particolare tenuità.

Sia la dottrina che la giurisprudenza concordano nel ritenere che tutte quante le condizioni descritte debbano essere valutate dal giudice e rispettate anche in fase cautelare, anche se alcuni giuristi hanno teorizzato che in questo modo si venga a determinare un presupposto inedito101 perché l’intervento cautelare si riconnette ormai ad elementi della condotta dell’ente che dovrebbero essere oggetto di valutazione in sede di giudizio di merito e che, per altri, addirittura, si tratti di un presupposto autonomo da

100 G. Fidelbo, op. cit., p. 528. 101 Così F. Peroni, op. cit., p. 248.

ponderare ancor prima del fumus di responsabilità e del pericolo di reiterazione102.

Tale conclusione è il risultato del pieno parallelismo tra cautele interdittive e sanzioni definitive e del necessario principio di proporzionalità che obbligherà il giudice a tenere conto non solo dei presupposti tipici contemplati nell’art. 45, ma anche della presenza di una delle due condizioni dettate dall’art. 13 più quelle menzionate all’art. 12 comma 1 che hanno destato, oltretutto, alcuni dubbi interpretativi, in particolare per quanto riguarda la nozione di profitto rilevante103, in un percorso valutativo davvero intricato che è il frutto della combinazione tra gli elementi propri della prognosi cautelare e la struttura complessa dell’illecito de societate.

3.2. Il pericolo di reiterazione dell’illecito: unica

esigenza cautelare.

Tra le esigenze cautelari elencate dall’art. 274 c.p.p., il d. lgs. 231/2001 ne ha scelta una soltanto, creando, in questo modo, un modello cautelare monofunzionale visto che vi si decide di fronteggiare un unico periculum in mora, riferendosi, effettivamente, il testo dell’art. 45 comma 1 al solo pericolo di reiterazione dell’illecito; nel procedimento contro l’ente collettivo mancano, dunque, le prime due

102 Così A. Presutti, Artt. 45-49, in A. Presutti-A. Bernasconi-C. Fiorio, La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Cedam, 2008, p. 404.

103 La Cassazione ha precisato più volte che questo ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto valevole ai fini della confisca, rientrandovi anche vantaggi non immediati ( v. Cass., sez. VI, 19 marzo 2013, Soc. Coop CSMA, in C.e.d., n. 254841).

esigenze cautelari disciplinate dal codice di rito, e se può apparire abbastanza comprensibile l’omissione del pericolo di fuga trattandosi in questo caso di persona giuridica, nonostante alcuni studiosi abbiano prospettato una possibile assimilazione tra la fuga e quelle forme di trasformazione (come la fusione) attraverso le quali l’ente potrebbe sottrarsi al processo e che verrebbero comunque disciplinate dalle norme del decreto espressamente previste sul tema104, meno condivisibile appare, invece, la mancata previsione del rischio di pregiudizio alle indagini, sopratutto all’acquisizione della prova105, ma una simile possibilità è stata ritenuta di difficile determinazione rispetto al soggetto collettivo e, semmai, perseguibile attraverso un intervento cautelare che gravi sull’autore del reato presupposto.

Ovviamente, non potrà essere materialmente l’ente a mettere in atto condotte volte ad alterare il quadro probatorio: saranno, infatti, i soggetti che operano al suo interno a pianificarle ma, se l’impresa è indagata per la commissione di un determinato illecito e vi sia il fondato pericolo che i suoi agenti possano inquinare il sistema probatorio, in alcuni casi potrebbe essere più efficace disporre la sospensione dall’esercizio dell’attività e neutralizzare così le occasioni per realizzare i suddetti comportamenti piuttosto che agire sui singoli soggetti che fanno parte della compagine dell’ente collettivo; certamente, la sospensione dall’esercizio dell’attività potrebbe essere considerata una misura troppo afflittiva rispetto all’esigenza di prevenire il pericolo di

104 Così prevede T.E. Epidendio, op. cit., p. 416.

105 P. Balducci, Misure cautelari interdittive e strumenti riparatorio-premiali nel nuovo sistema di responsabilità “amministrativa” a carico degli enti collettivi, in Indice pen., 2002, p. 580 ss.

inquinamento delle prove, in particolare per le ricadute sulla struttura economica dell’impresa stessa, ipotesi che verrebbe scongiurata soltanto dalla nomina del commissario giudiziale, un espediente di garanzia per l’ente previsto dall’art. 45 comma 3 e che consentirebbe di realizzare la prescritta esigenza cautelare senza danneggiare la continuità economica dell’impresa.

Il dilemma resta comunque aperto su quale sia il sacrificio minore da scegliere tra quello imposto alla libertà personale del singolo e quello ai danni dell’attiva di impresa della persona giuridica; volendo paragonare la libertà dell’uomo all’esercizio della libera attività economica, l’interdizione perpetua andrebbe allora considerata come una vera e propria pena di morte per l’ente, mentre quella temporanea come una custodia cautelare ma, nonostante i due beni siano difficilmente equiparabili, si potrebbe correre il rischio di riversare sull’ente tutte le conseguenze di una situazione di illiceità che nasce, però, dalla condotta delittuosa di una persona fisica, pur di non limitare la sua libertà personale. Inoltre si potrebbe prospettare che gli operatori dell’impresa, nonostante il blocco temporaneo dell’attività, continuino ad avere la piena disponibilità di accesso ai locali in cui essa si svolge, dimostrando ancora una volta che questa misura cautelare, a meno che non venga accompagnata dal sequestro degli stabili aziendali, sarebbe davvero poco congrua a tutelare l’integrità dell’impianto probatorio e dovendo escludere, per cui, la previsione dell’esigenza cautelare del pericolo di inquinamento delle prove dal processo a carico degli enti.

