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sufficiente ad escludere anche le possibili condotte delittuose di chi si ritiene abbia già agito e potrebbe nuovamente agire per conto della persona giuridica186.

Una suddetta misura nei confronti dell’imputato potrebbe giustificarsi soltanto nel caso in cui vengano presi in considerazione dalla domanda cautelare reati sempre inerenti all’ambito di interesse dell’ente, ma riconducibili a settori aziendali non presi in considerazione dalla misura interdittiva a suo carico187; per cui, in questa situazione, la decisione migliore va sempre ponderata sulla base delle circostanze del caso concreto.

6. Le vicende successive all’applicazione della

misura cautelare.

Tra le vicende evolutive delle misure cautelari applicabili agli enti che, proprio come quelle disciplinate nel codice di rito, non si sottraggono all’esigenza dei “vagli ripetuti”188, analizziamo per prime le figure tipiche quali la revoca, la sostituzione e l’estinzione.

Le ipotesi di revoca e sostituzione, basandosi sulla stessa impostazione del codice di rito, vengono previste da

186 M. Ceresa-Gastaldo, Il “processo alle società” […], op. cit., pp. 43 ss. 187 G. Fidelbo, Le misure cautelari, op. cit., p. 529.

un’unica norma espressa dall’art. 50 del Decreto, per cui la revoca può derivare da due diverse situazioni; la prima si verifica quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità, mentre la seconda esige che siano state riparate le conseguenze del reato sulla base delle modalità previste dall’art. 17.

Pertanto, la revoca potrà essere disposta sia in seguito ad un mutamento dell’originaria valutazione dei presupposti che avevano fondato il provvedimento cautelare perché, sebbene la disposizione legislativa si riferisca soltanto a “fatti sopravvenuti”, il giudice potrebbere ritenerli insussistenti ab origine, sia come conseguenza dell’affievolimento del quadro valutativo a carico dell’ente, in presenza o di una riduzione del peso indiziario degli elementi in senso favorevole, quindi, all’indagato del reato presupposto oppure di un miglioramento dell’organizzazione aziendale, così da escludere la permanenza del pericolo di reiterazione dell’illecito189.

La sostituzione, invece, è collegata all’attenuarsi delle esigenze cautelari o all’incrinatura del rapporto di proporzionalità tra la misura adottata e l’entità del fatto o della sanzione presumibilmente applicabile; basta, per cui, un miglioramento anche parziale delle condizioni aziendali e della sua gestione affinché il giudice possa sostituire la misura precedentemente adottata con una meno gravosa o, comunque, disporre la sua applicazione con modalità meno spiacevoli anche sotto il profilo della durata, tenendo sempre ben presente la distinzione tra sostituzione della cautela,

attraverso la quale si verifica una modifica del provvedimento originario con uno nuovo e meno afflittivo, e la situazione in cui lo strumento cautelare iniziale permane ma la sua esecuzione avviene secondo disposizioni meno invasive per l’ente.

Da un punto di vista processuale, però, risulta maggiormente complesso tracciare i profili dei due istituti; se la revoca può essere disposta anche d’ufficio, la sostituzione della misura cautelare prevede, al contrario, l’iniziativa del pubblico ministero o dell’ente stesso.

Il procedimento, poi, vista la scarna disciplina presente nel Decreto 231, va ricostruito richiamando, dove compatibili, le disposizioni dell’art. 299 c.p.p.; dunque, sarà senza dubbio applicabile il comma 3-bis che richiede il parere del PM, qualora la richiesta di revoca o sostituzione provenga dall’ente stesso, visto che il giudice potrà trarre dalle deduzioni delle parti “utili indicazioni sul tipo di nuova misura da applicare”190, e lo stesso discorso vale per il comma 4-bis e 4-ter non sussistendo in merito ragioni serie per escluderne l’attuabilità.

Questioni più complesse, però, potrebbero essere causate dall’assenza, all’interno del sistema di responsabilità a carico dell’ente, di un istituto comparabile con quello previsto al comma 4 dell’art. 299 c.p.p. che così recita: “Fermo quanto previsto dall'articolo 276, quando le esigenze cautelari risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero, sostituisce la misura applicata con un'altra più grave ovvero ne dispone l'applicazione con modalità più

gravose o applica congiuntamente altra misura coercitiva o interdittiva”.

