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Santuari e luoghi di culto nel Veneto preromano

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Corso di Laurea Magistrale in Archeologia

SANTUARI E LUOGHI DI CULTO NEL VENETO

PREROMANO

Relatore: Lisa Rosselli Correlatore: Chiara Tommasi Candidato Eleonora Detti Anno Accademico 2018/2019

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Indice generale

Introduzione 1

Parte prima: Ricostruzione di una geografia del sacro nel Veneto antico I. Le aree di culto urbane 9

I.1 Vicenza 9

I.2 Padova 12

I.2.1 Il santuario di Giunone 16

I.2.2 Le stipi votive 17

II. I santuari suburbani 23

II.1 Este 24

II.1.1 Il santuario in località Caldevigo 27

II.1.2 Il santuario in località Morlungo 30

II.1.3 Il santuario in località Casale 30

II.1.4 Il santuario in località Meggiaro 32

II.1.5 Il santuario nel fondo Baratella 36

II.2 Altino 43

II.2.1 Il santuario in località Fornace 45

III. I santuari extraurbani 50

III.1 San Pietro Montagnon 51

III.2 Lova di Campagna Lupia e Altichiero 54

IV. I santuari territoriali 56

IV.1 Lagole di Calalzo 57

IV.2 Villa di Villa 62

Parte seconda: I distretti territoriali e le fisionomie del culto I. Analisi dei complessi votivi 67

I.1 Suddivisione e distribuzione dei depositi per composizione 68

I.2 Suddivisione dei depositi per distribuzione di classi votive 72

II. Analisi delle forme del culto 79

II.1 Il settore Meridionale 79

II.1.1 Il caso atestino 81

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II.2 Il settore settentrionale 92

II.2.1 I culti pubblici del territorio 93

II.2.2 Padova e i ritrovamenti nell’agro patavino 97

III. I dati delle iscrizioni 102

III.1 Le iscrizioni atestine 102

III.2 Le iscrizioni dell’area settentrionale 107

IV. Per un’iconografia divina 112

Conclusioni 120

Apparato immagini 126

Bibliografia 155

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INTRODUZIONE

La civiltà paleoveneta fiorì in quella parte dell’Italia settentrionale corrispondente all’incirca all’attuale territorio del Veneto, in un’area compresa tra il basso corso dell’Adige e l’Isonzo, fra le Alpi e l’alto Adriatico. Si tratta di un territorio caratterizzato principalmente dalla presenza di montagne e di numerosi corsi d’acqua, elementi che condizionarono notevolmente ogni forma di aggregazione territoriale e di manifestazione di questa civiltà. Per quanto il territorio abbia rivelato tracce di insediamenti databili fin dalle epoche preistoriche, è possibile collocare gli albori del popolo paleoveneto solamente a partire dal X secolo a.C. circa, per poi perdurare fino al momento della romanizzazione, avvenuta in modo graduale e totalmente pacifico attorno al II secolo a.C. Gli insediamenti più consistenti erano distribuiti lungo le principali arterie di traffico della regione, costituite essenzialmente dai fiumi di maggiore rilievo e dalle loro valli: tra questi primi aggregati, solo per Este e Padova sono stati fatti i ritrovamenti archeologici di maggiore consistenza, tali da fornire un quadro più completo dello sviluppo della civiltà dei Veneti. Di tali recuperi sono stati studiati e si sono rivelati particolarmente essenziali soprattutto quelli effettuati in aree di necropoli, trattandosi di insiemi di materiali che hanno permesso di acquisire i dati più consistenti e permettendo al contempo di ricostruire un quadro più organico del contesto in cui si è sviluppata questa civiltà.

Fino al VI secolo a.C., la dinamica di popolamento della regione prevedeva una serie di nuclei abitati sparsi, localizzati in luoghi strategici, scelti in primo luogo in base a una logica di diretto controllo territoriale, come per esempio punti nodali legati al traffico fluviale o a particolari percorsi terrestri diretti verso le regioni appenniniche e alpine; in secondo luogo, le zone scelte erano atte a garantire un certo livello di sicurezza, in quanto la

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regione, data la presenza di numerosi fiumi, è da sempre stata soggetta ad allagamenti e smottamenti del terreno. Gli abitati venivano quindi a trovarsi principalmente sulle dorsali dei colli o nelle anse dei fiumi che percorrono ancora oggi il territorio. Nel aree della penisola italiana a diretto contatto con il popolo veneto, come per esempio l’Etruria padana, il cambiamento nelle forme di occupazione del territorio e l’evoluzione degli abitati in senso urbano, quindi con una sorta di pianificazione costruttiva degli spazi pensata fin dal momento della fondazione, si coglie a partire dal VII secolo a.C. Questo cambiamento nel Veneto, invece, sembra giungere con un secolo di ritardo: è dal VI secolo a.C., infatti, che anche in quest’area si inizia a cogliere una certa programmazione e una predisposizione per quanto riguarda la suddivisione e la destinazione degli spazi urbani.

Ciò che prende in esame questo studio sono, in particolare, i modi in cui veniva manifestato il culto rientrante nella sfera religiosa, piuttosto che in quella funeraria, che si iniziano a cogliere in modo più consistente a partire dal VI secolo a.C. Prima di tale momento, queste esternazioni sono conoscibili per lo più attraverso le testimonianze di atti di devozione nei confronti dei defunti, mentre le tracce legate ad attività di culto vere e proprie sono rare. Fra VI e V secolo a.C., si assiste a un cambiamento interno alla società paleoveneta, con un rinnovato e comune riconoscimento in nuovi valori morali rappresentati anche da entità religiose comuni e non più legate a particolari gruppi o clan privati. Questo fatto comportò la comparsa di nuovi fenomeni legati al culto, che però non documentano la comparsa dei culti stessi quanto piuttosto il cambiamento del loro significato all’interno e per la società. Fino a questo momento, infatti, le manifestazioni cultuali e di devozione erano legate alla sfera privata, all’ambito familiare. Il fatto che adesso sorgano luoghi stabili in

