Un interessante aspetto che è possibile cogliere dallo studio dei materiali compresi nei diversi complessi votivi è quello che si ottiene dalla ricerca delle relazioni tra le diverse categorie di doni votivi e coloro che li hanno offerti nei vari luoghi di culto. Per quanto riguarda la produzione figurata, quindi essenzialmente lamine e statuette, non si hanno a disposizione dati sicuri che permettano di affermare con certezza se tali oggetti raffigurino immagini degli offerenti o delle divinità oggetto del culto. Quasi la totalità delle immagini analizzate nel corso della trattazione sono state interpretate
251 Ciò è provato dalla diffusione del morfema usato a Lagole anche nel Veneto settentrionale e nella
zona nordorientale fino poi a Oderzo e Altino, con varia gradualità nel trapasso verso sud. Marinetti in Catalogo del Museo di Pieve di Cadore, p.65.
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come immagini di devoti e la motivazione addotta riguarda l’atteggiamento delle figure, identificate come oranti od offerenti e spesso ritratte con un oggetto in mano, oltre che la loro varietà tipologica e il loro ricorrere in gruppi e teorie.
Numericamente parlando, chi dedicava maggiormente l’immagine di sé stesso alla divinità erano gli uomini: nella maggior parte dei casi sono rappresentati sia a piedi che a cavallo e sono connotati come portatori di armi, a testimonianza del fatto che mostrarsi in tali vesti dovesse avere una notevole importanza sociale. Le immagini di cavalieri, che compaiono in gran numero sulle lamine atestine e molto spesso anche fra le statuette di Padova e del suo territorio, lasciano trasparire il particolare prestigio attribuito dai Veneti a una tale connotazione. L’importanza dei cavalli e dell’essere cavaliere, l’uso di seppellire questi animali con un sacrificio intenzionale o meno, soprattutto nelle necropoli, sono elementi che hanno permesso di collegare l’area paleoveneta all’ambito culturale dell’Europa centrorientale, piuttosto che italico.252 Inoltre, la rilevante quantità di doni votivi rappresentanti cavalli e guerrieri a cavallo rinvenuta nei luoghi di culto, oltre che ai culti di tipo eroico già ipotizzati per il santuario di San Pietro Montagnon e ai sacrifici di cavalli in onore di Diomede,253 è stata ricollegata anche alle notizie ricavabili dalle fonti storiche relative alla fama dei Veneti quali allevatori di cavalli.254
Per quanto riguarda invece le rappresentazioni di personaggi femminili, queste sono piuttosto numerose, anche se il loro numero rimane inferiore a quello dei personaggi maschili e la loro diffusione è parsa limitata all’area del Veneto meridionale, nelle aree situate nella zona gravitante sul basso corso del fiume Adige. Si tratta di figure il più delle volte rappresentate con
252 Pascucci 1990, p.235, in particolare nota 79. 253 Cfr. supra, p.95.
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indosso un sontuoso abbigliamento, ricco e complesso, che le qualifica come donne di alto rango, ma c’è un particolare elemento che viene spesso raffigurato e che merita quindi una specifica menzione. Alcune figure, sia tra i bronzetti che tra le lamine, sono rappresentate con un disco sul capo o davanti al volto, si ricordano a tal proposito gli esempi della cosiddetta “dea di Caldevigo” e delle lamine con figure femminili provenienti anch’esse da Caldevigo (Fig.14 e Fig.19). Queste particolari rappresentazioni, come anche la presenza, in alcuni complessi, di peculiari manufatti a forma di disco in lamina ritagliata con decorazione figurata o geometrica, sono state ricollegate con un culto del sole.255 La presenza del disco sul capo di personaggi femminili connotati da un tipo di abbigliamento particolarmente vistoso ha fatto quindi pensare che esso non sia la rappresentazione di una semplice acconciatura, quanto piuttosto un oggetto carico di un significato simbolico rimandante a questo particolare tipo di ritualità.
Volendo comunque tentare di ricostruire una possibile immagine della o delle divinità venerate dai paleoveneti e prendendo in considerazione come prima cosa i donari rinvenuti nei santuari atestini, questi restituiscono delle immagini estremamente laconiche. Con la sola eccezione del santuario del predio Baratella e, forse, di quello rinvenuto in località Casale, nessuno dei moltissimi ex voto figurati raccolti nelle stipi votive ha alcuna possibilità di rappresentare la divinità oggetto del culto.
