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Il procedimento a carico dell'ente collettivo nella fase cautelare. Tra prevalenti istanze di special-prevenzione e dubbi di legittimità costituzionale.

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

IL PROCEDIMENTO A CARICO DELL’ENTE COLLETTIVO

NELLA FASE CAUTELARE.

Tra prevalenti istanze di special-prevenzione e dubbi di legittimità

costituzionale.

Il Candidato

Il Relatore

Alessandro Pettinelli

Prof. Luca Bresciani

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INDICE

Capitolo I

IL MODELLO PUNITIVO INTRODOTTO DAL D. LGS. N. 231/2001

1. Il superamento del brocardo Societas delinquere non potest. 4

1.1. L’affermazione di una responsabilità punitiva in capo agli enti collettivi nell’ordinamento giuridico italiano. 8

1.2. La natura ‘ibrida’ della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato. . 12

2. Il contenuto essenziale del D. lgs. n. 231/2001. 17

2.1. I criteri di imputazione del rato presupposto all’ente: l’elemento oggettivo e soggettivo. 20

3. La colpa di organizzazione e il sistema probatorio ex artt. 6 e 7 del Decreto 231. 26

3.1. L’inversione dell’onus probandi. 30

Capitolo II

IL SISTEMA DELLE CAUTELE INTERDITTIVE IN RAPPORTO ALLE

GARANZIE COSTITUZIONALI E ALLE NORME DEL CODICE DI RITO

1. Il ridimensionamento della sanzione interdittiva da pena accessoria a misura cautelare. 34 1.1. I parametri costituzionali entro cui iscrivere il fenomeno cautelare interdittivo e il problematico rapporto con l’art. 13 Cost. 39

2. Le questioni interpretative nascenti dalla sovrapposizione tra interdizione-sanzione e interdizione-cautela. 45

3. I presupposti applicativi: il richiamo all’art. 287 c.p.p. 49

3.1. Il complicato apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza. 52

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4. I criteri di scelta delle misure cautelari tra principio di proporzionalità e divieto di

applicazione cumulativa. 63

Capitolo III

LE PECULIARITÀ DEL PROCEDIMENTO APPLICATIVO DELLE

MISURE CAUTELARI INTERDITTIVE

1. La disciplina prevista dal Decreto 231 per il procedimento applicativo delle misure cautelari. 70

2. I motivi della presenza di un contraddittorio anticipato in sede cautelare. 74

2.1. La struttura e la dinamica dell’udienza anticipata ex art. 47 comma 2. 79

3. Il ruolo dei modelli organizzativi e delle altre condizioni esimenti nella fase cautelare. 85 4. La vexata quaestio della distribuzione dell’onus probandi. 102

5. L’ordinanza cautelare nei confronti della persona fisica autrice del reato presupposto e la sua influenza a carico della societas. 112

6. Le vicende successive all’applicazione della misura cautelare. 120

6.1. La particolare disciplina prevista dall’art. 49 per la sospensione della misura cautelare. 124

6.2. Le impugnazioni. 129

Capitolo IV

FOCUS SUL SEQUESTRO PREVENTIVO EX ART. 53 DEL DECRETO

1. L’accertamento dei ‘gravi indizi’ per l’applicazione del sequestro preventivo. 133

2. Il profitto del reato quale oggetto del sequestro preventivo. 138

3. Il sequestro preventivo in funzione delle confisca ‘per equivalente’. 146

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CAPITOLO I

IL MODELLO PUNITIVO INTRODOTTO DAL D. LGS. N. 231/2001

1. Il superamento del brocardo

Societas delinquere

non potest.

Nonostante, ormai, siano passati più di sedici anni dall’entratata in vigore del D. lgs 231/2001 (da ora in poi: Decreto), è ancora oggi innegabile la portata innovativa che questo atto ha avuto per l’intero ordinamento giuridico italiano, dal momento che ha segnato l’introduzione di un originale e preciso modello sanzionatorio, attraverso l’elaborazione di un corpo normativo che può, senza dubbio, considerarsi “il terzo pilastro del nostro sistema processuale penale insieme al codice di rito e alla legge sulla competenza

penale del giudice di pace"1.

Il Decreto istituisce una nuova forma di responsabilità punitiva diretta e autonoma in capo alle persone giuridiche; in questo modo, si è generata un’area di convergenza tra un regime di responsabilità penale che grava sulla persona fisica per il fatto di reato commesso, e uno di responsabilità amministrativa che imputa all’ente la colpa per non aver impedito la realizzazione di un illecito penale, compiuto a suo interesse o a suo vantaggio da chi, con esso, si trova in relazione qualificata2, e, non ultimo, si è sorpassato

1 A. Giarda, Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, Cedam, 2016, p. 1149.

2 D. Falcinelli, Gli elementi costitutivi dell’illecito amministrativo, ovvero: la metamorfosi della “tipicità” penale, in La prova nel processo agli enti, a cura di C. Fiorio, G. Giappichelli Editore- Torino, 2016, p. 3-7.

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definitivamente il dogma secolare Societas delinquere non potest3.

Sebbene si esprima in lingua latina, questo principio giuridico non è così ancestrale come si potrebbe credere4, ma inizia a prendere piede dopo la Rivoluzione francese del 1789, con l’affermarsi della supremazia dell’individuo nella realtà sociale ed economica, quando la repressione criminale aveva ad oggetto non più l’ente associativo, bensì il singolo, che si poneva al centro delle attenzioni repressive dello Stato; facendo appello alla teoria finzionistica5, infatti, le persone giuridiche si ritengono prive di autonoma capacità volitiva e quindi incompatibili con gli istituti penalistici.

Al contrario, la dottrina dei Paesi di Common law, giunse, già agli inizi del ‘900, a tutt’altre conclusioni6; l’industrializzazione diffusasi in modo capillare sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti d’America, aveva portato alla nascita di società commerciali di grandi dimensioni le quali iniziarono inevitabilmente ad essere soggetti di diritto e, come tali, assunsero anche la veste di imputate in procedimenti penali.

Ecco, dunque, che, mentre in queste realtà va affermandosi, in modo netto, una responsabilità penale in capo alle persone giuridiche, nei Paesi europei (a partire da quelli continentali) si inizia a parlare di un corporate crime, cioè non solo di un reato ‘d’impresa’, ma di un reato

3 G. Amarelli lo definisce “uno dei cardini inattaccabili del diritto penale classico” in Mito giuridico ed evoluzione della realtà: il crollo del principio Societas delinquere non potest, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 943.

4 G. Marinucci, La responsabilità delle persone giuridiche: uno schizzo storico-dogmatico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 445.

5 Friedrich Carl von Savigny (1779- 1861) sarà uno dei fondatori di questa teoria: per lui gli enti sono delle mere finzioni create dagli uomini per il soddisfacimento dei loro interessi economici e, dunque, semplici strumenti nelle loro mani.

6 C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, in Riv. trim. dir. pen., 1, 2002, p. 572.

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‘dell’impresa’, intesa quale autrice dell’illecito e destinataria diretta di sanzioni penali, o almeno quasi-penali, soltanto agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso, quando le istituzioni comunitarie si impegnarono ad incoraggiare l’adozione, in tutti gli Stati membri, di modelli sanzionatori degli illeciti commessi dagli enti collettivi che potessero favorire lo sviluppo di un mercato unico e dove si potesse operare in un regime di concorrenza uniformemente disciplinato per ciascun Stato membro.