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cui manifestare il culto, riconosciuti non più da un ristretto nucleo familiare, ma da un’intera comunità, è uno dei sintomi più significativi della nuova dimensione urbana e del nuovo assetto sociale e quindi lascia intendere come fosse stata messa in pratica una nuova forma di controllo del territorio: i vecchi valori delle società tribali e gentilizie, dominate dalle aristocrazie, vengono in questo periodo superati in favore di nuovi fattori di aggregazione politica che portano al sorgere di valori nuovi che sono tendenzialmente pubblici. A partire da questo momento, il sacro si manifesta allora in luoghi specifici. Ciò che, però, caratterizzò sempre i luoghi di culto veneti fu la mancanza di strutture costruite con materiali duraturi: la monumentalizzazione delle aree sacre avverrà, nella quasi totalità dei casi, solo in seguito alla penetrazione e all’assimilazione dell’elemento romano.

Mancando fonti letterarie di epoca classica scritte a riguardo, uno studio sulle forme del sacro degli antichi Veneti dovrà allora essere basato su un’analisi dei risultati ottenuti dagli scavi archeologici effettuati presso le varie aree di culto venute alla luce e che hanno restituito materiale sacro di diverso genere.

Una delle principali caratteristiche mostrate dai luoghi in cui sono state trovate tracce di attività legate al culto è il collegamento che ognuno di questi ha con l’acqua: ciascun centro cultuale, infatti, mostra, in qualche modo, un legame con questo elemento, che si tratti di acqua come mezzo o fine del culto. In base a questa affermazione è allora possibile dividere i luoghi sacri fra quelli in cui l’acqua è soggetto del culto ed è, quindi, strumento primo della pratica rituale e in questo caso il concetto è rappresentato dall’offerta dell’acqua stessa, cioè dalla libagione; e quelli in cui tale elemento è sentito invece come oggetto del culto, come vera e

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propria divinità, e in questo caso l’acqua può anche non rientrare nel rito come strumento propriamente cultuale.

Un’altra caratteristica è il fatto che ciascuno di essi appare caratterizzato da una specifica e connotativa classe di ex voto, cioè di doni offerti dai devoti alla divinità. Ogni classe di materiale rinvenuta nei singoli centri è risultata legata al particolare carattere della divinità venerata in quel luogo specifico e questo, allo stesso tempo, ha aiutato a comprendere meglio caratteristiche e aree di competenza della divinità stessa titolare del culto. Un ulteriore elemento caratterizzate deriva dalla particolare collocazione che ciascun luogo ha all’interno del territorio: studiando il loro rapporto con il centro urbano di riferimento, quando presente, e con il territorio circostante, sarà allora possibile una suddivisione in luoghi di urbani, suburbani, extraurbani e territoriali.

Nel cercare di approfondire e di mettere in relazione tra loro le particolarità e le caratteristiche proprie dei vari centri, la prima parte dell’esposizione è stata sviluppata a partire dalla suddivisione dei luoghi di culto a seconda della loro semplice collocazione topografica. All’interno di tale organizzazione, nel trattare singolarmente ogni centro cultuale, è stata fatta luce sui vari cambiamenti subiti nel tempo da ognuno di essi, sui lavori che vi si sono eseguiti e sui ritrovamenti che vi si sono effettuati, cercando di sottolineare anche le varie influenze e le direzioni dello sviluppo, per riuscire anche a dimostrare come ogni scelta locazionale non sia mai scontata o casuale.

I luoghi di culto per la maggior parte presentano ubicazione quantomeno suburbana, cioè si trovano in aree esterne a quelle abitate, se non addirittura in zone prive di attestazioni abitative. Il modo in cui si sono formati i principali centri veneti, cresciuti da un progressivo agglutinarsi di vari nuclei sparsi nel territorio, potrebbe essere un motivo per spiegare

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l’assenza di un vero e proprio centro città, in cui la memoria del corpo civico si possa identificare.

Il lavoro espone quindi due eccezioni che sembrano non rientrare in questa regola generale: Padova e Vicenza. In entrambi i casi si hanno testimonianze circa la presenza di luoghi sacri in contesto urbano, però è da sottolineare come il contesto di sviluppo di tali centri cultuali sia già più evoluto e strutturato: Padova infatti subì interventi regolatori in un momento successivo alla sua fondazione, Vicenza invece nacque in un momento più tardo rispetto alle altre città paleovenete. Si tratta quindi di due casi in cui, alla base, può essere vista una sorta di progettualità che avrebbe permesso la pianificazione, all’interno del nucleo cittadino, di aree specificatamente adibite al culto. E’ stato poi messo in luce, allora, come l’espressione del culto patavino non debba essere principalmente ricercata in forme pubbliche, quanto, piuttosto, in manifestazioni private costituite dalle stipi domestiche, insiemi di materiali deposti in modo rituale, rinvenute tutte in contesto abitativo.

Nella seconda parte, invece, sono stati studiati i singoli complessi di materiali portati alla luce in ogni centro: sono state esposte delle considerazioni derivanti da un tentativo di dare una sistemazione tipologica sia dei vari insiemi votivi sia degli oggetti che li compongono; sono poi state evidenziate le varie classi di oggetti rinvenute nei singoli contesti ed è stata notata la loro distribuzione all’interno del vasto territorio del Veneto. Perciò, avendo basato l’argomentazione su un esame di questo tipo, in particolare si è cercato di mettere in luce il rapporto tra i diversi tipi di depositi e la loro distribuzione geografica, oltre che il rapporto tra i diversi tipi di offerte votive e le strutture sociali delle comunità alle quali esse si possono riferire. L’analisi dettagliata di quanto conservato nei vari contesti ha permesso di confrontare i luoghi di culto semplicemente

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considerando quali classi di votivi vi fossero presenti e ha anche consentito, quindi, di mettere in evidenza come queste non siano disposte casualmente nel territorio, ma seguano invece delle dinamiche precise e ben individuabili.