Quindi, un procedimento che ipotizza una sostituzione in pejus della misura cautelare avrebbe dovuto essere oggetto di specifica disciplina o almeno espressamente rischiamato dalle norme del Decreto 231 stesso, in modo da rispettare non solo il principio di legalità, ma anche le peculiarità del sistema cautelare de societate.

Questo istituto, in effetti, non prevede il necessario coinvolgimento dell’ente, destinato ad intervenire soltanto quando il giudice discrezionalmente decida di interrogarlo a norma dell’art. 299 comma 3-bis; poiché in una situazione simile il contraddittorio anticipato ex art. 47 comma 2 non verrebbe contemplato, allora si potrebbe verificare una notevole diminuzione del livello di garanzie difensive per l’ente.

Esaminando, invece, il sistema di regole previste per i casi di estinzione della misura cautelare, nonostante la disciplina del Decreto vada inevitabilmente integrata con le norme codicistiche, questa non desta grandi problemi applicativi per quanto attiene ai termini di durata massima delle misure stesse che decorrono dalla notifica del provvedimento cautelare, essendo l’art. 51 abbastanza chiaro e dettagliato nel dettarne la disciplina191; problemi maggiori, però, potrebbero riscontrarsi quando l’estinzione è diretta conseguenza della pronuncia di determinati atti giurisdizionali che, oltre la sentenza di non doversi procedere e quella di esclusione della responsabilità dell’ente previste

dagli artt. 66 e 67 e richiamate espressamente dall’art. 68, vanno completati attraverso il rinvio alla disciplina dell’art. 300 del codice di rito, costringendo l’interprete a complesse operazioni integrative e, soprattutto, di adattamento alla specifica struttura prevista per la responsabilità dell’ente collettivo.

6.1. La particolare disciplina prevista dall’art. 49 per

la sospensione della misura cautelare.

Il microsistema cautelare, introdotto dal Decreto 231 per disciplinare la responsabilità degli enti, prevede un istituto del tutto peculiare e non privo di profili di originalità, quale la sospensione: ai sensi dell’art. 49, le misure cautelari possono essere sospese se l’ente chiede di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive, a norma dell’art. 17192.

Si tratta, dunque, di condotte aventi natura risarcitoria, riparatoria e riorganizzativa che, ove efficacemente realizzate, conducono alla revoca della cautela applicata e successivamente sospesa, altrimenti, in caso contrario, si farà luogo al ripristino della misura precedentemente adottata.

192 L’art. 17, rubricato ‘Riparazione delle conseguenze del reato’, così recita: “Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca”.

Anche questa figura si inserisce, quindi, tra quegli strumenti che servono all’ente per ricondurre la propria attività nel solco della legalità, e, se da un lato la sospensione ex art. 49 assume questa finalità rieducativa, dall’altro rappresenta per l’ente la possibilità di neutralizzare la fonte del rischio/reato, dal momento che lo spinge ad un assetto riorganizzativo proprio per evitare di incorrere in nuovi illeciti193; il ricorso a questo congegno premiale, però, nella fase incidentale del procedimento di applicazione delle misure cautelari non ha mancato di suscitare dubbi di costituzionalità per incompatibilità con l’art. 27 comma 2 Cost., visto che all’ente viene chiesto di attivarsi per rimuovere le cause di un illecito che non è stato ancora accertato con sentenza definitiva.

Il meccanismo così disciplinato si presta, quindi, al rischio di strumentalizzazioni, come riconusciuto dalla stessa Relazione governativa, nel caso in cui la cautela venga quasi utilizzata come strumento di pressione sull’ente per indurlo ad attuare condotte riparatorie, onde evitare la minaccia di applicazione della misura interdittiva194.

Da un punto di vista processuale, l’istanza di sospensione, contenente la richiesta di voler attuare le condotte prescritte dall’art. 17, viene inoltrata dall’ente al giudice, il quale, sentito il parere del PM, se ritiene di accogliere la domanda, determina una somma di denaro a titolo di cauzione, ordina la sospensione della misura e indica un termine per la realizzazione delle condotte riparatorie; alcuni problemi

193 C. Piergallini, Sistema sanzionatorio e reati previsti dal codice penale, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1363.