A questi progetti si aggiunsero, poi, anche gli impulsi da parte di organismi internazionali come la Convenzione OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) firmata a Parigi nel dicembre del 1997 e ratificata dall’Italia nel 2000 che impose ai Paesi aderenti di considerare reato il fatto di corrompere funzionari stranieri per conseguire indebiti vantaggi nel commercio internazionale: è attraverso le disposizioni di questa convenzione (in base all’art. 2 gli Stati contraenti devono adottare “le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche [...]”) che si consiglia a tutti i Governi di sanzionare questi comportamenti illeciti, prendendo di mira non solo le persone fisiche ma anche quelle giuridiche.

Più esplicito e più dettagliato sul tema dei presupposti della responsabilità degli enti è, invece, il II Protocollo della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (così detto P.I.F.), firmato a Bruxelles nel giugno 1997; qui, le sanzioni previste, si applicano sia per gli

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illeciti commessi dai vertici dell’impresa che per quelli realizzati dai dipendenti in posizione subordinata.

Intanto, nel nostro Paese, l’Italia, si iniziò a discutere seriamente di responsabilità diretta in capo agli enti collettivi soltanto nel 1998, quando fu presentato un disegno di legge a firma dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto, che, però, sembrò sottrarsi all’impianto giuridico dettato dalle varie Convenzioni, essendo il suo testo molto stringato.

Fu, infine, il Parlamento, adottando la legge di delega n. 300 del 2000, a intervenire sull’argomento in modo pur sempre farraginoso e, all’art. 11 della suddetta, elencò alcune linee guida da seguire, in particolare: i destinatari della nuova disciplina, i criteri di imputazione dell’illecito e la loro diversità a seconda del ruolo rivestito all’interno dell’ente dall’autore del reato, la giurisdizione sulla materia.

Su questo terreno incompleto, con pochi punti fermi, vedrà, comunque, la luce il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, intitolato “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della L. 29 settembre 2000, n. 300”, che, avendo le caratteristiche di un vero e proprio “microcodice”7, traccerà i contorni del diritto punitivo riguardante la criminalità d’impresa finalmente anche in Italia.

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1.1.

L’affermazione di una responsabilità punitiva in

capo agli enti collettivi nell’ordinamento giuridico

italiano.

L’Italia è stato uno degli ultimi, tra i Paesi europei, a dotarsi di una disciplina sulla responsabilità delle persone giuridiche; tra i motivi di questo ritardo ci sono non soltanto scelte di carattere prettamente politico, ma, senza dubbio, anche il peso dello scoglio dogmatico8.

Infatti, nel nostro ordinamento giuridico, il superamento del brocardo societas delinquere non potest si è trovato davanti un ostacolo ritenuto da molti insormontabile: il principio di personalità della responsabilità penale contenuto nell’art. 27 comma 1 Cost.

Eppure, per diversi giuristi nostrani, queste sarebbero divergenze superabili; d’altronde la persona giuridica è un centro capace di “generare o favorire la commissione di fatti illeciti, e, se è costruita dall’ordinamento come soggetto capace di agire, di esercitare diritti, di assumere obblighi, di svolgere attività da cui trarre profitto, ovviamente tramite persone fisiche agenti per l’ente stesso, è nella logica di un tale istituto che a questa possa essere ascritto sia un agire lecito che un agire illecito”9.

Per cui, riconoscere i soggetti collettivi come protagonisti del sistema giuridico, per poi assicurare agli stessi una zona d’immunità dal diritto penale, si tradurrebbe in un ingiustificabile privilegio: dunque, si deve fare in modo che,

8 G. Marinucci, La responsabilità penale delle persone giuridiche, op. cit., p. 446 ss.

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basandosi sulla teoria dell’immedesimazione, il reato commesso da dirigenti e amministratori nell’interesse dell’ente collettivo ricada e possa essere imputato direttamente a quest’ultimo.

Coloro che obiettano a questa tesi, sostengono che così facendo si andrebbero a colpire anche i soci estranei all’illecito, anche se si potrebbero azionare dei possibili rimedi per i soci innocenti come, per esempio, il rimborso10, e poi, punendo soltanto gli autori materiali del reato, si rischierebbe di lasciare impuniti coloro che, invece, hanno ideato o addirittura imposto la commissione dell’illecito, anche perché alcuni studi più attuali sull’organizzazione aziendale considerano l’impresa come un “organismo vitale”11 le cui decisioni sono il frutto della volontà dell’ente e non dei singoli autori.

Ma diventa assai più complicato trovare soluzioni dogmatiche possibili allorchè si prenda in considerazione l’insegnamento della Corte Costituzionale sull’interpretazione dell’art. 27 Cost.12: il principio nulla poena sine culpa renderebbe estremamente difficile ascrivere all’ente atteggiamenti psicologici tipici della volontà umana, a meno di valutare e circoscrivere la portata del dettato costituzionale al solo individuo per il quale il legame psicologico tra fatto e agente è necessario per tradurre la colpevolezza in un rimprovero. Di certo alcuni giuristi, negli ultimi anni, si sono allontanati da una lettura della responsabilità penale esclusivamente antropomorfica per poi argomentarla su basi prettamente

10 F. Bricola, Il costo del principio ‘Societas delinquere non potest’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 951.

11 P. Bastia, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativa delle aziende, in AA.VV., Societas puniri potest; la responsabilità da reato degli enti collettivi, a cura di F. Palazzo, Cedam, 2003, p. 35. 12 Corte cost. 24 marzo 1988 n. 364 e 13 dicembre 1988 n. 1085.

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normative13 e affrancarla, così, da quei connotati psicologici che fanno della persona fisica il suo unico referente, affinchè possa essere sorpassato anche l’ultimo impedimento al riconoscimento di una responsabilità punitiva per le persone giuridiche, cioè la corretta interpretazione del terzo comma dell’art. 27 Cost., sulla finalità rieducativa della pena.

D’altronde una pena che tenda alla rieducazione del reo e al suo reinserimento nella società non può essere applicata a un soggetto collettivo, vista la totale assenza di una personalità sulla quale incidere14; dunque, l’ente non può figurare tra i soggetti attivi del diritto penale, anche in virtù della mutevolezza congenita che caratterizza la sua compagine sociale (chi, all’interno dell’ente, dovrebbe poi scontare la pena?).

Ma, se si abbandona per un attimo la visione antropocentrica che contraddistingue la nostra dottrina penale, si può senz’altro vedere come la pena trova la sua massima spiegazione proprio nei confronti dell’impresa; attraverso di essa, “si può ricostruire una ‘persona nuova’, modificandone il carattere e reimpostandone la condotta di vita, perché, non essendoci un corpo da straziare e un animo da umiliare, la pena inflitta all’ente può permettersi quell’invadenza e pervasività che il diritto penale moderno, rispettoso della dignità umana, respinge con forza quando il destinario sia la persona fisica”15.

Inoltre, diversi studiosi della criminalità economica sono abbastanza concordi nel ritenere che l’illecito sia frutto di

13 C. Piergallini, L’apparato sanzionatorio, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura di G. Lattanzi, Giuffrè, 2005, p. 173.

14 G. Amarelli, Mito giuridico […], op. cit., p. 984 ss.

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una cultura d’impresa non episodica e che permanga ai soggetti che la compongono; ecco che la rimozione di coloro che si sono resi materialmente responsabili del reato, insieme ai cambiamenti in tema di decisioni nella politica d’impresa, è indice di ravvedimento e quindi un segno del buon esito del piano rieducativo.