L’esposizione ha quindi evidenziato come l’esteso territorio dell’antico Veneto possa essere suddiviso in due settori geografici, all’interno dei quali circolano materiali peculiari che hanno consentito di sottolineare come il culto sia manifestato in determinate forme e modalità. Sono state inoltre fornite spiegazioni e chiarite le funzioni per le classi di materiali individuate nei vari centri, che hanno consentito di far luce sui modi di funzionamento dei singoli luoghi di culto.

Quindi, lo studio analitico di ogni centro cultuale ha permesso di sottolineare anche quali siano i punti di contatto e le similitudini all’interno dei settori geografici a livello di aspetti cultuali e modalità di rito. Dopo aver collocato geograficamente i luoghi di culto nel territorio, è stato allora possibile mostrare come la diversa distribuzione delle tipologie dei votivi rispecchi una polarità che vede contrapposti, per quanto vicini, i due grandi centri di pianura, Este e Padova. Sono state infatti distinte un’area gravitante sul fiume Adige, più vicina all’influenza di Este e più ricettiva nei confronti del mondo etrusco, e una gravitante lungo la valle del Piave e quindi più ricettiva nei confronti delle influenze provenienti da Padova, inserita piuttosto in quella koinè adriatica che coinvolge anche i territori transalpini.

Per entrambi i settori geografici individuati, i dati e le interpretazioni sui culti praticati sono stati arricchiti da quanto può essere desunto dal numeroso materiale iscritto. Infatti, in quasi tutti i luoghi di culto dei due comparti territoriali sono stati rinvenuti documenti riportanti dediche in cui sono stati letti i nomi riferiti alla divinità oggetto del culto. Grazie alle loro interpretazioni, è stato possibile aggiungere tasselli importanti per una

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migliore comprensione della funzione dei singoli luoghi di culto all’interno della vita comunitaria, ma anche per definire meglio un quadro più generale non soltanto delle istanze rituali, ma anche di possibili divinità oggetto del culto nel Veneto preromano nel suo complesso.

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PARTE PRIMA

RICOSTRUZIONE DI UNA GEOGRAFIA DEL SACRO

NEL VENETO ANTICO

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9 I. LE AREE DI CULTO URBANE1

Il ritrovamento di aree cultuali all’interno dei centri abitati rappresenta indubbiamente un’eccezione all’interno del panorama delle prime strutturazioni del culto nel Veneto preromano. Allo stato attuale delle ricerche si hanno esempi solamente da due città, Vicenza e Padova. In entrambi i casi, il passaggio da aggregazione protourbana, costituita da nuclei abitati sparsi, a città vera e propria avviene in un momento relativamente tardo rispetto alle altre aree: infatti, per tutte e due le città, si può parlare di uno sviluppo come centro abitato attorno al VI secolo a.C. ed è possibile, quindi, che fosse stata prevista una pianificazione degli spazi urbani già al momento della loro formazione, cosa che ha consentito la creazione di una zona adibita fin da subito al culto all’interno del tessuto cittadino.

I.1 Vicenza

Alla fine del VI secolo a.C., ma soprattutto nel corso del V secolo a.C., era stata avviata una capillare e generale ripresa insediativa di aree abbandonate nei secoli precedenti.2 In particolare, un’estesa rete di villaggi stabili portò alla rioccupazione del territorio collinare, dapprima con insediamenti dislocati sulle estremità delle principali dorsali, in prossimità della pianura, e poi disposti in una trama sempre più fitta, che interessò anche le dorsali interne. È in questo clima che si forma l’abitato paleoveneto di Vicenza (Fig. 1). Il nucleo abitativo di Vicenza emerge su un dosso fluviale alla confluenza tra Astico e Retrone, posizionato allo sbocco del corridoio alluvionale interposto tra i monti Berici e i Lessini. La

1 Cfr. Capuis 2000, pp.507-516. 2Sull’argomento, Capuis 1993.

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scelta del sito su cui sorgerà la città paleoveneta appare chiaramente determinata da una felice situazione idrografica e morfologica, alla convergenza di percorsi fluviali e terrestri, che porterà Vicenza ad assumere un ruolo di cerniera fra i poli urbani di pianura e le aree alpine e transalpine.

La documentazione, per quanto riguarda la conoscenza del periodo paleoveneto della città, è molto carente, tanto da non permettere di riconoscere l’effettiva continuità areale dell’insediamento né tantomeno di valutare opportunamente l’excursus cronologico e le modalità di frequentazione dei singoli siti che sono stati individuati (Fig. 2).

In base ai materiali raccolti nel corso del tempo, i nuclei più antichi sono stati riconosciuti come pertinenti ad aree abitative e datati tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C. Si tratta di zone piuttosto distanziate fra loro, ma che coprono un’estensione notevole, corrispondente alle parti più elevate dei dossi alluvionali del centro storico, che anticipa l’ampiezza che la città avrà poi in età romana. Tra i nuclei più antichi si distingue l’unico relativo a probabili attività legate al culto, riconosciuto nella zona dell’attuale centro storico.

Nella seconda metà del secolo scorso, iniziarono i lavori per la costruzione di un edificio che avrebbe ospitato attività commerciali. Lo scavo archeologico vero e proprio iniziò quando il deposito era già stato abbondantemente intaccato e questo fece sì che venissero raccolte poche puntuali informazioni. La documentazione per quel che riguarda quanto fu trovato in situ parla del rinvenimento, a circa sette metri di profondità, di depositi di origine alluvionale, delimitati da un muro costruito con grosse pietre, visto come muro di contenimento o terrazza ospitante l’area cultuale. Data la natura del terreno, è stato ipotizzato che il santuario qui

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riconosciuto sorgesse su una sorta di isola asciutta, situata in una zona paludosa e acquitrinosa alimentata dai fiumi vicini.3

Tra i materiali raccolti si contano oggetti in lamina bronzea,4 una tavola alfabetica su cui è apposta una dedica maschile e lamine figurate.