L’unica esigenza prevista dal Decreto 231, come già detto, è quella del pericolo di reiterazione di reati della stessa indole concreto ed emergente da fondati e specifici elementi; l’intervento cautelare in chiave preventiva, quindi, non si giustifica sulla base della particolare gravità dei reati di cui si tende ad evitare la reiterazione, ma mira ad evitare soltanto il pericolo di fattispecie analoghe o della medesima indole di quella contestata, creando, al contrario, molte perplessità riguardo agli indici sintomatici del pericolo che nel Decreto si riferiscono a “fondati e specifici elementi” mentre nel codice di rito vengono utilizzati termini ben più precisi quali le “specifiche modalità e circostanze del fatto” e si parla, inoltre, di “personalità dell’imputato desunta da atti o comportamenti concreti e dai suoi precedenti penali”.

La norma de societate è stata subito accusata di “vaghezza precettiva”106 perché suscettibile di aumentare la discrezionalità del giudice e di generare dubbi circa il rispetto del principio di determinatezza che deve accompagnare la disciplina delle misure cautelari; tuttavia si tratta di una lacuna facilmente colmabile107 richiamando, attraverso la generale norma di rinvio ex art. 34, i parametri fondamentali presenti nell’art. 274 lett. c) c.p.p. e sostituendo, ovviamente, il criterio della personalità dell’indagato con quello della politica d’impresa.

L’analisi sull’esistenza del suddetto periculum in mora deve svilupparsi, quindi, su un duplice piano: bisogna valutare le modalità e le circostanze del fatto, quali la gravità dell’illecito e l’entità del profitto ricavato, e poi la presumibile

106 Così G. Paolozzi, op. cit., p. 149.

pericolosità della persona giuridica che verrà indirizzata allo studio della politica d’impresa attuata negli anni, agli eventuali illeciti commessi precedentemente, allo stato organizzativo dell’ente e alla sua capacità di evitare condotte illegali; così facendo, però, la prognosi di pericolosità del soggetto collettivo viene a fondarsi sugli stessi elementi esaminati già in fase di valutazione del fumus commissi delicti, elementi che poi vengono utilizzati anche ai fini della condanna a sanzione interdittiva e tale circostanza provocherebbe un vero e proprio ne bis in idem completamente sfavorevole per l’ente anche perché l’analisi del periculum finirebbe per essere assorbita da quella sulla sua probabile responsabilità.

Come per la gravità degli indizi di colpevolezza, anche per l’accertamento del periculum non si può non tenere conto della struttura variegata dell’illecito di cui si vuole impedire la reiterazione, valutando in maniera globale l’intero elenco dei parametri previsti, includendovi tanto quelli attinenti alle persone fisiche che operano in posizione qualificata nella societas, quanto quelli riguardanti la concreta organizzazione della stessa e stabilendo quali siano i fatti rilevatori della reale pericolosità dell’ente; il giudice non deve limitarsi a valutare se sussista il rischio che l’imputato del reato presupposto continui a delinquere, ma è tenuto a considerare se sussistano le condizioni perchè l’ente nella sua totalità ricada nell’illecito108.

Allora, l’avvenuta estromissione degli organi di vertice coinvolti nel reato rappresenta un sintomo positivo del fatto

che l’ente inizia a muoversi dentro i confini della legalità, anche se dovrà trattarsi di un piano di modifica effettivo e non apparente e che riveli una cesura netta tra il vecchio e il nuovo gruppo dirigente; la giurisprudenza di legittimità si è espressa diverse volte109 sull’argomento e ha continuamente ribadito che non vi dovrà essere più nessuna contiguità con i precedenti soggetti imputati del reato presupposto e che, una volta destituiti, non dovranno più ricoprire incarichi di alcun tipo all’interno della compagine societaria.

Anche restituire il profitto110 conseguito alla consumazione del reato può essere valutato positivamente per l’esclusione del pericolo di reiterazione, ma il mezzo più sicuro per sfuggire ad una prognosi di pericolosità è, senz’altro, quello di adottare un modello organizzativo idoneo a prevenire i reati; se i modelli, dunque, sono i migliori antidoti all’accertamento del periculum e l’ente deve dimostrare l’avvenuta adozione dello stesso ex art. 6 del Decreto, non sarà l’accusa a dover provare il pericolo di reiterazione, quanto la difesa a doverne sconfessare la presenza, anche perché la stessa giurisprudenza è stata spesso concorde nel ritenere che se c’è l’illecito, allora vuol dire che il modello non ha funzionato come doveva111.

Per bloccare questa sorta di automatismo, l’ente collettivo non potrà far altro che dimostrare di essersi dotato di un efficace modello prima o immediatamente dopo la