A fronte di quanto detto, si manifesta sempre più l’inidoneità di un sistema sanzionatorio personale, dovuto proprio alla facile sostituibilità, all’interno della compagine sociale, dei soggetti interessati dalla sanzione penale, lasciando scorgere, così, un’immunità di fatto dell’ente; inoltre, “nella criminalità di impresa, la persona fisica non è l’esclusivo autore del fatto e punire solo quest’ultimo produce un aggiramento dei principi costituzionali e un’inefficace tutela di beni giuridici di estremo rilievo nella moderna attività economica”16.

Risulta, poi, fondamentalmente vano cercare di appellarsi alla disciplina prevista dall’art. 197 c.p., rubricato “Obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende”, unica norma del codice penale nostrano che preveda una forma di responsabilità ma civile degli enti collettivi, nonché responsabilità di tipo sussidiario per i reati penali commessi da persone fisiche: l’ente, che dovrebbe pagare la multa o l’ammenda in caso di insolvibilità del condannato, interviene a coprire un costo del tutto irrisorio per le sue casse e che, oltretutto, non colpirà il profitto conseguito dall’impresa con il suo comportamento illecito, svelando, in questo modo, le consistenti lacune in termini di efficacia della sanzione comminata.

16 A. Alessandri, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti. D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, p. 30.

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A conclusione di questo breve resoconto, possiamo plausibilmente affermare che, nella realtà, non esitono ostacoli giustificabili al riconoscimento di una responsabilità autonoma e punitiva in capo alle persone giuridiche, né divieti di matrice costituzionale, ovviamente se si accetta un’interpretazione dell’art. 27 Cost. evolutiva e sganciata da dogmi ormai incompatibili con l’odierna realtà economica e sociale17.

1.2. La natura “ibrida” della responsabilità degli enti

dipendente da reato.

Per diverso tempo, proprio a causa dei motivi prima analizzati, il nostro legislatore ha evitato di introdurre anche in Italia un sistema di responsabilizzazione delle persone giuridiche; poi, con l’emanazione, nel 2001, del D. lgs. n. 231, ha posto rimedio a questa situazione, affrontando, però, l’argomento in maniera cauta, a tratti lacunosa, e, soprattutto, non dando una chiara definizione della reale natura della responsabilità cucita addosso agli enti.

Questo atteggiamento ha innescato una fervida diatriba tra coloro che sostengono che quella delle persone giuridiche sia una responsabilità prevalentemente penale e chi, invece, obietta questa visione ed è convinto della natura amministrativa della stessa18; il dibattito, nel nostro Paese, si è alimentato immediatamente, a partire dal titolo stesso del

17 M. Romano, Societas delinquere non potest (Nel ricordo di Franco Bricola), in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p.1031. 18 G. De Simone, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione, su

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Decreto che, definendo amministrativo l’illecito degli enti dipendente da reato, crea confusione e ne svela la natura compromissoria.

Per alcuni, poi, si tratterebbe di una vera e propria “truffa delle etichette”19: il legislatore, così facendo, avrebbe ridotto le garanzie processuali e penali anche per non dover subire un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, in particolare per quanto riguarda il meccanismo di inversione dell’onere probatorio, previsto dall’art. 6 del Decreto, e del principio cardine di presunzione di innocenza, dal momento che, qualora si ritenga penale siffatta responsabilità, la legittimità di tale disciplina “non potrà che essere valutata alla luce di quelle norme che la Costituzione dedica proprio alla materia penale”20.

Dunque, in dottrina, su tale questione, si riscontrano tre diversi filoni interpretativi, perché, oltre alla natura penale e amministrativa, vi è anche chi ritiene si possa configurare un illecito di tertium genus: per dare una risposta adeguata al problema, le tre scuole di pensiero si sono soffermate sul tipo di presupposti fondanti la responsabilità e sulla possibilità della pena di svolgere la sua funzione rieducativa anche in questo campo.

I sostenitori della natura penale, innanzi tutto, evidenziano la presenza di un medesimo fatto del quale rispondono, sulla base di criteri diversificati, sia la persona fisica che quella giuridica, cioè non si tratta di una condotta criminosa diversa o autonoma da quella commessa dal soggetto apicale o

19 E. Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniarie e misure interdittive, in Dir. e giust., 2001, n. 23, p. 82.

20 G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la “parte generale” e la “parte speciale” del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, in Garuti (a cura di), Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, Cedam, 2002.

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subordinato, perché l’illecito “è e resta uno solo (quello penale) commesso dalle persone fisiche indicate dall’art. 5, mentre rispetto alla persona giuridica dovrebbe parlarsi piuttosto di una fattispecie a struttura complessa di cui tale illecito rappresenta solo uno degli elementi essenziali e irrinunciabili”21.

Non si può di certo ammettere, allora, che dallo stesso illecito prendano vita due diversi tipi di responsabilità, una penale e l’altra amministrativa, e, “se l’illecito è penale, tale dovrà ritenersi anche la responsabilità che ne consegue, indipendentemente dalla natura del soggetto a cui la medesima venga ascritta”22.

Questo è solo uno dei punti-chiave su cui si basano i teorici della natura penale della responsabilità de societate, perché, anche per quanto attiene all’autorità competente all’accertamento dell’illecito e alla sua procedura ( affidata al giudice penale ai sensi dell’art. 36 del Decreto, e poi l’art. 34 che stabilisce siano osservate, in quanto compatibili, le disposizioni del c.p.p. ), alla modalità di applicazione delle sanzioni (caratterizzate dal tipico grado di afflittività e gravosità del sistema penale), all’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella della persona fisica autrice del reato presupposto (espressamente prevista all’art. 8 del Decreto), bisognerebbe concludere che sia certamente penale l’essenza di una tale responsabilità.

Dall’altra parte i fautori della tesi “amministrativistica” puntano, in primis, sull’etichetta apposta dal legislatore, il

21 G. De Simone, op. cit., p. 81.

22 A. Falzea, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità penale delle persone giuridiche in diritto comunitario, Giuffrè, 1981, p.141.

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nomen juris del Decreto, che sarebbe imprescindibile per l’interprete23, ma poi sottolineano altri aspetti della disciplina che non potrebbero essere collimanti con una qualificazione penale della responsabilità: in particolar modo si soffermano sul regime della prescrizione, diverso da quello penale ex. artt. 157 ss. c.p., poiché questo è unico per tutti gli illeciti, e si sostanzia in cinque anni dalla commissione del reato presupposto, così confacendosi al modello di prescrizione tratteggiato nella legge sugli illeciti amministrativi (L. n. 689/1981), e poi su quello delle vicende modificative dell’ente (trasformazione, fusione e scissione ex. artt 28 ss. del Decreto ), ispirato a una logica di stampo civilistico che non sembra possa combaciare con il principio di personalità della responsabilità penale ex. art. 27 Cost. (anche se quest’ultimo punto, ad esempio, è stato utilizzato dagli studiosi favorevoli alla natura penale della responsabilità proprio per affermare che trattasi di semplice deroga al principio di personalità, accettabile e imposta dalla natura delle cose: si vuole evitare che le operazioni modificative dell’ente determinino “agevoli modalità di elusione della responsabilità punitiva”24).