Le lamine figurate, molte delle quali con foro per affissione, presentano per lo più teorie di donne in sontuoso abbigliamento o di guerrieri in armamento completo, costituito da un piccolo scudo rotondo, forse di tipo locale, o da uno scudo ovale a spina centrale, di tipo celtico (Fig. 3). Le figure sono riprodotte indistintamente vestite o nude, sia in successione di sole donne e soli militari sia in successione mista. Fra i soggetti più significativi si ricordano: austeri personaggi maschili, con e senza barba, cappello a tesa larga e bastone ricurvo (Fig. 3 b); tre donne, una delle quali indossa un copricapo conico (Fig.3 h); figure femminili con indosso un abito pieghettato, capo scoperto, capelli raccolti in una treccia, braccio destro piegato verso una protuberanza sferica che sembrerebbe una palla (Fig. 3 m);5 figure maschili rappresentanti pugili in azione (Fig.3 g). Significative sono, inoltre, le immagini di una donna con disco sul capo, di una donna con disco sul ventre e dei votivi anatomici in lamina bronzea riproducenti due gambe, un busto e una testa.6

In base alla tipologia dei materiali e all’ubicazione topografica, si può parlare di un santuario di tipo pubblico, frequentato dalla fine del V al III-II secolo a.C.

3 Bruttomesso 1983, p.15, nota 32.

4 Frammentari e di incerta interpretazione, quali lamine decorate con motivi geometrici, dischi collegati

in serie, anelli, borchie e una ruota raggiata.

5 Capuis 1993, p.249-250.

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Nelle vicinanze di Vicenza, è da segnalare un rinvenimento effettuato alla metà dell’Ottocento su un colle delle propaggini settentrionali dei Berici. Si tratta di un blocco parallelepipedo di pietra locale che reca incisa un’iscrizione in caratteri venetici, tra le più lunghe e significanti ritrovate nel Veneto preromano. “E’ probabile che essa sia stata rinvenuta in situ e che facesse originariamente parte di un complesso monumentale a carattere sacrale”, ha scritto Annachiara Bruttomesso.7

In trascrizione interpretativa, l’iscrizione suona:

Osts Katusiaios donasto atraes termonios deivos

Benché l’interpretazione dell’intera iscrizione presenti delle difficoltà, certa rimane quella come dedica agli dei terminali, déi dei confini: si tratterebbe quindi di un monumento confinario, come se ne ritrovano comunemente in altre parti del territorio veneto. Una tale interpretazione comporterebbe, come presupposto per l’esistenza del cippo, la presenza di un’entità politico-amministrativa in grado definire e controllare il territorio, fatto che non sarebbe incompatibile con l’assunto che, in questo stadio, Vicenza era già sicuramente un nucleo protourbano già ben definito, dal momento che il monumento è stato datato in un periodo compreso tra la seconda metà del IV a.C. e il III secolo a.C.8

I.2 Padova

La nascita e lo sviluppo di Padova furono dettati dalla presenza di due fiumi: il Brenta, l’antico Meduacus, e il Bacchiglione, che ne lambiva il margine meridionale (Fig. 1). Elemento determinante per la disposizione dell’abitato preromano fu soprattutto l’idrografia del Meduacus: questo,

7 Bruttomesso 1983, p.24.

8L’area del ritrovamento, infatti, è un’area che ha restituito esclusivamente materiali datati in quel

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prima di dividersi nei suoi due rami, il minor e il maior, formava una serie di grandi anse, con una serie di dossi all’interno che hanno offerto le sedi migliori per la creazione dei primi nuclei abitativi. Si denota, quindi, fin da subito, un complesso paesaggio fluviale, fonte di innumerevoli potenzialità di comunicazione tra il mare e i centri urbani dell’entroterra oltre che con i territori settentrionali, alpini e transalpini.

Secondo la leggenda, la città fu fondata da un gruppo di Veneti esuli da Troia e approdati sulle coste dell’Adriatico.9 Tra le molte fonti classiche a sfondo leggendario che parlano dei Veneti e di Padova, si ricorda l’inizio delle Storiae di Tito Livio, improntato nel ricordo della terra natia. Narra Livio che i Veneti, perso il loro re Pilemene a Troia, non potendo tornare in Paflagonia, loro regione di origine situata lungo le sponde meridionali del Mar Nero, trovarono in Antenore un nuovo capo e con lui giunsero in

“intimum maris Adriatici sinum”, là dove questo lambisce la terra veneta.

Penetrati nel territorio, vinsero gli abitanti del luogo, dopo di che, racconta Livio, “Enetos Troianosque eas tenuisse terras”.10

Indipendentemente dagli aspetti mitistorici della vicenda, insediamenti protostorici sono stati effettivamente accertati dall'archeologia già a partire dall'XI-X secolo a.C., in corrispondenza dell'odierno centro di Padova. L’area scelta per l’insediamento fu l’ultima ansa del Brenta, prima del punto della sua divisione in due rami, per il fatto che garantiva un facile e veloce accesso alle due grandi vie fluviali che permettevano di raggiungere la laguna e l’Adriatico, rendendo questo luogo un punto di passaggio obbligato e di incontro per i traffici lungo il corso del fiume e verso il mare. A Nord, inoltre, l’area occupata, si protendeva verso il territorio collinare e le più importanti direttrici metallifere dei distretti dell’alto vicentino, di quello trentino e di quello transalpino.

