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Il ruolo dei modelli organizzativi e delle altre condizioni esimenti nella fase cautelare

Nel corso dello svolgimento dell’udienza camerale, l’ente collettivo, dopo aver preso visione della domanda cautelare del PM e dei suoi motivi, avrà, dunque, la possibilità di difendersi e cercherà o di respingere la sussistenza del fumus commissi delicti o di dimostrare che la sua politica d’impresa è rispettosa delle regole e improntata alla legalità, neutralizzando in questo modo il pericolo della commissione

di nuovi illeciti, attraverso la presentazione dell’unica prova in possesso dell’ente stesso, ossia dell’avvenuta adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo, elaborato dalla persona giuridica per fronteggiare il rischio di reato e contenente regole cautelari di autonormazione; allora si dovrà individuare un idoneo spazio istruttorio all’interno di quest’istituto, nonostante il sistema disciplinato dall’art. 127 c.p.p., e sul quale si basa anche quello dell’udienza suddetta, preveda un contraddittorio meramente cartolare, privo di meccanismi probatori.

La giurisprudenza, però, è abbastanza concorde nel ritenere ormai accettata una prassi diffusa che è quella di ricorrere all’accertamento peritale per la valutazione dei modelli di organizzazione e gestione anche nel contesto dell’udienza cautelare anticipata; fu il Tribunale di Roma140 nel 2003 a inaugurare la pratica di ritenere compatibile con il modello di udienza ex art. 47 comma 2 il conferimento dell’incarico peritale finalizzato a giudicare se le misure organizzative adottate dall’ente indagato fossero idonee a scongiurare il pericolo di ulteriori episodi di illiceità, decisione che, poi, fu seguita in numerosi altri casi.

In fase di indagini, seguendo la disciplina codicistica, sappiamo, però, che la perizia può essere acquisita soltanto in incidente probatorio, quando ricorrano le condizioni di cui all’art. 392 comma 1 lett. f) o comma 2 c.p.p.; l’ipotesi della prova soggetta a modificazione non evitabile non è molto calzante perché, preso atto delle accuse, anche se l’ente dovesse integrare il modello o modificarlo al fine di renderlo

idoneo a sortire l’effetto scriminante, sarebbe molto complicato e improbabile distruggere il suo contenuto originario senza che rimanga almeno una semplice copia per documentare quanto avvenuto, e neanche il caso della perizia complessa può essere compatibile con la situazione suddetta, perché ipotizzare che la valutazione di un modello organizzativo richieda un tempo superiore ai sessanta giorni è davvero una possibilità remota e solo eventuale.

Resta, quindi, il sistema delineato dall’art. 127 c.p.p. per l’udienza camerale che non contempla alcuna fase istruttoria; ma allora le peculiarità che qualificano e distinguono il procedimento a carico degli enti spingono anche in questo caso ad allontanarsi dal contenuto specifico del codice di rito e ad adattarlo al regime processuale introdotto con il Decreto 231, legittimando l’espletamento della perizia nel contesto dell’udienza cautelare.

L’ente collettivo, come abbiamo detto, nel corso del contraddittorio tenterà di dimostrare di aver adottato un modello organizzativo idoneo a prevenire illeciti della stessa specie di quello verificatosi ben prima della commissione del reato presupposto, ottenendo, così, il rigetto della domanda applicativa della misura cautelare; il giudice, per cui, dovendo valutare l’idoneità dei modelli a prevenire il rischio di ulteriori e nuovi reati, si avvarrà della competenza di professionisti che operano nei settori dell’economia aziendale e del management e che non si limiteranno ad un esame astratto del protocollo organizzativo ma controlleranno la sua applicazione all’interno dell’azienda stessa, per verificare come questo operi tra i suoi organismi.

Naturalmente il controllo del giudice non interesserà l’intera organizzazione dell’ente o la completa funzionalità del modello in base ai requisiti richiesti dall’art. 6 del Decreto, ma si limiterà alle regole cautelari violate che possono determinare il rischio di reiterazione del reato e all’individuazione del nesso di causalità tra tale violazione e l’evento offensivo verificatosi, elementi questi di pura rilevanza penale che non possono essere demandati ad altri se non al giudice stesso; sotto questo profilo suscita qualche perplessità la presenza di docenti di discipline penalistiche tra i soggetti specializzati da lui nominati, anche perché il ricorso “praticamente automatico”141 alla perizia (per accertare il funzionamento del modello non si attende neppure che l’ente ne provi l’efficacia ma il giudice, di fronte all’allegazione dei protocolli organizzativi, assume immediatamente la consulenza) rivela la tendenza a servirsi sempre più del sapere specialistico che porta spesso il giudice, mettendosi al riparo del parere degli esperti, a delegare loro la sua decisione.