Per alcuni di questi teorici, infine, sarebbero riscontrabili le caratteristiche proprie della responsabilità amministrativa, perché alle societates sarebbe affidata una funzione di controllo/prevenzione tipica del potere amministrativo25. È, comunque, nella Relazione al Decreto stesso che si prospetta l’ipotesi di un tertium genus di responsabilità “che

23 G. Marinucci, “Societas puniri potest”: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1193.

24 Relazione al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 34.

25 G. Insolera, Intervento al seminario di studi del ciclo “Lavori in corso” su “L’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo penale a carico degli enti ex D. lgs. 231/01”, Bologna, 11 marzo 2008.

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coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo”, un complesso “geneticamente modificato con sembianze ibride” che sarebbe “ancorato a presupposti penalistici […] e governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico, presenta dell’inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari”. Per cui, coloro che hanno seguito questo indirizzo, hanno, in seguito, preconizzato la nascita di un nuovo ‘diritto penale dell’impresa’, basato su una commistione tra la dottrina penale classica e quella penale amministrativa, giungendo, addirittura, a formulare, in seguito, un quartum genus26 che avrebbe le caratteristiche fondamentali dei tre modelli di responsabilità presenti nel nostro ordinamento (quella civile extracontrattuale, quella penale e quella amministrativa) dei quali essa riprodurebbe alcune delle qualità essenziali.

In questo ‘marasma’, nemmeno la giurisprudenza ha saputo dare risposte convergenti; la Corte di legittimità, in realtà, non si è mai espressa sul tema in modo diretto, ma abbastanza indicativi sono gli obiter dicta nascosti tra le maglie di alcune sue pronunce.

Dapprima, la Cassazione sembrò indirizzarsi verso il riconoscimento di una natura prettamente penale della responsabilità introdotta dal Decreto; in una delle sue prime sentenze27 sull’argomento, infatti, spiegò che la nuova tipologia di responsabilità, nonostante la definizione nominalmente amministrativa, celava il suo carattere sostanzialmente penale, forse per non aprire conflitti molto

26 S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, in Vinciguerra- Cerasa- Gastaldo- Rossi, La responsabilità dell’ente per il reato commesso nel suo interesse, 2004, p. 190 ss.

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delicati con il dogma della responsabilità penale personale e finire, così, sotto la scure della Consulta.

Più avanti la Suprema Corte, invece, ha mantenuto un profilo più prudente nel dirimere questioni attinenti all’applicazione degli aspetti più controversi della normativa (come, ad esempio, sul regime probatorio previsto dall’art. 6 del Decreto o sul problema della possibilità di costituirsi parte civile contro l’ente), considerando il Decreto un corpus normativo talmente singolare da poterlo definire come un tertium genus28 ed evitando, così, una definizione netta della sua natura: il giudice di legittimità comincia ad isolare, poco a poco, la diatriba sulla natura della responsabilità, focalizzandosi, al contrario, sulla “compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale, per le evidenti ragioni di contiguità con lo stesso”.

2. Il contenuto essenziale del D. lgs. n. 231/2001.

Sebbene la disciplina del Decreto nasca segnata da una velata ambiguità per quanto attiene la definizione della natura della sua responsabilità, sembrerebbe, invece, che essa tracci i contorni di un sistema, almeno nella forma, compiuto, comprensivo di una parte sostanziale ed una processuale29 (anche se, persino per quanto riguarda i rapporti tra norma delegante e decreto legislativo, alcuni

28 Cass. pen., SS. UU., sent. 18 settembre 2014, n. 38343, in C.E.D.

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sostengono che quest’ultimo abbia operato uno stravolgimento della L. 300/2000, non rispettandone pienamente i principi e i criteri direttivi o, addirittura, spingendosi oltre i confini tracciati dal legislatore delegante). Innanzi tutto, essendo la finalità del Decreto in questione quella di prevenire e poi sanzionare alcune tipologie di reato in cui incorrano gli enti collettivi nello svolgimento della propria attività, il testo, all’art. 1 comma 2, delinea, immediatamente, il suo ambito di applicazione soggettiva, nel quale vi rientrano gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica, escludendone lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. La norma, dunque, finisce per includere, tra i soggetti in questione, enti molteplici ed eterogenei, sia pubblici che privati, ed ha portato la Cassazione a pronunciarsi diverse volte30 su questo aspetto, per cercare di fare chiarezza; il giudice di legittimità ritiene il Decreto, ormai, applicabile anche alle c.d. società ‘miste’, cioè le S.p.A. a partecipazione pubblica, esprimendosi in questo senso con riferimento ad un ente pubblico ospedaliero costituito in forma di S.p.A. a partecipazione maggioritaria in mano pubblica, oppure ad una S.p.A. costituita dai Comuni di una provincia per la gestione integrata dei rifiuti, ed ha sostenuto che la forma di società per azioni deve ritenersi di per sé idonea ad integrare l’esercizio dell’attività economica con finalità di lucro, non essendo sufficiente, ai fini dell’esonero dall’applicazione

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della suddetta disciplina, avere, semplicemente, natura pubblicistica.

Resta ancora controversa, invece, l’eventualità di ricomprendere o meno le imprese individuali tra i soggetti previsti dall’art. 1 comma 2 e 3 del Decreto31.

Procedendo all’analisi del contenuto del Decreto, e tralasciando gli aspetti che riguardano la struttura dell’illecito, i suoi criteri d’imputazione all’ente oggettivi e soggettivi e il suo corollario probatorio che verranno esaminati nei prossimi paragrafi, possiamo brevemente elencare i principi generali e basilari, derivati dalla dottrina penale, che connotano gli artt. 2 ss. del Decreto, quali il principio di legalità, quello di retroattività della legge più favorevole, di universalità e l’art. 8 dove viene ribadito un aspetto di notevole importanza, ossia l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato presupposto.

Soffermandoci, invece, sull’apparato sanzionatorio all’art. 9 (rubricato ‘sanzioni amministrative’) si individuano le seguenti sanzioni: A) sanzione pecuniaria (che si applica attraverso un regime per quote), B) sanzioni interdittive, C) confisca, D) pubblicazione della sentenza e poi i possibili modi di essere della sanzione interdittiva, collocati su una scala di afflittività crescente.

È la sanzione amministrativa pecuniaria, però, quella “indefettibile e fondamentale, applicabile in relazione a tutti gli illeciti dipendenti da reato”32; caratteristica del tutto peculiare è, poi, la possibilità di disporre, in luogo della

31 Cass., sez. III, 15 dicembre 2010 n. 249320, in C.e.d. 32 A. Presutti-A. Bernasconi, op. cit., p. 182.

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sanzione interdittiva che determini l’interruzione dell’attività dell’ente, il suo commissariamento, ove ricorrano le condizioni tassativamente previste dall’art. 15.

Per quanto attiene ai profili strettamente processuali, il legislatore ha scelto, quale sede di accertamento dell’illecito, il processo penale, dettando un’articolata serie di norme (artt. 34-82) che in parte riproducono le disposizioni del codice di rito, e in parte disegnano una disciplina speciale data, comunque, la peculiarità della materia, e che, però, costringono, quasi inevitabilmente, l’interprete a tortuose manovre esegetiche.

2.1.

I criteri di imputazione del reato presupposto

all’ente: l’elemento oggettivo e soggettivo.