9 Fogolari 1981, pp.30-31, per un puntuale resoconto delle fonti. 10 Hist. I, 1.

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A partire dall’VIII a.C., sotto la spinta di un forte incremento demografico, la documentazione dagli abitati si fa più consistente. In generale, è in questo momento che nel Veneto si passa da un popolamento a macchia di leopardo a pochi grandi centri. I nuclei che si trovavano sparsi all’interno dell’ansa del Brenta si uniscono per formare un centro protourbano. Già da questa fase è stato notato uno sviluppo secondo un progetto di sistemazione territoriale ben pianificato, che prevede destinazioni specifiche per strade, canalette e viottoli che, oltre a svolgere la loro funzione di servizio, vengono usati per suddividere isolati e spazi aperti.11

Nei secoli successivi, dal VII-VI secolo a.C., sembra che si passi da centro protourbano a città, sia in senso topografico e urbanistico che socio-istituzionale, secondo i processi già iniziati nell’Etruria padana nei secoli precedenti.12 In questo momento, si infittisce ulteriormente la documentazione entro l’area insediativa precedentemente determinata e si nota come, al crescere di Padova faccia riscontro, nel territorio circostante e molto probabilmente a essa afferente, il formarsi e lo svilupparsi di piccoli nuclei abitati che vanno a definire un comprensorio-avamposto verso l’area alpina.13 È questo il periodo in cui, in Veneto, si fa più evidente il nascere di organizzazioni sociali diverse dalle precedenti, in cui si ha una maggiore differenziazione di rango sociale e di ruoli che si riflette maggiormente in una diversità di ricchezza nei corredi tombali. Niente di simile si nota a Padova. Tutto questo altro non è che il risultato di diversi interessi commerciali dei singoli distretti territoriali: il commercio

11 La caratteristica principale dell’insediamento era la necessità di governare il regime delle acque e di

risanare le aree più basse, quelle soggette all’impaludamento. Già a partire dall’VIII secolo a.C., infatti, si riscontrano lavori di sistemazione delle sponde fluviali e opere di bonifica. Gamba, Gambacurta, Sainati in La città invisibile 2005, pp.65-75.

12È stato per esempio ritrovato un cippo iscritto, posto all’incrocio di due strade, a sottolineare la

regolamentazione di un quartiere urbano mediante l’adozione di modelli propri dell’Etruria Padana. Gamba, Gambacurta, Ruta Serafini, Balista in La città invisibile 2005, p.26, nota 12.

13È in questo momento infatti in cui sorgono i centri di Montebelluna, lungo l’asse pedemontano tra

Brenta e Piave; Mel, nella media valle del Piave; Oderzo, tra Piave e Livenza; Concordia, sul sistema Livenza-Tagliamento.

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principale della regione, in questo periodo, si imposta su una direttrice di traffico che, dall’Etruria tirrenica, passa per la valle dell’Adige per poi valicare i confini alpini. Questo potrebbe spiegare il relativo isolamento in cui si trova Padova nei confronti del resto della regione. Il commercio patavino, piuttosto, è concentrato verso le aree centro-europee, fatto che mette in evidenza un certo grado di autonomia rispetto al commercio volto alle aree dell’Etruria tirrenica e a quelle europee raggiungibili attraverso le rotte che passavano per la valle dell’Adige.14

Nel corso del V secolo a.C., quando si ha il crollo di gran parte del sistema greco-etrusco che, tramite l’Adige, aveva visto ampiamente coinvolto il territorio di influenza atestina, Padova sembra assumere un ruolo preminente, attivando una nuova dinamica territoriale coinvolgente il settore adriatico della regione e che, in poco tempo la porterà a diventare il principale interlocutore veneto dei romani. Le potenzialità propulsive di questo centro di pianura sono attestate, in questo momento, dall’ampliarsi e dal consolidarsi di due poli: uno volto a una prospettiva marittima e facente capo ad Altino; uno orientato verso i mercati centroeuropei lungo l’asse del Piave. La vita di Padova preromana prosegue poi, senza grandi cambiamenti rilevanti, fino alla pacifica romanizzazione avvenuta a partire dal II secolo a.C., così come nel resto del territorio veneto.

Quanto all’aspetto legato al culto di natura religiosa, nella Padova di età preromana si ha una situazione piuttosto anomala in confronto al panorama generale del Veneto antico. Da un lato abbiamo una precisa fonte storica che riferisce con assoluta certezza dell’esistenza di un tempio consacrato a Giunone, nel quale erano stati dedicati i bottini di guerra conquistati dalla

14Da questo periodo, un’importante fonte di ricchezza per la città sarà la commercializzazione, verso

Sud, dell’ambra proveniente dall’area baltica grazie al potenziarsi delle rotte alpino-orientali proprio in questo periodo. Cfr. Capuis 1993.

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città nella guerra contro Cleonimo, avvenuta nel IV secolo a.C. Un tempio pubblico, quindi. Dall’altro lato, si contrappone un tipo di religiosità privata, che sembra essere quella che caratterizza Padova: all’interno del tessuto urbano, quasi sempre all’interno di singole abitazioni, sono stati trovati piccoli complessi costituiti da pochi oggetti il cui valore rituale è stato riconosciuto per i modi di deposizione e per i tipi di associazioni riscontrate.

I.2.1 Il santuario di Giunone

Purtroppo, a tutt’oggi mancano dati materiali che possano attestare la presenza di un tempio dedicato a Giunone, dea del pantheon romano.15 Si possiede solo la testimonianza scritta di Tito Livio, che ne parla nelle sue

Storiae.16Si tratta quindi di dati indiretti, ricavabili solamente da un’attenta

analisi delle fonti. Sintomatico è il passo in cui sono narrate le imprese dello spartano Cleonimo che, reduce da numerose sconfitte nel basso Adriatico, nel 302 a.C. tenta un colpo di mano in territorio veneto. Livio racconta di come i soldati guidati dallo spartano, una volta penetrati attraverso il Meduacus, si siano dati al saccheggio delle pianure venete a ridosso della laguna e di come, prontamente e con un ingente numero di uomini, gli abitanti di Padova si siano mossi in aiuto, reagendo sia per terra che per mare e cacciando l’invasore.