Nel santuario della località Casale, la decorazione delle metope del tempio di età tardorepubblicana, restituendo una testa elmata o pileata, conserva quella che forse è la interpretatio romana della divinità indigena.256
255 Pascucci 1990, p.156, nota 78. 256 Cfr. supra, p.31.
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In tal senso, in ovvia relazione con il gran numero di ex voto raccolti, è risultata più significativa la stipe rinvenuta nel fondo Baratella. Anche in questo caso, comunque, è solo tra i materiali di età romana che si contano diverse sicure immagini delle divinità titolari del culto.257 Per quanto riguarda invece l’età preromana, tra le decine di bronzetti e di lamine figurate, si possono menzionare solo due figure di Eracle: per la prima, si tratta di un elemento decorativo di un vaso di età tardo classica; per la seconda, invece, di un bronzetto dipendente da modelli centro-italici di III secolo a.C.258 Alla tarda età repubblicana e alla prima età imperiale risalgono invece delle statuette raffiguranti Minerva: pur mancando dediche in latino, l’iconografia della dea non lascia dubbia sulla sua identificazione. In età di romanizzazione, quindi, apparentemente senza traumi e grandi stravolgimenti, anche il culto ha assorbito l’elemento romano e i tratti distintivi della divinità locale venerata in questo santuario sono confluiti soprattutto in quelli di Minerva. A questo proposito, può essere evidenziato il fatto che è possibile confrontare la tipologia delle offerte qui rinvenute con quanto è conosciuto circa la dea romana Minerva, importantissima divinità italica identificata già in epoca arcaica con la dea greca Atena, con la quale gli elementi di collegamento appaiono molto numerosi.259 Minerva, infatti, come la divinità venerata a Este, presiedeva l’apprendimento dell’arte della filatura e della tessitura da parte delle fanciulle prima del matrimonio, era una divinità sanatrice e oracolare, oltre che colei che presiedeva a matrimoni e all’ingresso dei giovani tra gli adulti e tra i guerrieri. L’accostamento, poi, di Ercole e Minerva risponde a una tradizione di origine greca e italica ed è risultato sicuramente funzionale
257 Cfr. supra, p.40.
258 Meggiani in Este preromana 2002, p.82, nota 41. 259 Mastrocinque 1987, p.110 s.
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all’ideologia che presiedeva al tirocinio dei giovani, trattandosi di un eroe legato alla guerra, alle vittorie e alle fatiche.
Tra le statuette bronzee rinvenute nella stipe Baratella, se ne ricorda una raffigurante una divinità in trono, nella quale va identificata una personalità differente: la dea, completamente ammantata e con un diadema sul capo, sta seduta in trono, con i piedi poggiati su un alto poggiapiedi; nella sinistra, la divinità stringe un lungo scettro, la destra è portata di lato e posta in connessione con un oggetto difficilmente identificabile, nel quale potrebbe riconoscersi una coppa da cui beve un serprente.260 In questo caso, l’iconografia è quella utilizzata in età imperiale per rappresentare Vesta, riconoscibile soprattutto dall’attributo dello scettro e dalla presenza del serpente.261 Si tratta di una divinità con competenza sul mondo femminile e nella sfera della guarigione e a essa possono rimandare i non pochi ex voto anatomici in lamina di bronzo rinvenuti nel santuario.
Il caso di Lagole di Calalzo risulta particolarmente chiarificatore per cogliere alcuni aspetti di nostro interesse. In questo luogo di culto gli offerenti sono tutti maschi e tutti chiaramente qualificati come guerrieri: infatti, a parte gli strumenti prettamente legati al rituale, i donari sono costituiti esclusivamente da statuette di guerrieri e da armi. Tra le tante immagini di guerrieri, modalità con cui il devoto intende probabilmente rappresentare se stesso, se ne differenziano alcune che presentano caratteri particolari, tanto da far chiedere se si tratti della riproduzione dell’immagine di un dio o dell’offerente.262 Si tratta di figure che presentano calzature speciali, nelle quali si riconoscono le embades greche, degli stivaletti che hanno l’orlo rovesciato, fatti con pelli di animali. Sono
260 Mastrocinque 1987, p.112, immagine 73. 261 Meggiani in Este preromana 2002, p.82, nota 45.
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state ritenute delle semplici calzature di cacciatori, ma può essere tentata un’ulteriore spiegazione tenendo conto del fatto che, nella documentazione figurata greca, etrusca e anche romana, queste sono un particolare tipo di calzature solitamente riservate a personaggi del mito, eroi o divinità.263 Il trapasso poi al periodo della romanizzazione non rivela lacune per quanto riguarda la continuità del culto. Le divinità romane sono tutte maschili e maschili continuano a essere i dedicanti.