Analizzando quali scelte il legislatore del 2001 abbia operato per riuscire ad ancorare la responsabilità dell’ente al fatto di reato compiuto dalla persona fisica e superare, dunque, la sua insita incapacità all’azione, scopriamo che si è servito, semplicemente, di una formula già adottata nella legge di delega e che all’art. 5 comma 1 del Decreto così recita: “l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” da persone inquadrate, a vario titolo, nella sua struttura, e se queste stesse, poi, “hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”, allora ci sarà una causa oggettiva di esclusione della responsabilità dell’ente33 (art. 5 comma 2).

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Per cui, attraverso la teoria dell’immedesimazione organica, si attribuisce direttamente alla persona giuridica la responsabilità per il reato commesso materialmente dal soggetto in posizione qualificata all’interno della sua struttura, reato che deve essere tassativamente previsto, per il rispetto del principio di legalità, nel testo stesso del Decreto; il criterio dell’‘interesse’, nonostante, tra l’altro, fosse già previsto nell’art. 197 c.p. quale requisito essenziale dell’obbligazione civile per la pena pecuniaria dell’ente, nel binomio formato insieme al criterio del ‘vantaggio’ ha generato diversi problemi a livello interpretativo e quindi applicativo, non essendo ancora pacifico quale significato attribuire a questa locuzione.

Inizialmente si cercò di ribadire che i criteri oggettivi di imputazione venissero “orientati sul fatto e sulla responsabilità”34, distinguendoli nettamente dal ‘profitto’ che, invece, “gioca il suo ruolo limitatamente all’imputazione della sola sanzione della confisca”35, e stando alla Relazione governativa, i due criteri dovrebbero rimanere concettualmente distinti, tesi rafforzata dalla presenza nel testo dell’art. 5 della congiunzione disgiuntiva ‘o’; è sufficiente, quindi, la presenza di uno solo di essi per delinearne la responsabilità, anche perché il primo (interesse), attenendo alla sfera psicologica della persona fisica che materialmente compie il fatto di reato con la volontà di realizzare un interesse della persona giuridica, deve essere valutato ex ante, mentre il termine ‘vantaggio’

34 C. E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche: profili generali e criteri d’imputazione, in Il nuovo diritto penale delle società, a cura di Alessandri, Milano, 2002.

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evocherebbe un dato di natura oggettiva, cioè il conseguimento di un beneficio da parte dell’ente che può essere da questo ottenuto anche quando la persona fisica non abbia agito nell’interesse dello stesso, richiedendo, quindi, una verifica ex post.

Una delle prime pronuncie della Cassazione sul tema, risalente al 200536, ribadisce questa linea dal momento che sottolinea: “i due vocaboli esprimono concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse ‘a monte’ della società ad una locupletazione – prefigurata ma, eventualmente, non più realizzata - in conseguenza dell’illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, persino se non espressamente divisato ex ante dall’agente”.

Altri giuristi, al contrario, sono convinti che i due vocaboli debbano essere trattati come sinonimi che identificano un criterio unitario37, quello dell’interesse dell’ente, il solo davvero rilevante, mentre il vantaggio sarà una variabile fortuita che potrà anche riscontrarsi effettivamente, senza che, soltanto per questo, si possa, però, ipotizzare una responsabilità da reato della persona giuridica; e ciò trova riscontro sia all’art. 5 comma 2 Decreto (l’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi), sia all’art 12 comma 1 lett. a) dove si stabilisce che la sanzione pecuniaria è ridotta della metà se l’autore del reato ha commesso il fatto

36 Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, Jolly Mediterraneo s.r.l., in Cass. pen. 2007, p.77.

37 A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche:il punto di vista del penalista, in Cass. pen., 2003, p 1114.

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nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato uno minimo.

Allora, secondo questa corrente interpretativa, l’interesse della societas potrà anche essere parziale e il vantaggio potrà anche materialmente essere assente, ma questo non ne eviterà la responsabilità, perché, ciò che realmente conta ai fini dell’imputazione, è la sussistenza di un interesse della persona fisica che agisca per una finalità coincidente con quella dell’ente.

Eppure, ormai, si sta consolidando la tesi secondo cui l’interesse non andrebbe tradotto in senso soggettivo, ma in quello oggettivo, come “proiezione finalistica della condotta, riconoscibilmente connessa alla condotta medesima”38, e bisognerebbe dare al concetto del vantaggio un significato squisitamente patrimoniale e un’autonoma rilevanza, in special modo processuale: se si accerta che la persona giuridica ha conseguito un vantaggio dal fatto di reato ( comportando ciò una presunzione juris tantum circa la presenza di un interesse in capo all’ente39 ), spetterebbe proprio a quest’ultima dimostrare che l’autore ha agito, commettendo il reato presupposto, nel suo solo interesse o in quello di terzi, spezzando, in questo modo, il nesso di immedesimazione organica, un’interpretazione, tra l’altro, che nel 2010 è stata adottata dal Tribunale di Trani40 e, oltretutto, in caso di reati colposi, risulterebbe davvero complicato dimostare soltanto il requisito dell’interesse, emergendo, invece, con più facilità, il vantaggio dell’ente.

38 G. De Simone, op. cit., p. 40.

39 P. Ferrua, Procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni (introduzione al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231), in Diritto penale e processo, 2001, p. 1482.

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Accanto ai criteri oggettivi, l’art. 5 comma 1 lett. a) e b) prevede, poi, i criteri soggettivi d’imputazione: il reato presupposto, per essere addebitabile all’ente, deve essere compiuto da un soggetto legato da un rapporto funzionale qualificato con il medesimo; questo tipo di rapporto viene, infatti, identificato sulla base delle funzioni concretamente esercitate dalla persona fisica all’interno della societas, e non su quella della qualifica attribuita, così come era stato pronosticato nella Relazione stessa al Decreto (l’utilizzazione di una formula elastica è stata preferita ad un’elencazione tassativa di soggetti difficilmente praticabile, vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento quanto a dimensioni e natura giuridica).

Seguendo questo indirizzo, allora, fa parte, della categoria dei soggetti apicali, un’ampia categoria di persone41 che, a prescindere dalla loro qualifica formale, siano capaci di esercitare una vera e propria autorità sull’ente o su una sua unità operativa, orientandone la politica d’impresa stessa, come i membri del consiglio di amministrazione della società, ai quali spetta la gestione e il potere di promuovere l’azione deliberativa dei soci, manifestando, così, la volontà dell’impresa all’esterno, ma anche gli amministratori di fatto rientrano nella categoria, perché, pur non ricoprendo formalmente tale ruolo, ne esercitano le funzioni in modo continuativo e significativo, così come vi sono compresi i direttori generali che sono dipendenti della societas, ma svolgono anch’essi funzioni di direzione fondamentali.

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Non si possono, poi, dimenticare le persone che dirigono unità periferiche dotate di autonomia finanziaria e funzionale, che sono preposte a sedi secondarie ma stabili e previste nell’organigramma della sede centrale stessa, e coloro che hanno ricevuto una delega di funzioni; per valutare correttamente la posizione del delegato e non confonderlo con un subordinato, bisogna analizzare specificatamente il contenuto del potere trasferito, il suo tasso di autonomia, e i suoi poteri decisionali e organizzativi.

Alla classe dei soggetti previsti all’art. 5 comma 1 lett. b), ne fanno parte, invece, le persone fisiche legate all’ente da un rapporto di subordinazione e che, con il loro agire, non lo possono coinvolgere in modo automatico.