Si legge in Livio “rostra navium spoliaque Laconum in aede Iunonis veteri

fixa multi supersunt qui viderunt Patavii. Monumentum navalis pugnae eo die quo pugnatum est quotannis sollemne certamen navium in flumine oppidi medio exercetur.”17 Oltre all’importanza dell’annotazione di un

fatto storico realmente accaduto e alla constatazione che i patavini, ancora

15 Capuis 1984, pp.65-80. 16 Hist. X, 2,7-15.

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alla fine del I secolo a.C. possedevano una non indifferente coscienza storica circa la realtà culturale precedente, quanto c’è di interessante in questo passo è sicuramente il fatto che Livio ricorda un antico tempio di Giunone, ancora frequentato ai suoi tempi. Il fatto che sia annotato anche che vi fossero esposti degli ex voto risalenti all’epoca paleoveneta, trofei di una vittoria avvenuta tre secoli prima e ancora celebrata con feste annuali, ha spesso portato a concludere che in questo tempio di età romana vi debba essere riconosciuta una continuità culturale, forse anche topografica, di un precedente luogo di culto paleoveneto.

Tutto ciò attesta non solo una tale continuità tra centro preromano e romano, ma anche il fatto che, a quel tempo, i patavini si sentivano culturalmente discendenti dai paleoveneti, tanto che una loro divinità venne assimilata alla romana Giunone.

I.2.2 Le stipi votive

Si tratta di piccoli depositi di materiali sicuramente interpretabili come votivi per i modi di deposizione e per il fatto che mostrano confronti solo in ambito devozionale. Sono esempi di culti di carattere privato, domestico e non collettivo, in quanto tutte le stipi sono state rinvenute in piena area urbana, in contesti abitativi. Questi particolari depositi erano costituiti da un esiguo numero di oggetti, omogenei per valenza e tipologia, e appaiono distribuiti lungo la grande ansa e la successiva controansa del Meduacus, in corrispondenza esatta di zone di abitato (Fig. 4).

Dall’analisi dei manufatti rinvenuti è stato evidenziato un primo momento, tra la seconda metà del VI e il III secolo a.C., in cui il contenuto delle stipi è caratterizzato dalla compresenza di un servizio da banchetto e di uno da fuoco: il primo è rappresentato da recipienti fittili per cuocere, contenere e servire cibi e per bere e attingere liquidi, di dimensioni molto spesso

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miniaturistiche;18 il secondo, invece, è costituito da materiali in lamina bronzea, anche in questo caso di dimensioni quasi sempre miniaturistiche, allusivi alla cottura e alla distribuzione delle vivande, insiemi simbolicamente riferibili al sacrificio della carne e al banchetto rituale, ma anche alla libagione.19 Dopo il III secolo a.C., invece, pur permanendo la compresenza dei due diversi servizi, si assiste a un aumento e a una standardizzazione dei fittili, cui fa riscontro una netta diminuzione dei bronzi.

Accanto ai principali complessi, dei quali sono esposti i più significativi, fa risconto una serie di ritrovamenti sporadici di singoli bronzetti o di limitati nuclei di materiali distribuiti lungo il perimetro esterno dell’abitato. Nel catalogo dedicato alla mostra Padova preromana, tali ritrovamenti sono stati suddivisi tra quelli provenienti da zone topograficamente determinate e quelli, invece, rinvenuti in località imprecisate di Padova e del suo territorio.20 È da annotare come, pur trattandosi di rinvenimenti sporadici, questi siano concentrati prevalentemente lungo la direttrice di traffico verso Sud, seguendo un tracciato che sarà poi in uso anche in epoca romana. Data la sporadicità dei ritrovamenti e la difficoltà nel ricostruire un contesto, i materiali sono stati datati tramite confronti con esemplari simili e sono risultati essere pressoché contemporanei a quelli rinvenuti in territorio prettamente urbano e in contesti ben definiti.

18 Si ritrovano, in particolare, ollette, scodelloni, coppe e tazzine, spesso con i relativi coperchi. 19 Al banchetto rimandano le coppie di alari, spiedi, palette, pinze, ventagli e coltelli; alla libagione,

invece, colini, attingitoi, tripodi e situle.

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 Via S. Fermo 63-65 – Angolo via dei Borromeo e via Dante, palazzo Forzadura.21

A fine Novecento, uno scavo di emergenza in quest’area che un tempo doveva trovarsi nei pressi del margine settentrionale dell’ansa del fiume, ha documentato una sequenza stratigrafica ininterrotta dall’VIII secolo a.C. fino all’età romana. Sono stati rinvenuti alcuni contesti cultuali, databili tra la seconda metà del VI e la prima metà del I secolo a.C. (Fig. 5). I più antichi hanno mostrato una significativa correlazione tra manufatti ceramici e bronzei, entrambi di tipo miniaturistico e rapportabili alla preparazione della mensa e del banchetto, confermato anche dalla presenza di offerte di cibo. A questi si accompagnano alcuni oggetti con forte significato propiziatorio o ideologico-sociale quali un disco raggiato e lamine ritagliate a forma di cavallo. Significativi sono anche i resti organici riferibili alla deposizione di offerte deperibili, come stoffe o vimini. Un’altra stipe, risultata essere la rideposizione di uno o più complessi più antichi, ha evidenziato la medesima associazione di materiali fittili e in lamina bronzea, miniaturistici e con le medesime caratteristiche già enunciate. Tra i bronzi, è da ricordare la presenza di un aes rude, di un anellino digitale e della molla di una piccola fibula.