L’unica iconografia divina che è sembrato possibile identificare tra i materiali di produzione locale veneta può ravvedersi in un particolare ritrovamento fatto a Montebelluna (Tv), un importante centro fin dagli inizi dell’età del Ferro con un significativo ruolo di controllo all’accesso della valle del Piave (Fig.1).264 Si tratta di quattro dischi bronzei di cui si ignora completamente il contesto di rinvenimento, ma che è stato possibile datare tra la seconda metà del IV e la prima metà del III secolo a.C. grazie al confronto degli oggetti che vi sono rappresentati con esemplari datati allo stesso orizzonte cronologico (Fig. 77 a-d).265
All’interno della già più volte sottolineata suddivisione non solo geografica tra un’area sudoccidentale del Veneto, gravitante sull’Adige, in cui predominante si è rivelata la componente femminile, e un’area nordorientale, gravitante sul sistema fluviale costituito dal Brenta e dal Piave, in cui invece prevalente e pressoché esclusiva si è rivelata quella maschile, un tale ritrovamento, avvenuto proprio in quest’ultima, viene a costituire una non poco rilevante anomalia, sottolineando ulteriormente come questa fosse una zona di frontiera culturale, nella quale un ruolo non indifferente sembra giocato da presenze etniche non propriamente venete.
263 Meggiani in Este preromana 2002, p.84, note 60-62.
264 Per lo studio sui dischi, Capuis-Gambacurta 1998, pp.112-118. 265 Capuis-Gambacurta 1998, p.113.
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In uno di questi dischi si ritrova quella che è stata considerata l’unica immagine di divinità documentata nella tradizione iconografica del Veneto preromano (Fig. 78 c). La disposizione degli animali attorno alla figura femminile richiama uno schema di origine orientale, diffuso dall’VIII-VII secolo a.C. nel mondo greco ed etrusco,266 invece l’abbigliamento è tipicamente veneto. Infatti, mentre tutte le altre raffigurazioni, quali i vari bronzetti, le lamine atestine o la cosiddetta “dea di Caldevigo”, sono tendenzialmente viste come generiche immagini di devote, seppur in molti casi devote di alto rango o ruolo o funzione, l’iconografia qui presente non ha lasciato dubbi sul fatto che si tratti di un’epifania divina. La presenza di un lupo, animale di terra nonché simbolo ctonio per eccellenza, e un grande uccello-grifo, animale di aria, connotano in maniera chiara il nume come una dea della natura, Signora degli animali e della vegetazione, come colei che governa le sorti del mondo, signora della vita e della morte, del ritmo delle stagioni, della fertilità della terra e degli uomini. Dal mantello, spunta poi il torquis, ornamento che nel mondo celtico è riservato alle donne di alto rango, e in mano tiene una chiave.267 Animali, chiave e torquis sono tutti simboli di immediata comprensione per genti e culture diverse, che potevano così facilmente riconoscere quale nume fosse rappresentato. Una tale divinità, nel mondo greco è assimilata a Era, figura dagli ampi attributi nell’ambito delle funzioni cosmiche, in particolari femminili, in cui si riuniscono denominazioni molto varie e collegate a valenze ben precise che la assimilano ad altre divinità quali Artemide, Atena, Afrodite, Demetra, Persefone o Ekate. Attributo comune a molte di esse è la chiave, data la sua caratterizzazione simbolica di potere, autorità e avvicendamento di vita e di morte. Questo complesso insieme di nomi e funzioni che ruota attorno a questa figura ha precisi riscontri anche nel Veneto sia per quanto attiene