Il legislatore ha incluso, logicamente, anche questa categoria per evitare, attraverso il rovesciamento verso il basso della responsabilità da parte degli organi apicali, un’eventuale impunità per l’ente, e non si è riferito soltanto a coloro che hanno un rapporto di lavoro subordinato con la persona giuridica, ma anche a chi sia sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati all’art. 5 comma 1 lett. a), come, ad esempio, i collaboratori esterni che “si trovano a perdere parte della propria autonomia in favore dell’ente e, magari, a commettere reati nell’interesse dello stesso”42.

42 A. Frignani- P. Grosso- G. Rossi, I modelli organizzativi previsti dal d. lgs. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, in Le Società, 2002, p. 153.

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3.

La colpa di organizzazione e il sistema probatorio

ex

artt. 6 e 7 del Decreto 231.

I criteri soggettivi di imputazione previsti dall’art. 5, per esplicare i loro effetti, devono essere legati o alla regola di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 6, se l’autore del reato presupposto è un soggetto apicale, o con il sistema di responsabilità previsto all’art. 7, se l’autore del reato è un dipendente; ai fini dell’imputazione all’ente collettivo del reato presupposto occorrerà, quindi, non soltanto che l’illecito sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo e messo in atto da una delle suddette persone fisiche qualificate, ma questo dovrà anche essere espressione della politica aziendale e derivare da una ‘colpa di organizzazione’.

Infatti, all’art. 6, si elencano quattro condizioni ben precise: a) l’adozione di un modello di organizzazione e gestione idoneo ed efficace a prevenire il reato presupposto verificatosi, b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli deve essere affidato ad un organo preposto, l’Organismo di Vigilanza, c) l’Organismo di Vigilanza (OdV) non deve aver omesso di controllare o non deve avere insufficientemente vigilato, d) i soggetti apicali devono aver commesso il fatto di reato eludendo fraudolentemente il modello; soltanto qualora venga provata la sussistenza di tutte le circostanze da parte dell’ente, nel corso del procedimento a suo carico, esse potranno dispiegare la loro efficacia esimente e porteranno all’assoluzione della societas.

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La Relazione governativa, nello strutturare la responsabilità a carico della persona giuridica, prevede che questa debba essere rimproverata “della mancata adozione o mancato rispetto di standard doverosi, […] di modelli comportamentali specificatamente calibrati sul rischio-reato, cioè volti ad impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati”; per cui, il Decreto 231 introduce “una tecnica di controllo della criminalità d’impresa del tutto nuova per il nostro ordinamento, che consente al giudice penale di intervenire non solo applicando sanzioni, ma anche verificando l’adeguatezza della struttura organizzativa dell’ente, sotto il profilo della sua capacità a sviluppare correttamente momenti di controllo interno, idonei ad eliminare il rischio della commissione di reati presupposto”.

La colpa di organizzazione, dunque, persiste nel momento in cui l’ente non abbia rispettato determinati standard di diligenza nel compimento della sua attività, perchè non si è dotato di un compliance program, cioè di specifiche disposizioni impartite dal legislatore, da un’autorità di settore o da organismi di certificazione e regolamentazione anche interni all’ente stesso, concretamente capace di minimizzare il rischio-reato, e, da detta inosservanza/non conformità, deriva la conseguenza dannosa che la norma doveva prevenire; un tale procedimento può essere etichettato come colpevolezza di tipo normativo, visto che si tratta del risultato di un conflitto tra la volontà del soggetto/persona giuridica e

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le norme della società in cui esso vive e a cui deve adeguarsi43.

Proprio come nei Paesi anglosassoni, in particolare nell’esperienza statunitense da cui la compliance program appunto deriva, anche in Italia questi modelli ricoprono ormai una finalità essenzialmente preventiva, visto che si vuole rendere la persona giuridica capace di sviluppare, dal suo interno, gli anticorpi necessari per evitare comportamenti illeciti e indirizzarla verso una cultura d’impresa dedita alla legalità44; oltretutto la loro adozione ha diverse funzioni e può servire ad escludere la responsabilità dell’ente ad alcune precise condizioni, previste da varie norme del Decreto ( come esimente per i reati commessi dai soggetti apicali e subordinati ex artt. 6 e 7, se adottati ex post, dopo che l’illecito si è verificato, possono bloccare l’applicazione di sanzioni interdittive ex art 17 lett. b, o possono anche determinare una riduzione della pena pecuniaria ex art. 12 comma 2 lett. b).

Alcuni problemi, però, sono sorti sia per quanto riguarda l’elaborazione dei modelli stessi, essendo la disciplina sul punto alquanto carente e approssimativa ( l’art. 6 comma 2 elenca alcune caratteristiche che il modello deve comunque presentare, ma in modo generico ) sia per quanto attiene, poi, ai criteri richiesti per far sì che il modello possa esonerare l’ente dalla responsabilità per il reato presupposto compiuto: ci si è interrogati sulla obbligatorietà della sua adozione, sulla valutazione dei requisiti di idoneità ed

43 A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen., 2002, p. 33.

44 V. Valentini, Colpa di organizzazione e misure di compliance, in La prova nel processo agli enti, a cura di Fiorio, Giappichelli Editore, 2016, p. 81 ss.

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efficace attuazione, domande alle quali la giurisprudenza ha solo parzialmente dato una risposta e, di certo, non definitiva. Il tema dell’adeguatezza dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, dunque, è ancora in cerca di consolidamento, e sembra ancora lontano il tempo in cui l’esigenza di certezza, reclamata dalle imprese, sull’investimento fatto nella prevenzione del rischio di reato potrà dirsi soddisfatta.

Senza dubbio, questioni ancora aperte rimangono anche riguardo al ruolo e alla composizione dell’Organismo di Vigilanza45, e, in particolar modo, al requisito dell’elusione fraudolenta, richiesto per un proscioglimento completo della persona giuridica; una vera probatio diabolica per l’ente che dovrà dare prova degli inganni e dei raggiri messi in opera dai soggetti in posizione apicale46 per imbrogliare le procedure interne e i sistemi di controllo adottati nel modello organizzativo e commettere, così, un reato nell’interesse o a vantaggio della societas medesima.

Un discorso differente va, invece, fatto per quanto riguarda la responsabilità degli illeciti compiuti dai soggetti subordinati ex art. 7 del Decreto: il “poco probabile”47 reato dei sottoposti deve essere stato reso possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte dei soggetti apicali; tuttavia, l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione da parte dell’ente, comporta una presunzione iuris et de iure dei suddetti obblighi con

45 In dottrina e in giurisprudenza si sta consolidando un orientamento che prospetterebbe per i membri dell’OdV una responsabilità penale ex art. 113 c.p. (Cass., sez. I, 20 gennaio 2016, n. 18168, in w w w.puntosicuro.it).

46 A. F. Tripodi, L’elusione fraudolenta nel sistema della responsabilità da reato degli enti, Cedam, 2013. 47 D. Pulitanò, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002.

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conseguente esclusione della responsabilità per l’ente stesso.

La dimostrazione di queste condizioni, nel caso di specie, è a carico dell’accusa, anche perché il soggetto subordinato, a differenza di quello apicale, non è in grado di impegnare validamente, con la sua azione, la persona giuridica, essendo sprovvisto di quei poteri di gestione e direzione capaci di orientare la politica d’impresa della stessa; non a caso, moltissimi codici di comportamento, redatti dalle associazioni di categoria per le loro aziende, dedicano pochissimo spazio (o tralasciano quasi completamente) al compliance program per i reati commessi dai soggetti subordinati ex art. 7.