 Via S. Sofia 67, palazzo Polcastro.22

Lo scavo in quest’area ha restituito cinque stipi votive a carattere privato, datate tra la fine del IV a.C. e la metà del I secolo a.C. Sono accumunate dalla particolarità di essere deposte entro contenitori in materiali deperibili, cesti o cassette lignee, e dal fatto che erano costituite prevalentemente da fittili e da associazioni di bronzi, in entrambi i casi di dimensioni miniaturistiche. Sono stati rinvenuti anche residui di piccola fauna e abbondanti ossa animali e offerte alimentari. È da annotare il rinvenimento, nella fossetta più antica, di un corno segato, isolato in contesti di questo tipo, ma comune in quelli santuariali con significato apotropaico. Oltre a questo, si ricorda il ritrovamento di due pezzi di aes rude e quello di una lamina ritagliata a forma di disco raggiato.

21 Gamba, Gambacurta, Sainati in La città invisibile 2005, pp.83-84, e De Min in La città invisibile 2005

p.118 e pp.122-123.

22 Gamba, Gambacurta, Sainati in La città invisibile 2005, pp.104-107 e De Min in La città invisibile 2005,

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 Via C. Battisti 132 – Via della Pieve23

A fine Novecento, uno scavo archeologico in questa zona riscontrò una stratificazione, databile tra VII a.C. e l’età moderna, nella quale si rinvennero due stipi domestiche di età preromana. Una, datata al IV secolo a.C., costituita da un servizio fittile, riferibile simbolicamente al simposio, e da un servizio bronzeo in lamina di dimensioni miniaturistiche, rappresentante strumenti connessi con le attività domestiche legate al focolare e al banchetto, oltre che elementi con valenza simbolica quali un disco raggiato e una lamina ritagliata a forma di cavallino; l’altra, invece, datata al II secolo a.C., composta quasi esclusivamente da contenitori fittili di dimensioni miniaturistiche ed è da segnalare come questa fosse stata rideposta in età romana, in relazione all’atrio di una domus, nel punto in cui solitamente si trovava il larario, il tempietto destinato al culto privato.

Via Rialto.24

Nella seconda metà del Novecento, in seguito a uno scavo per le fondazioni di un edificio, fu recuperato un piccolo complesso di fittili e di bronzi miniaturistici. Tra i primi, fu subito notata la mancanza di unità tipologica e ne fu subito sottolineata l’accentuata varietà (Fig. 6).25 Il gruppo dei bronzi in lamina consta invece di elementi legati all’uso del fuoco e al consumo del vino. Si ricordano inoltre un disco radiato con foro centrale, una lamina ritagliata a forma di cavallino e modelli di paletta (Fig. 7).

 Area Ex-Pilsen, Via dei Borromeo – Via Calatafimi.26

Negli anni Settanta del Novecento, è stata indagata l’area dell’ex birreria Pilsen, sita in un’area di abitato occupata ininterrottamente a partire dal VIII secolo a.C. fino all’età romana. Nel corso del lavoro, sono state rinvenute sepolture infantili e piccole stipi votive. Una delle stipi più caratterizzanti, datata al IV secolo a.C., è stata rinvenuta in una fossetta scavata in un piano di calpestio. All’interno vi è stato trovato un insieme di oggetti in bronzo e di fittili collegati al focolare, al consumo del vino e alla preparazione del cibo. Tra i

23 Gamba, Gambacurta, Sainati in La città invisibile 2005, pp.102-104 e De Min in La città invisibile 2005

p.126.

24 Tombolani in Padova preromana 1976, pp.180-185; Maioli-Mastrocinque 1992, pp.42-43. 25 Sono comunque prevalenti i recipienti potori, spesso modelli di fittili di dimensioni maggiori. 26 Chieco Bianchi 1981, pp.53-54; Ruta Serafini 1981, pp.29-47.

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bronzi si ricordano anche una paletta rituale e una lamina ritagliata a forma di disco raggiato. Nei pressi della fossetta è stato inoltre rinvenuto uno scarico di cenere e resti di carbone.

Nel corso delle stesse ricerche fu rinvenuto un altro deposito, datato anch’esso fra V e IV secolo a.C. e formato interamente da fittili, meno ricco e più semplice rispetto a quello precedentemente descritto, ma che assume rilievo in quanto presente nella medesima area di scavo. Importante da ricordare è la presenza qui di una grattugia e di una macina, entrambi oggetti atti alla preparazione del cibo.

 Stipe di San Daniele, via Umberto I 100.27

Topograficamente, la zona non rientra in un contesto abitativo, ma si trova nel pressi dell’antico corso del Meduacus, lungo la riva occidentale. A fine Ottocento, in quest’area ai margini meridionali dell’antico nucleo abitato di Padova, si rinvenne un piccolo complesso votivo del quale si conservano undici statuette bronzee e un gruppo di vasetti d’impasto.

I bronzetti sono riconducibili a pochi tipi fondamentali, caratterizzati da analoghe modalità esecutive, da povertà negli schemi figurativi e da una sostanziale schematizzazione: più frequente è la figura del cavaliere, sia nella variante da fermo che con il cavallo in corsa; si hanno poi figure di devoto e di guerriero in assalto, distinguibili tra loro per il fatto che i secondi presentano un foro nel braccio destro, per l’inserimento della lancia; sono poi presenti un esemplare di devota ammantata e una testina virile (Fig. 8 a). 28 L’insieme dei fittili risulta costituito da vasetti monoansati di dimensioni miniaturistiche (Fig. 8 b). La loro complessiva modestia e il loro numero esiguo potrebbero indiziare pratiche devozionali di un piccolo gruppo sociale e sembrano anche mostrare la relativa durata dell’utilizzo della stipe. Il termine della frequentazione è probabile anche che sia stato condizionato dall’ambiente naturale in cui si trovava la stipe, essendo la variabilità dei regimi fluviali una delle caratteristiche principali dell’area patavina. Grazie al riconoscimento dei contatti con le officine umbro-settentrionali ravvisate nei bronzetti, è stato possibile datare la stipe a un periodo

27 Tombolani in Padova preromana 1976, pp.173-178; Zampieri 1976; Maioli-Mastrocinque 1992, p.41. 28 Per quanto riguarda una delle due statuine di devoto e la testa virile, Michele Tombolani attribuisce

una derivazione dall’orizzonte artistico umbro-settentrionale e sottolinea inoltre l’origine etrusca dell’uso di dedicare teste votive. Tombolani in Padova preromana 1976, pp.173-174.