194 A. Presutti, Artt. 45-49, in A. Presutti-A. Bernasconi-C. Fiorio, La responsabilità degli enti. Commento articolo per articolo al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Cedam, 2008, p. 436.

potrebbero sollevarsi per quanto attiene al momento in cui la richiesta può essere avanzata, ma sembrerebbe logico che questa avvenga dopo che il giudice si sia espresso in merito alla domanda cautelare, cosicchè vi sia l’esistenza di una misura interdittiva di cui poter ottenere la sospensione.

Nulla vieta, poi, che la presentazione della suddetta istanza195, essendo concreta la prospettiva di un accoglimento della domanda del PM, possa avvenire nel corso dell’udienza anticipata ex art. 47 comma 2, al termine della quale, dunque, una volta accolta la richiesta cautelare, il giudice si pronuncerebbe contestualmente con un’unica ordinanza anche sulla sospensione196, evitando così all’ente di subire l’esecuzione di una misura che poi potrebbe essere comunque sospesa.

In assenza di precise indicazioni normative circa il contenuto dell’istanza di sospensione e dei criteri sui quali il giudice dovrà basarsi per valutarne l’ammissibilità, si ritiene che il documento suddetto non potrà contenere una semplice richiesta di sospensione ma dovrà indicare dettagliatamente gli obiettivi che si propone, le condotte che intende porre in essere e le modalità di realizzazione, allegando anche atti che certificano la situazione economica dell’ente medesimo, e soltanto allora il giudice, nel suo giudizio prognostico, potrà esaminare la conformità del piano presentato rispetto agli obiettivi posti dall’art. 17, nonché la concreta possibilità, per l’ente, di realizzazione delle condotte suddette.

La giurisprudenza, in questi anni, chiamata frequentemente a pronunciarsi sull’argomento, ha cercato di riempire di

195 T.E. Epidendio, op. cit., p. 449.

contenuto le generiche prescrizioni imposte dall’art. 17; in una sentenza del 2016197 la Suprema Corte ha affrontato alcuni aspetti nevralgici della disciplina cautelare ex Decreto 231, analizzando sia i presupposti di applicabilità delle misure cautelari elencati nell’art. 13, sia i criteri di valutazione del corretto adempimento delle condotte riparatorie descritte nell’art. 17, e particolarmente interessante è il punto della decisione con cui si è esclusa l'idoneità delle condotte illustrate nell’istanza di sospensione e poste in essere dall'ente per beneficiare della revoca della misura cautelare.

In estrema sintesi, la Suprema Corte ha considerato a tal fine insufficienti sia la costituzione di un trust finalizzato a risarcire gli enti pubblici danneggiati dai reati di corruzione contestati, sia la costituzione di un fondo destinato a coprire il profitto destinato alla confisca, sia, infine, l'adozione del modello organizzativo in assenza di un effettivo "sganciamento" del nuovo organo amministrativo dagli autori dei reati "a monte".

La Corte, infatti, ricorda come il sistema punitivo della responsabilità da reato degli enti assuma “un carattere prettamente preventivo, volto a configurare sanzioni e misure cautelari per prevenire la commissione dei reati attraverso la strutturazione regolativa dell'organizzazione capace di controllare, da sé, se stessa”; allora, le disposizioni in esame debbono essere interpretate “con il massimo rigore per poter perseguire la massima efficacia”.

Su questi presupposti, da un lato, si è sottolineata la necessità che il risarcimento sia effettivamente consegnato alla persona offesa, o, quantomeno, sia stato avviato un reale confronto con quest'ultima, evidenziando come tale modus operandi sia del tutto incompatibile tanto con la costituzione di un trust funzionale a gestire i risarcimenti di cui trattasi, soprattutto, poi, se lo stesso sia destinato ad operare solo in seguito alla sentenza di condanna, quanto con le offerte di risarcimento unilateralmente rivolte dalla società alla persona offesa, e dall'altro si è richiamata l'attenzione alla necessità che la valutazione dell'idoneità e dell'efficacia del modello organizzativo adottato in adempimento alle indicazioni dell'art. 17 sia effettuata tenendo conto anche delle “contromisure idonee a depotenziare la serie intricata di interessi” tra la vecchia e la nuova gestione e a prevenirne l'eventuale continuazione degli stili gestionali tipici della prima.