3.1. L’inversione dell’

onus probandi.

Il Decreto 231 stabilisce, quindi, un regime probatorio diversificato, a seconda che il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale o da persone ad essi sottoposte; l’art. 6, infatti, al comma 1 prevede che “l’ente non risponde del reato se prova che” ha messo in atto tutti i requisiti che poi di seguito elenca tassativamente.

Da siffatta inversione dell’onere probatorio discendono notevoli conseguenze per quanto attiene alle tecniche di accertamento processuale48 che evidenziano un inevitabile “alleggerimento probatorio dell’onere dimostrativo della

48 A. Bernasconi, Modelli organizzativi, regole di giudizio e profili probatori, in Bernasconi (a cura di) Il processo penale de societate, Giuffrè, 2006.

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pubblica accusa che si accinge a perseguire un corporate crime”49, in questo modo il pubblico ministero potrebbe, con fare artificioso, contestare comunque l’illecito amministrativo all’ente, nonostante abbia a carico della persona fisica elementi di prova deboli, soprattutto nel caso previsto dalla norma presente all’art. 8 del Decreto: se non si riesce ad identificare l’autore del reato, la pubblica accusa potrebbe semplicemente allegare elementi indiziari per far valere la presunzione che si tratti di un soggetto apicale e addossare all’ente l’onere di dimostrare la sua estraneità al fatto di reato50.

Questo sistema così delineato, però, potrebbe creare attriti con il principio della presunzione di non colpevolezza espresso dall’art. 27 comma 2 Cost. in base al quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”; l’onere della prova, dunque, alla stregua di questa regola, dovrebbe ricadere su chi sostiene la reità dell’imputato che, invece, dovrebbe essere esente da qualunque obbligo di contribuzione alla ricostruzione dei fatti storici, visto che costui si riterrà innocente fino a prova contraria.

Alla luce di queste considerazioni, allora, si dovrà valutare se anche la persona giuridica, una volta messa sul banco degli imputati, potrà usufruire delle stesse garanzie riconusciute dall’ordinamento giuridico all’imputato/persona fisica, o se, al contrario, l’ente collettivo, essendo un soggetto sui generis, dovrà rinunciare ad alcuni di quei diritti

49 A. Presutti- A. Bernasconi, op. cit., pp. 80-81.

50 C. Fiorio, Presunzione di non colpevolezza e onere della prova, in Fiorio (a cura di) La prova nel processo agli enti, Giappichelli Editore, 2016, p. 145 ss.

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costituzionalmente previsti in ambito processuale, visto il singolare contesto in cui si inserirebbe e il differente bilanciamento di interessi che si affermerebbe rispetto a quanto accade per la persona fisica51.

Anche la Suprema Corte ha avuto modo di pronunciarsi sull’argomento, e di estrema rilevanza, per compiere una sintesi del suo orientamento, è una sua sentenza del 201052 nella quale il giudice di legittimità ribadisce la compatibilità tra la disciplina ex art. 6 del Decreto e l’art. 27 Cost. comma 2; nella sua motivazione, infatti, si può leggere che “viene comunque posto in capo alla pubblica accusa l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie dell’illecito dell’ente e che quest’ultimo sarebbe semplicemente onerato di dimostrare, proprio per costruire la sua linea difensiva, le previsioni elencate nell’art. 6, concedendogli, in questo modo, un’ampia facoltà di fornire prova liberatoria”.

Visto che sarà la pubblica accusa a dover provare la sussistenza dell’illecito in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, “non ha alcun senso parlare di inversione dell’onere probatorio, quanto, invece, di un criterio di distribuzione della prova a carico dell’ente che spetta sempre all’accusa e viceversa, a discarico, alla difesa”53. Una disciplina strutturata in modo diverso è quella che, invece, viene delineata all’art. 7 comma 1 del Decreto nel caso di reato presupposto commesso dal subordinato, la quale addebita la responsabilità all’ente soltanto se la

51 S. Chimichi, Il processo penale a carico degli enti: il quantum della prova della colpa di organizzazione, in Diritto penale e processo, 5, 2004, p. 617.

52 Cass. pen., sez VI, sent. 16 luglio 2010, n. 27735, in C.E.D.

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realizzazione del fatto è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza54; l’onus probandi, in questo caso, è a carico dell’accusa che dovrà dimostrare non solo l’interesse o il vantaggio ricavato dalla persona giuridica nella commissione del reato da parte del dipendente, ma anche l’inosservanza dei suddetti obblighi.

Inoltre, all’art. 7 comma 2, si prevede che qualora l’ente abbia adottato un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi, debba essere esente da responsabilità; come è ovvio, non basterà la dimostrazione del semplice modello ‘su carta’, ma la persona giuridica dovrà provare la sua virtuosa organizzazione attraverso la presenza dei requisiti richiesti dal Decreto per una “efficace attuazione” del medesimo.

54 A. Bernasconi, Responsabilità amministrativa degli enti (profili sostanziali e processuali), in Enc. dir., Giuffrè, 2008, p. 973.

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CAPITOLO II

IL SISTEMA DELLE CAUTELE INTERDITTIVE IN RAPPORTO ALLE

GARANZIE COSTITUZIONALI E ALLE NORME DEL CODICE DI RITO

1. Il ridimensionamento della sanzione interdittiva

da pena accessoria a misura cautelare.

I mezzi di interdizione cautelare ex artt. 287 ss. c.p.p., introdotti per la prima volta nel nostro sistema processuale penale dal codice di rito nel 1988, non hanno destato un particolare interesse tra gli operatori della scienza giuridica, né hanno trovato larga applicazione nella pratica giurisprudenziale55.

Effettivamente una seria valorizzazione degli strumenti interdittivi in sede cautelare si è soltanto verificata con l’introduzione del processo de societate ad opera del Decreto 231 nel 2001; ne sono, dunque, derivati diversi spunti di riflessione che hanno fornito nuova linfa allo studio dei risultati ai quali può ambire la strategia interdittiva.

Le misure cautelari interdittive seguono nei contenuti (ad eccezione dell’interdizione legale e dell’estinzione del rapporto di impiego e di lavoro) le tipologie delle pene accessorie ex art. 19 c.p., ma superano, in modo definitivo, “qualsiasi odiosa e incostituzionale logica di anticipazione della sanzione afflittiva”56, delineando un’innegabile svolta sul piano processuale; infatti, le pene accessorie, restrittive della capacità giuridica (la cosiddetta capitis deminutio),

55 Tra i testi più importanti sull’argomento si ricorda: F. Peroni, Le misure inderdittive nel sistema delle cautele penali, Giuffrè, Milano, 1992, p. 3 ss.

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erano già conusciute nel diritto romano, per poi sopravvivere al passare dei secoli ed essere assorbite dal codice penale del 1930 dove, di diritto, conseguono alla condanna alla pena principale e possono essere perpetue o temporanee, ma vi si prevedeva anche un sistema di applicazione provvisoria delle suddette ex art. 140 c.p. nel momento in cui il giudice, una volta valutata la prognosi di una futura condanna alla pena accessoria e analizzata la specie e gravità del reato commesso, riteneva che vi fossero i presupposti per una loro esecuzione momentanea.