266 Maioli-Mastrocinque 1992, p.46, nota 174. 267 Capuis-Gambacurta 1998, p.115, nota 27.
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l’unico teonimo attestato con certezza, sia per quel poco che sulla religione veneta tramandano le fonti.268 Risulta quindi una stretta convergenza tra la divinità venerata dai Veneti e la “Grande Madre”. Il fatto che l’unica iconografia divina riconosciuta con certezza, e precisamente un’iconografia che riunisce molteplici riferimenti culturali, provenga dall’area plavense si trova bene a fare sistema con numerosi altri indicatori archeologici di una variegata koinè, in gran parte di matrice adriatica, che nelle seconda età del Ferro caratterizza in modo sensibile il Veneto centro- orientale, con epicentro a Padova e irraggiamento nel suo territorio di controllo, da Altino a Oderzo fino alla valle del Piave.269
Gli altri dischi, invece, mancano della presenza degli animali in favore di un più generico rimando alla sola sfera vegetale, di cui comunque la divinità è signora e padrona, conservando sempre l’attributo parlante della chiave. Tale cambiamento potrebbe indicare un passaggio da una idea generica di “Grande Madre” a una ritualità più specifica e motivata, strettamente legata a un nuovo sfruttamento delle risorse in una zona critica tra alta e bassa pianura. In un’ottica di tal genere ben si inquadrerebbero anche la presenza delle lamine cosiddette “a pelle di bue”, che si ritrovano nell’alta valle del Piave, e delle raffigurazioni di mandrie con pastori e dei gioghi tipiche del luogo di culto a Villa di Villa, che verrebbero a essere un ulteriore sintomo di una specifica religiosità legata alle principali potenzialità, l’agricoltura e l’allevamento.
268 Capuis-Gambacurta 1998, p.116.
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CONCLUSIONI
Il caso del Veneto antico è un caso particolare. Qui, ancora tra il V e il III secolo a.C., si hanno attestazioni di culti di tradizione locale quasi incontaminati, senza influenze da elementi stranieri. In questa zona, il culto per le divinità delle sorgenti termali o la venerazione della “Signora degli animali” costituiscono un lascito religioso antichissimo, che accomuna i Veneti a tutti gli altri popoli italici. La ragione principale della comparsa delle stipi votive nel Veneto a partire dal V a.C. e dell’assenza di templi in forma monumentale è stata ricercata nella storia politica e sociale dei suoi abitanti. Fino alla romanizzazione della regione, avvenuta a partire dal II secolo a.C., in Veneto si continuò a vivere in villaggi o in agglomerati urbani costituitisi dal sinecismo di più villaggi contigui. Questo fatto ha costituito una fondamentale differenza con quanto accadde nel resto della penisola, nella quale le città nacquero molto spesso con una razionalizzazione e una predisposizione degli spazi urbani fin dalla prima formazione, con la conseguente edificazione di templi in forma monumentale e di edifici pubblici in materiale non deperibile. Nel mondo paleoveneto non si presentò una situazione di questo tipo perché i centri veneti non avevano una sufficiente organizzazione come stato o città-stato, in cui un’autorità centrale fosse in grado di concentrare le risorse necessarie per edificare simili strutture pubbliche. Il fatto che, a partire dal VI, ma soprattutto dal V secolo a.C., si assista all’impianto di luoghi di culto stabili e organizzati e all’esplosione delle manifestazioni legate al culto, ha consentito di attestare l’esistenza di nuove forme associative, create o comunque rafforzate in questo preciso momento storico. Allo stesso tempo però è stata constatata la permanenza di culti a carattere domestico, come testimoniato dalle stipi rinvenute a Padova in contesto cittadino. Fanno eccezione le stipi come quella di Lagole o di San Pietro Montagnon, che
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invece, non essendo collegate con insediamenti antichi, sono documenti di un’altra forma di associazione, quella di tipo federale.
Il manifestarsi del sacro in luoghi specifici e destinati a un culto di tipo pubblico, con il conseguente abbandono della dimensione privata, portò anche all’avvio di una nuova attività artigianale, specializzata nella produzione di oggetti realizzati appositamente con finalità votive. Un tale cambiamento è stato più precocemente ravvisabile in rapporto ai centri egemoni di pianura, a Este e a Padova, già proiettati in una dimensione urbana sul finire del VII secolo a.C., per estendersi rapidamente a tutto il territorio con un fiorire di grandi e piccoli luoghi di culto. Fu, quindi, questo graduale affermarsi di nuove pratiche religiose e questo nuovo atteggiamento sociale all’interno del rinnovato clima di urbanizzazione che portò alla realizzazione di specifiche classi di oggetti a uso prettamente votivo, nonché alla stabilizzazione di spazi pubblici a funzione esclusivamente sacrale.