Questa particolare situazione, però, si verifica anche per colpa di un sistema che rimette al giudice un compito faticoso non supportato da indici normativi esaustivi, essendosi il legislatore limitato a tracciare solo lo scheletro dei modelli organizzativi di cui le persone giuridiche sono chiamate a dotarsi per scongiurare il rischio-reato142, e nonostante da vari anni siano venuti alla luce dei propositi di riforma proprio in materia di valutazione dei modelli: una

141 G. Fidelbo, La valutazione del giudice penale sull’idoneità del modello organizzativo, in Società, suppl. 2011, D.Lgs. 231: dieci anni di esperienza nella legislazione e nella prassi, p. 62.

commissione143 istituita appositamente nel 2016 presso il Ministero della Giustizia e di quello dell’Economia e delle Finanze ha ipotizzato una sorta di ‘modello tipo’, redatto nell’osservanza di linee guida elaborate da esperti del settore, cui attribuire una presunzione di idoneità astratta che spetterebbe, poi, all’accusa superare.

Resta assodato, comunque, che, rimanendo tale il testo del Decreto 231, lo strumento tecnico processuale della perizia sia un ausilio fondamentale a cui il giudice non può fare a meno per accertare nel modo più oggettivo possibile l’idoneità di questi modelli organizzativi a prevenire reati futuri144; analizzando una delle prime perizie più dettagliate che fu disposta dal Tribunale di Bari145 all’interno di un procedimento relativo all’applicazione della misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività nei confronti di sei aziende farmaceutiche indagate per truffa aggravata e corruzione commessa da apicali e da dipendenti (cioè si contestava la prassi relativa a dazioni di denaro in favore di medici per poi ottenere la prescrizione, in alcuni casi anche non necessaria, dei propri farmaci), appare quanto meno interessante riportare brevemente le conclusioni sui punti relativi all’idoneità ed all’efficace attuazione dei modelli suddetti.

Per quanto riguarda il giudizio sull’idoneità, il collegio peritale è unanime nell’affermare che sia il modello che le procedure operative fossero totalmente inadeguate a fronteggiare gli specifici rischi-reato connessi alla

143 Sul punto G. Negri, Modelli 231 a efficacia rafforzata, in Il Sole 24 Ore del 5 giugno 2016, p. 15.

144 Così M. Paone, L’”idoneità” e l’”efficace attuazione” del modello di organizzazione, gestione e controllo, in La prova nel processo agli enti, a cura di C. Fiorio, 2016, Giappichelli, p. 76.

commercializzazione dei farmaci, non solo perchè gli ambiti di attività presi in considerazione erano plasmati da finalità di marketing e di performance, privi di forme di controllo degli informatori tecnico-scientifici miranti a spezzare quel vincolo simbiotico che porta alla fidelizzazione tra operatore farmaceutico e medico, ma, oltretutto, vi era una carenza nel sistema di disvelamento delle violazioni del modello anche per colpa della presenza di un Organismo di Vigilanza monocratico, privo, dunque, dei necessari requisiti di autonomia e indipendenza, incapace di dispiegare un effettivo controllo sul funzionamento del modello stesso; per quanto attiene al requisito dell’efficace attuazione, i periti si soffermano sulla struttura e la funzionalità dell’OdV e, nonostante il CdA della società abbia modificato la composizione dell’organo poco dopo la commissione dei reati, prevedendo come terzo componente un professionista esterno che ha di fatto reso migliore il tasso di autonomia e imparzialità dell’Organismo, anche in questo caso, però, non giungono ad una valutazione interamente positiva visto che il vertice della società si preserva comunque la possibilità di modificare la composizione dell’OdV a suo piacimento, non potendosi, quindi, escludere in futuro un’eventuale commistione tra questo e l’Organismo di Vigilanza.