L'ente, quindi, per meritare la possibilità di paralizzare gli effetti della misura cautelare ad esso comminabile, deve dimostrare, in concreto e non solo in potenza, di essere finalmente in grado di contrastare l'illecito, mediante una riorganizzazione interna efficace ed effettiva, e di aver concretamente preso le distanze dalla gestione precedente; viene in risalto la necessità che, sul punto, il giudizio sia intransigente, visto che, altrimenti, il sistema introdotto dal Decreto 231 rischia di essere messo seriamente in crisi proprio sul terreno che maggiormente lo caratterizza, ossia quello della prevenzione.

In quest'ottica risulta evidente il collegamento sottile che lega l'art. 49 e l'art. 45; l'attuazione delle condotte riparatorie rappresenta un serio indizio del venir meno del pericolo di recidiva da cui l'art. 45 fa derivare la possibile applicazione, in via cautelare, delle misure interdittive.

L'adesione alle istanze definite dall'art. 17, infatti, consente di concludere in senso favorevole all'ente il giudizio prognostico sotteso all'art. 45, giacché testimonia la rescissione del collegamento tra l'assetto attuale dell'ente e la politica d'impresa dal medesimo attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza.

Alla luce di questa pronuncia della Cassazione, quindi, si evidenzia come possa risultare abbastanza complicato mettere in atto efficacemente tutte quante le condotte riparatorie previste dall’art. 17, anche perché il giudice, alla scadenza del termine stabilito, opterà per la revoca della misura cautelare quando ravvisi una compiuta realizzazione del programma preventivato, oppure per il ripristino della cautela precedentemente sospesa quando riscontri la mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine stabilito, e la sua valutazione, inevitabilmente, acquisterà ampi margini di discrezionalità.

6.2. Le impugnazioni.

Anche la disciplina delle impugnazioni relative agli strumenti cautelari ex Decreto 231 si caratterizza per una marcata frammentarietà che comporta una serie di rinvii integrativi

alle disposizioni codicistiche, dal momento che l’art. 52 è l’unica norma che li prevede espressamente; nel testo dell’articolo, rubricato impropriamente ‘Impugnazione dei provvedimenti che applicano le misure cautelari’, si menzionano apertamente, invece, “tutti i provvedimenti cautelari” senza distinzione tra quelli che introducono il vincolo e quelli che intervengono quando la cautela sia già in atto, citando, però, tra i mezzi di impugnazione soltanto l’appello e il ricorso per cassazione.

Si riscontra, dunque, l’assenza di uno dei mezzi eccellenti previsti per le misure cautelari nel codice di rito, cioè il riesame; ad un primo sguardo la maggiore afflittività che contraddistingue le misure cautelari contra societatem rispetto a quelle applicate alla persona fisica (sebbene neanche per le misure interdittive nel procedimento de libertate sia previsto il riesame), avrebbe dovuto indirizzare il legislatore verso meccanismi di potenziamento della difesa dell’ente198, ma bisogna sottolineare che il procedimento cautelare è presidiato dall’istituto del contraddittorio anticipato, strumento che di per sé rappresenta il luogo deputato alla tutela di tutti i diritti costituzionalmente garantiti all’imputato, nonché funzionale alla valutazione dei presupposti fondanti la richiesta cautelare199 (riesame che, infatti, è consentito nei confronti del decreto di sequestro, la cui adozione è sottratta all’udienza anticipata).

La legittimazione ad impugnare spetta al pubblico ministero e all’ente soltanto per mezzo del suo difensore, cosicchè l’impugnazione della misura cautelare non è subordinata alla

198 G. Paolozzi, Vademecum per gli enti sotto processo, op. cit., p. 147. 199 M. Ceresa-Gastaldo, Il “processo alle società”, op. cit., p. 55.

manifestazione di volontà da parte della persona giuridica di partecipare al giudizio e di costituirsi come invece prescrive l’art. 39200.