L’entrata in vigore della Carta Costituzionale repubblicana nel 1948 ha, però, portato alla luce vari punti di frizione tra il meccanismo così creato dell’applicazione anticipata della pena accessoria e le garanzie costituzionali: in primo luogo, l’istituto in esame sembrava essere in conflitto con la presunzione di non colpevolezza ex art. 27 comma 2 Cost., e, in secondo luogo, il sistema applicativo della pena accessoria, previsto in via anticipata, non collimava pienamente con il principio giuridico nulla poena sine lege, dettato dall’art. 25 comma 2 Cost.

Inoltre, e forse rappresentava il vulnus più grave, questo metodo non permetteva il pieno esercizio di un altro diritto costituzionalmente garantito dall’art. 24 comma 2, quello alla difesa: non solo nel momento antecedente all’applicazione della misura era di fatto escluso qualsiasi spazio all’intervento difensivo, ma anche successivamente all’esecuzione del provvedimento interdittivo visto che, ad

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esempio, non si ammetteva l’impiego dei mezzi di impugnazione57.

L’istituto in questione, però, ha affrontato con successo il giudizio della Consulta che, in una sua sentenza del 196958, ha ritenuto infondata la questione relativa all’incompatibilità dell’art. 140 c.p. con l’art. 27 comma 2 Cost.; il giudice delle leggi ha ribadito che “l’applicazione provvisoria delle pene accessorie non cosituiva un’irrogazione di pena antecedente al giudizio, ma una semplice misura di prevenzione che non contrastava con il principio di non colpevolezza” dal momento che l’apprezzamento del fumus boni juris dell’accusa da parte del giudice delineava una forma di garanzia per l’imputato.

Quindi, i motivi di un’applicazione provvisoria della pena accessoria venivano individuati nella “necessità di rispettare le esigenze di prevenzione e di cautela nell’interesse della persona offesa e della collettività intera, sacrificando, così, il diritto del singolo a non subire misure afflittive prima di una sentenza definitiva di condanna”59.

I meccanismi afflittivi temporanei previsti dall’art. 140 c.p. assumono connotati cautelari soltanto con la L. n. 689 del 1981 che colloca le pene accessorie applicate provvisoriamente non più “nel campo della pura difesa sociale ma in quello più solido delle misure cautelari”60, ridisegnando la natura dei presupposti applicativi a fini di carattere processuale e sottolineandone le specificate e

57 F. Peroni, op. cit., p. 18 ss.

58 Corte Cost., 11 aprile 1969, n. 78, in Giur. cost., 1969, p. 1116 ss.

59 S. Larizza, Sulla provvisoria applicazione di pene accessorie, in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, p. 873. 60 P. Pisa, Le pene accessorie. Problemi e prospettive, Giuffrè, 1984, p. 35.

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inderogabili esigenze istruttorie e la necessità di prevenire la reiterazione del reato.

Questo cammino di emancipazione delle misure interdittive dalle pene accessorie culmina con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale nel 1988 che abroga definitivamente l’art. 140 c.p.: nel neonato codice di rito le cautele interdittive vengono previste ed inserite all’interno del quarto libro dedicato alle misure cautelari, condividendone la disciplina con le cautele coercitive, fatte salve alcune precise diversità (ad esempio, le ordinanze applicative di misure interdittive sono soggette ad appello ma non a riesame).

Ma, come espresso all’inizio del paragrafo, le misure cautelari interdittive non hanno trovato un grande utilizzo da parte dei giudici, anche se devono essere evidenziati alcuni segni che lascerebbero presagire una nuova vita per le cautele interdittive: in particolar modo la sentenza Torreggiani61 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2013 sul sovraffollamento delle carceri italiane legato anche all’uso eccessivo della custodia cautelare in carcere, ha dato il via ad una serie di riforme; in questa pronuncia, infatti, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della CEDU in relazione alle condizioni disumane di detenzione e ha obbligato il nostro Paese ad adottare quanto prima le misure necessarie per porre rimedio a questa situazione.

Al legislatore italiano, quindi, è stato imposto di rivedere la disciplina cautelare e di rispettare con più vigore il principio dell’inviolabilità della libertà personale; ne deriva che la

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limitazione della libertà individuale potrà essere consentita solo “in una fascia limitata di casi che costituiscono l’eccezione alla regola secondo cui l’imputato attende il giudizio e vi partecipa libero. La vera meta di una riforma ispirata alla pronuncia della Corte europea è quella di riassumere nella fissazione di un obiettivo più avanzato della pur importante attuazione del principio di tassatività, raggiunto con il codice del 1988, che punti su norme capaci di tradurre in concreto il valore dell’inviolabilità”62.

Il ‘restauro’ del settore cautelare si è, infatti, arricchito di un altro tassello rappresentato dalla L. 16 aprile 2015, n. 47 che, seppur in maniera minima, ha interessato, oltre le misure coercitive, anche alcuni aspetti di quelle interdittive allo scopo specifico di incentivarne l’utilizzo in luogo delle prime, incidendo, in particolare, sulla disciplina della durata dell’interdizione, estesa da due a dodici mesi e, comunque, sempre modulabile da parte del giudice, e poi ha reso possibile il cumulo tra misure cautelari anche tra loro eterogenee; la custodia cautelare in carcere viene, ormai, considerata come extrema ratio, applicabile solo quando non ci siano altre strade percorribili, cercando, in tal maniera, di ovviare alla questione del sovraffollamento carcerario, almeno nella fase cautelare del procedimento.

Dopo questo breve excursus è, allora, innegabile che le cautele interdittive abbiano svolto un ruolo da protagoniste soltanto nel rito de societate ex d. lgs. n. 231/2001 nel quale gli strumenti interdittivi, diretti a determinare una momentanea capitis deminutio della persona giuridica, sono

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predominanti rispetto alle residuali misure del sequestro preventivo e di quello conservativo63.

1.1. I parametri costituzionali entro cui iscrivere il

fenomeno cautelare interdittivo e il problematico

rapporto con l’art. 13 Cost.

Abbiamo visto come la definizione della natura della responsabilità degli enti abbia attanagliato e diviso numerosi giuristi e come la soluzione a questa ‘diatriba’ abbia comportato una serie di effetti anche incisivi sulla materia: se si opta per una responsabilità penale allora si dovranno seguire non solo i principi del modello penalistico da un punto di vista sistematico, ma anche da quello costituzionale, dando piena applicazione a tutte le garanzie previste per l’imputato/persona fisica; laddove, al contrario, si scelga la strada della responsabilità amministrativa, ci si dovrà basare sui soli principi generali sanciti per l’illecito amministrativo dalla L. n. 689 del 1981.

Il legislatore ha, però, assegnato la competenza ad accertare l’illecito dell’ente al giudice penale e, in effetti, sembrerebbe incoerente scegliere la sede del processo penale ma poi ignorarne le garanzie che lo contraddistinguono64; dunque, “le regole del gioco sono e non possono che essere quelle che tale modello impone”65, e bisogna attenersi a

63 F. Cerqua, Cautele interdittive e rito penale, Maggioli Editore, 2015, p. 6 ss.

64 Anche se, dopo il primo decennio di applicazione del Decreto 231, ad esempio G. Garuti ne Il processo “penale” agli enti a dieci anni dall’nascita, in Dir. pen. proc., 2011, p. 791, ha osservato la scarsa rilevanza pratica del rinvio operato dagli artt. 34- 35 alle disposizioni del codice di rito, il cui contenuto rimane semplicemente sullo sfondo. 65 M. L. Di Bitonto, Studio sui fondamenti della procedura penale d’impresa, Editoriale scientifica, 2012, p. 59.

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