L’adozione e l’efficace attuazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo giudicato valido esclude, per cui, la responsabilità dell’ente e, sebbene la valutazione del giudice cautelare non sia vincolante, è improbabile, anche se non certo impossibile, che la stessa venga poi sconfessata dal successivo giudizio di merito avente ad

oggetto il medesimo modello; rispetto all’illecito commesso dai soggetti apicali, però, potrebbero nascere dei problemi dato che per escludere totalmente la responsabilità della persona giuridica occorre che sia perfezionato il complesso sistema di esimenti previsto dall’art. 6 del Decreto e del quale il modello rappresenta solo una componente, ma quest’ultimo in fase cautelare è senza dubbio sufficiente a dimostrare l’insussistenza del periculum e, di conseguenza, ad evitare l’applicazione della misura richiesta dall’accusa146. Attraverso i modelli adottati ante factum l’ente cerca di evitare che gli venga imputata una responsabilità per il fatto delittuoso dei propri operatori in virtù, anche, della valenza implicita dei modelli organizzativi medesimi, cioè di quegli effetti che devono essere loro riconosciuti perché semplicemente collegati alla loro idoneità ed efficacia preventiva rispetto alla commissione dei reati147.

Un discorso analogo va fatto per i modelli post factum, attuati dopo l’episodio delittuoso ma prima della richiesta cautelare o, al massimo, durante il termine intercorrente tra la richiesta e la fissazione dell’udienza; il giudice, infatti, qualora dovesse esprimere un giudizio positivo sulla loro idoneità, dovrebbe rigettare la richiesta del pubblico ministero perché la loro adozione, seppur tardiva, dimostrerebbe il ravvedimento operoso dell’ente e la sua volontà di conformarsi alla legalità, escludendo, dunque, la prognosi di recidiva.

Se i modelli adottati ante factum, parametrati sulle peculiari caratteristiche aziendali, si pongono in un’ottica di

146 Così G. Fidelbo, Le misure cautelari, op. cit., p. 476.

147 T.E. Epidendio, Le misure cautelari, in A. Bassi- T.E. Epidendio, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Giuffrè, 2006, p. 422.

prevenzione che è rivolta ad impedire rischi pur sempre ipotetici, i modelli ex post, al contrario, dovranno analizzare e predisporre, nello specifico, adeguati strumenti per quelle carenze organizzative che hanno portato l’ente in una situazione di illiceità, elemento indispensabile per escludere il pericolo di reiterazione di reati della stessa indole, senza, però, trascurare la loro vocazione preventiva rispetto a tutti i rischi enucleabili in riferimento all’attività svolta148.

Allora, quando determinati illeciti si siano già verificati, o è comunque molto probabile riscontrarne la presenza, il nuovo modello che si va ad attuare dovrà essere calibrato sulle effettive lacune organizzative e di controllo emerse nella commissione del reato contestato; la giurisprudenza, con riferimento al vaglio di idoneità dei modelli nell’ottica cautelare, ha stabilito che questi contengano un’attenta mappatura dei rischi aziendali, una loro manutenzione periodica realizzata attraverso verifiche ed aggiornamenti che testino la capacità di un adeguamento costante ai cambiamenti insiti nella realtà imprenditoriale di riferimento, la predisposizione di rimedi comprensivi di un buon sistema disciplinare capace di sanzionare in modo incisivo la violazione delle misure contenute nel modello stesso, nonostante un approccio di questo tipo sembrerebbe dare per scontato che il reato in contestazione sia stato commesso, tanto da esigere dall’ente un notevole sforzo riorganizzativo volto a neutralizzarne le cause scatenanti. Come appurato, l’inadeguatezza dei protocolli suddetti viene spesso fatta derivare dalla composizione dell’Organismo di

148 P. Di Geronimo, Responsabilità da reato degli enti: l’adozione dei modelli organizzativi post factum ed il commissariamento giudiziale nell’ambito delle dinamiche cautelari, in Cass. pen., 2004, p. 260.

Vigilanza che, difettando dei requisiti di autonomia, indipendenza e professionalità si riduce ad un organo fittizio incapace di sorvegliare che il modello venga rispettato, ma si registra anche una certa scarsità nella mappatura delle aree di rischio, nel sistema dei controlli interni o nell’elaborazione di blandi meccanismi sanzionatori (ad esempio, in alcuni casi, i giudici hanno ritenuto insufficiente e solo apparente l’aver rimosso l’intero organigramma di vertice coinvolto nell’illecito visto che poi i nuovi amministratori continuavano a ricevere direttive dai vecchi dirigenti), un ragionamento che, tuttavia, non dovrebbe esplicarsi nell’equazione scontata ‘presenza di un illecito uguale inefficacia dei modelli’, e che condurrebbe ad una violazione della presunzione di non colpevolezza ingiustificabile.