A questo proposito, è ben noto che per il Veneto non è possibile parlare di santuari nell’accezione più classica del termine, cioè intesi come veri e propri complessi templari: si tratta, piuttosto, di aree sacre all’aperto, per le quali si sono comunque raccolti indizi di recinti ed edifici elementari già dalle prime fasi di impianto. A Este, nel santuario rinvenuto nel predio Baratella, la gran parte dei materiali votivi sono stati rinvenuti a ridosso di un muro che probabilmente sosteneva una terrazza e delimitava l’area sacra; una terrazza doveva delimitare anche l’area sacra rinvenuta in località Casale; in località Meggiaro, è stata invece documentata una massicciata costruita in materiale non deperibile e marcante il margine occidentale del luogo di culto; a San Pietro Montagnon, il rinvenimento di alcuni pali infissi al centro del laghetto termale ha fatto pensare al sostegno per un impalcato ligneo su cui probabilmente si trovava l’edicola della divinità, mentre il confine dell’area doveva essere rappresentato dal
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perimetro del lago stesso; a Vicenza, il rinvenimento di una struttura in grosse pietre ha fatto pensare a una terrazza delimitante la zona cultuale, ubicata su un isolotto affiorante nella zona paludosa; ad Altino, è stata ipotizzata la presenza di un edificio o di una sorta di recinto in materiale non deperibile in base al rinvenimento di materiali riferibili al crollo dell’alzato di un muro.
Questi casi in cui sono state trovate tracce di tali strutturee non sono risultati comunque molto utili nel tentativo di una ricostruzione della probabile strutturazione dei luoghi di culto paleoveneti. In base ai dati raccolti, è stato invece immaginato che la costruzione di strutture durature fosse legata piuttosto a interventi di natura contingente, quale per esempio il problema della gestione della variabilità dei regimi fluviali, e che fosse quindi lo stesso ambiente naturale, uno specchio d’acqua o una radura tra i boschi, a suggerire l’idea di un’area sacra circoscritta, sentita come sede della divinità.
Pur nel sottofondo comune e unificante costituito essenzialmente dalle tematiche dell’acqua e dalla preferenza per il bronzo per le offerte votive, sono comunque state evidenziate delle caratteristiche locali che differenziano e specificano ogni centro di culto veneto, sia a livello di classi preferenziali di votivi sia a livello di modalità di rito. La semplice distribuzione nel territorio delle classi tipologiche dei materiali ha fatto sì che fosse possibile rimarcare una sostanziale differenza tra la documentazione e quindi tra i luoghi di culto localizzati nell’area meridionale del Veneto, gravitanti sull’Adige e sul territorio di specifica influenza atestina, rispetto a quelli siti in area settentrionale, di controllo o influenza patavina e gravitanti piuttosto sul sistema fluviale costituito dal Brenta e dal Piave.
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Nel primo caso, gli indizi rilevabili dai dati analizzati sono stati riassunti in una significativa presenza della componente femminile nella ritualità dei luoghi di culto e, quindi, nella religiosità a essi sottesa: il nome della divinità denominata Pora-Reitia, i numerosi ex voto legati alla filatura e alla tessitura, le ricorrenti raffigurazioni femminili in bronzetti e lamine bronzee e le iscrizioni con dediche riportanti quasi esclusivamente nomi femminili. Tipica è sembrata poi essere la valenza aristocratica sottesa ai riti di passaggio e di iniziazione che coinvolgono anche le fanciulle. L’elemento maschile è invece espresso da guerrieri in assalto, vestiti in armamento oplitico, e da figure che cercano sempre di mettere in evidenza il rango e lo status sociale del dedicante.
Nella parte settentrionale del Veneto è stata invece riscontrata una preminenza dell’elemento maschile e una quasi totale assenza di immagini o riferimenti all’elemento femminile. Si tratta di un’area in cui considerevole è stato il ritrovamento di iscrizioni votive maschili, in cui si ha una maggiore presenza di bronzetti raffiguranti guerrieri rappresentati principalmente in posizione di riposo, in cui considerevole è l’iconografia militare e in cui più che altrove sono stati riscontrati la presenza e l’influsso