Per quanto riguarda l’iter procedimentale dell’appello, l’art 52, come già segnalato, opera una serie di rinvii a catena alle norme codicistiche e in questa fitta rete di correlazioni si desume un assetto abbastanza simile a quello dello stesso mezzo nel rito de libertate ma con alcuni punti distintivi, come quello che prevede un limite temporale per la decisione d’appello di venti giorni che non si caratterizza nel senso della perentorietà come quello fissato per il riesame. È sempre l’art. 52 al comma 2 a stabilire che, contro il provvedimento di appello, il PM e l’ente per mezzo del suo difensore possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge; per cui, si dedurrebbe l’impossibilità di un ricorso per saltum, visto che si impugna la decisione scaturita dal giudizio di appello e non l’ordinanza cautelare. La Suprema Corte è intervenuta più volte sul punto201, escludendo la possibilità del ricorso immediato in materia di misure cautelari interdittive a carico degli enti ma convertendo i suddetti ricorsi in appello, a norma dell’art. 568 comma 5 c.p.p.

Il problema interpretativo di maggior rilievo riguarda, però, l’individuazione dei casi per i quali può essere proposto ricorso per cassazione, perché la norma prevede la ricorribilità solo per violazione di legge, lasciando il dubbio sull’ammissibilità del vizio di motivazione di cui alla lett. e) dell’art. 606 del codice di rito; la giurisprudenza si è divisa

200 Sempre G. Paolozzi, op. cit., p. 171.

sul punto tra favorevoli e contrari, ma la soluzione intermedia che consente la deducibilità del vizio di motivazione non solo quando la stessa sia completamente assente ma anche ove sia apparente, risolvendosi in argomentazioni prive di consistenza logica e che non spiegano le decisioni prese, sembra essere la migliore202, anche perché sarebbe complicato giustificare, poi, il divario di trattamento rispetto alle interdizioni comminate in via definitiva, il cui ricorso non subisce un analogo limite203.

202 G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi, op. cit., p. 232. 203 In questi termini G. Paolozzi, op. cit., p. 149.

CAPITOLO IV

FOCUS SUL SEQUESTRO PREVENTIVO EX ART. 53 DEL DECRETO

1.

L’accertamento dei ‘gravi indizi’ per

l’applicazione del sequestro preventivo.

Accanto alle misure cautelari interdittive, il Decreto 231 disciplina anche un sistema per le misure cautelari reali; gli artt. 53 e 54, infatti, prevedono, rispettivamente, il sequestro preventivo e quello conservativo e rinviano, per quanto attiene agli aspetti procedurali, alle norme in materia del codice di rito, ma, mentre la prima misura ha lo scopo di garantire la futura esecuzione della confisca sancita dall’art. 19, alla quale poi dovrà essere assegnato un contenuto ben preciso nei suoi concetti di ‘prezzo o profitto del reato’ e di confisca ‘per equivalente’, la seconda non crea grandi dubbi interpretativi visto che mira ad assicurare il futuro ed eventuale pagamento della sanzione pecuniaria e di ogna altra somma dovuta all’erario204.

Bisogna sottolineare che tali misure non erano contemplate nella legge delega 300/2000 ma che sono state introdotte per iniziativa autonoma del legislatore delegato; il richiamo operato alla normativa codicistica, comunque, già di per sé assai scarna, non ha risolto alcuni dubbi inerenti ai presupposti applicativi delle misure cautelari reali de societate.

È, in effetti, abbastanza complicato circoscrivere con chiarezza l’ambito dell’accertamento che il giudice debba compiere per l’applicazione del sequestro preventivo, stabilendo se questo debba interessare sia la probabilità di addivenire ad una sentenza di condanna nei confronti dell’ente, sia la qualificazione del bene da sequestrare come prezzo o profitto del reato205; il legislatore si è semplicemente limitato a predeterminare i casi di adozione della misura, mentre la giurisprudenza, godendo, di conseguenza, di ampia discrezionalità, in un primo momento, ha richiesto soltanto che il fatto attribuito all’indagato/persona fisica sia