L’esigenza di trovare una soluzione appare, quindi, tanto più evidente ora che è possibile constatare un’effettiva penetrazione della cultura della compliance all’interno delle realtà aziendali italiane, dopo che vi era stata un’iniziale indifferenza da parte degli enti collettivi, cui era seguito un apparente adeguamento realizzato mediante l’adozione di modelli solo “su carta”149.

Se una parte della dottrina propone di attendere la formazione di precedenti giurisprudenziali che possano guidare il giudice nella sua attività valutativa, alcune indicazioni, però, possiamo ricavarle anche dalle disposizioni stesse del Decreto 231; il comma 3 dell’art. 6, infatti, attribuisce ai codici di comportamento redatti dalle “associazioni rappresentative di categoria” un potere

149 V. Mongillo, Il giudizio di idoneità del modello di organizzazione ex d.lgs. 231/2001: incertezza dei parametri di riferimento e prospettive di soluzione, in Resp. amm. soc. enti, 2011, pp. 69 ss.

conformativo, accompagnato dal ruolo inedito riservato al Ministero della Giustizia che può, entro trenta giorni dalla ricezione, e di concerto con i ministeri competenti, formulare osservazioni sull’idoneità dei modelli a prevenire i reati, ma lo stesso sito Internet del Ministero ricorda che “l’idoneità del modello di organizzazione è però oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice in relazione ai fatti specificatamente contestati”, e, ancora oggi, non si può affermare che vi sia un notevole riscontro giurisprudenziale, dal momento che alcuni di questi documenti lasciano insoddisfatti per una loro eccessiva indeterminatezza, sopratutto per quanto riguarda i sistemi di minimizzazione del rischio-reato.

Le altre norme da ricordare sono sicuramente quella contenuta nel comma 5 dell’art. 30 del d.lgs. 81/2008 (Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro) che prevede una presunzione di idoneità del modello adottato dalla singola azienda nel caso in cui sia conforme alle Linee guida UNI- INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del settembre 2001, e a quella del British Standard OHSAS 18001:1999, una norma emanata dal BSI (British Standards Institution) nel 1999, rivista nel 2007, che dispone uno standard per il quale può essere rilasciata una certificazione di conformità che attesta l'applicazione volontaria, all'interno di un'organizzazione, di un sistema che permette di garantire un adeguato controllo riguardo alla sicurezza e alla salute dei lavoratori, oltre al rispetto delle norme cogenti.

Per rispondere alla richiesta, da parte degli enti collettivi, di certezza in sede giudiziale si è anche proposto di introdurre una certificazione preventiva dell’idoneità del modello; nonostante la dottrina abbia criticato fortemente questo sistema, accusandolo di dar vita ad una sorta di ‘mercato’ delle certificazioni che privatizzerebbe oltremodo il controllo sui modelli medesimi, il Tribunale di Catania150 ha, invece, accolto con favore questa pratica, assolvendo Rete Ferroviaria Italiana S.p.a. in un caso concernente in particolare il settore della salute e della sicurezza sul lavoro e mettendo in rilievo l’operato dell’impresa che non ha interpretato in chiave meramente burocratica l’obbligo di adozione dei compliance programs ma si è impegnata ad adempiervi mediante l’attuazione di una logica organizzativa in funzione effettivamente prevenzionale mentre, dall’altro lato, emerge il modus operandi di un giudice che, lungi dallo svilire la categoria della colpa di organizzazione mediante semplificazioni probatorie, la valorizza riempiendola di contenuti pregnanti attraverso sia il giudizio di esigibilità di un tempestivo aggiornamento dei modelli organizzativi all’evoluzione della normativa di riferimento, sia la valutazione del rispetto del British Standard OHSAS 18001:2007 e della relativa certificazione di conformità; la difesa di RFI offre, in effetti, un’esaustiva descrizione della procedura di rilascio della certificazione di conformità.

L’impresa interessata al conseguimento di tale certificazione può farne richiesta solo ad uno degli enti abilitati a rilasciarla; più precisamente l’asseverazione del rispetto delle linee-

guida può provenire solo da enti che siano stati a loro volta accreditati da Accredia151, ossia l’unico organismo centrale operante in tal senso a livello nazionale.

A loro volta, gli enti accreditati possono rilasciare le certificazioni in questione alle imprese richiedenti solo all’esito di una complessa procedura, sul cui corretto svolgimento vigila il Ministero dello Sviluppo Economico, la quale si struttura in una serie articolata di passaggi imperniati sulla circolazione delle informazioni in merito alle misure concretamente adottate a tutela della salute e della sicurezza del lavoro: l’impresa richiedente condivide con l’ente certificante tutti i dati concernenti la propria organizzazione prevenzionale; a sua volta l’organismo di certificazione sottopone ad una rigida verifica queste informazioni, dapprima controllando la correttezza della documentazione prodotta dall’impresa e successivamente accertando che le misure prevenzionali, la cui adozione è stata formalmente dichiarata nell’anzidetta documentazione, siano state implementate in concreto nell’ambiente di lavoro.

Inoltre l’impresa richiedente, una volta ottenuta la certificazione, si deve sottoporre ad un costante monitoraggio funzionale a verificare il perdurante rispetto dei parametri prevenzionali in questione. L’attestazione di conformità, infatti, non è rilasciata una volta per tutte ma ha una durata limitata nel tempo: mantiene la sua validità per il triennio successivo alla data del rilascio; decorso questo periodo, può essere rinnovata solo se l’impresa dimostra che

151 Accredia è l’Ente Unico nazionale di accreditamento designato dal governo italiano, in applicazione del

Regolamento europeo n. 765/2008, ad attestare la competenza, l’indipendenza e l’imparzialità degli organismi di certificazione, ispezione e verifica, e dei laboratori di prova e taratura. Accredia è un’associazione riconosciuta che opera senza scopo di lucro, sotto la vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico.

i propri sistemi organizzativi sono rimasti in linea con gli standard prevenzionali.

In conclusione del discorso si rileva, dunque, la consapevolezza di un’eterogeneità dei contenuti del modello organizzativo secondo il tipo di reato da prevenire e l’indeterminatezza legislativa che ne deriva, ponendosi come necessaria conseguenza della disciplina unitaria prescelta dal legislatore stesso, e tutto ciò ci indirizza verso due strade152: o si opta per la soluzione della certificazione e degli altri strumenti di soft law153, destinati ad operare nel momento in cui viene redatto e adottato il modello ma anche durante la fase del giudizio, oppure si percorre la via dell’implementazione delle fonti del modello medesimo. D’altronde, in una sua pronuncia del 2015, il Tribunale di Parma154 ha sottolineato l’esigenza di una concretezza sempre più stringente nella valutazione del modello organizzativo; questa decisione si caratterizza, anzitutto, per l'indubbia chiarezza espositiva e per la linearità del ragionamento con cui, divincolandosi tra le pieghe di una vicenda piuttosto articolata, pone in luce alcuni punti fermi in ordine alla disciplina delle misure cautelari sancita dal Decreto 231.

I fatti esaminati, che si collocano nell'ambito di un complesso intreccio normativo concernente la disciplina delle sovvenzioni pubbliche alle emittenti televisive private, dal

152 Così M. Colacurci, L’idoneità del modello nel sistema 231, tra difficoltà operative e possibili correttivi, in www.penalecontemporaneo.it.

153 La locuzione soft law indica norme prive di efficacia vincolante diretta, adottate per l'esigenza di creare una disciplina flessibile, in grado di adattarsi alla rapida evoluzione che caratterizza certi settori della vita economica o sociale. Il concetto è piuttosto sfumato, denotando una variegata gamma di fenomeni normativi: dai codici di autoregolamentazione adottati da singole imprese o altre organizzazioni, ai codici deontologici o simili adottati da associazioni professionali o di categoria; da taluni atti di diritto internazionale, alle raccolte di principi e regole, di origine spontanea, elaborate da organizzazioni nazionali o internazionali.

punto di vista delle ipotesi criminose contestate sono sinteticamente riassumibili come segue: il legale rappresentante di un'emittente televisiva privata, nell'arco di