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cronologico compreso tra la fine del V e la prima metà del IV secolo a.C.

Stipe del Pozzo Dipinto, via Cesare Battisti.29

Una serie di notizie frammentarie ricorda del rinvenimento, avvenuto nel 1883, di un nucleo di bronzetti databili sia all’età preromana che romana.30

Di età preromana sono le figure bronzee rappresentanti un guerriero in assalto, un devoto e un cavaliere, che rivelano alcune differenze formali indicanti officine di produzione distinte: la prima rientra nella categoria degli ex voto schematici tipici delle officine attive nel territorio patavino (Fig. 9 a); la seconda, invece, se ne differenzia, in quanto mostra una maggiore caratterizzazione di gusto, oltre che maggiori dimensioni, tanto che è stata accostata a prodotti atestini (Fig. 9 b); l’ultima, infine, rientra, per tecnica esecutiva, nella produzione locale patavina (Fig. 9 c). Per l’età romana rimangono una figura bronzea rappresentante Apollo con patera che, per la tecnica, è stata detta essere prodotto locale influenzato dagli schemi dell’arte colta; una statuetta di Minerva, un pendaglio a testa di serpe, una fibula con molla doppia spirale, un balsamario fittile; tre falli muniti di anello di sospensione (Fig. 10). I materiali più antichi si datano tra la fine del V e il IV secolo a.C., mentre il fatto che siano presenti dei bronzetti databili all’età romana permette di definire una continuità di culto fino almeno al II secolo a.C.

 Stipe di Mortise.31

Si tratta di un rinvenimento localizzato nella periferia Nord-orientale di Padova. E’ inserito all’interno della trattazione perché i materiali rinvenuti poco differiscono da quelli di ambito prettamente domestico, lasciando intendere come queste modalità di culto, diffuse in ambito cittadino, lo fossero in realtà anche nel territorio. Le annotazioni sul ritrovamento, avvenuto nel 1887, ricordano solo che fu trovato un piccolo gruppo di statuine in bronzo, senza ulteriori specificazioni. Si tratta di figure rappresentanti guerrieri in assalto in maniera stilizzata e geometrica lineare, e cavalieri a cavallo raffigurati in maniera schematica (Fig. 11). I materiali della stipe

29 Zampieri 1976; Maioli-Mastrocinque 1992, pp.41-42; Tombolani in Padova preromana 1976,

pp.178-180.

30 Tombolani in Padova preromana 1976, p.179.

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hanno permesso una datazione tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C.

II. I SANTUARI SUBURBANI32

Si tratta di santuari individuati generalmente a una distanza di 1-2 km dal centro abitato cui fanno riferimento. Risultano così posizionati ai margini della città e della campagna urbana, quasi come a voler marcare una sorta di confine tra spazio civilizzato, interno, e non civilizzato, esterno. Luoghi di culto di questo tipo sono stati riconosciuti a Este e ad Altino.

Il caso di Este si è rivelato molto particolare in quanto vi è stato individuato più di un luogo di culto di tal genere e tutti sono collocati a marcare punti strategici dell’abitato: all’ingresso in città di un ramo dell’Adige, in località Casale; nei pressi del punto cui lo stesso fiume esce dalla città, nel predio Baratella; sul confine tra città e campagna, in località Meggiaro; ai margini della città, ai limiti con l’area boschiva, in località Caldevigo. Ne è stato poi individuato un quinto, in località Morlungo, che ha restituito oggetti con destinazione votiva di incerta datazione e che quindi non permettono un sicuro riconoscimento di una frequentazione di età preromana. (Fig. 12) Ad Altino, invece, è stato individuato un solo luogo di culto che si è rivelato molto importante per la conoscenza della città preromana: fino a quel momento, infatti, le conoscenze erano molto limitate, poiché su di essa si è sviluppata quella romana.

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24 II.1 Este

I primi nuclei insediativi della città sorsero a partire dal X-IX secolo a.C. su una serie di dossi sabbiosi, situati a Sud dell’antico corso del fiume Adige (Fig. 1). Dall’VIII secolo a.C. questi si spostarono dalla sponda meridionale, da questo momento in poi adibita a necropoli, a quella settentrionale, dando vita, per una sorta di sinecismo, al nucleo protourbano di Este. Lo spostamento fu quasi sicuramente dettato da due motivi principali: la zona scelta, infatti, offriva diverse possibilità di controllo verso l’area deltizia polesana e verso il mare e, inoltre, i colli che chiudevano la città alle spalle garantivano una maggiore sicurezza. La città nasce allora come polo di aggregazione delle genti venete che gravitavano sul basso corso dell’Adige e anche come principale punto di attrazione per coloro che risalivano l’Adriatico per ragioni commerciali. Questo caratterizzò fin dall’inizio molti degli aspetti e delle manifestazioni culturali di Este, condizionandone le linee di sviluppo. Fin dal Bronzo finale, infatti, intensi sono i contatti con l’Etruria interna e tirrenica per il tramite della pianura padana, contatti che vanno poi a consolidarsi nella primissima età del Ferro con l’esportazione non solo di materie prime e manufatti, ma anche di modelli insediativi e sociali.33

È stato possibile ricostruire i primi secoli di vita dell’abitato principalmente attraverso lo studio dei corredi tombali. Questi hanno messo in evidenza come la società atestina fosse stata fin da subito differenziata a livello di ricchezza: ci sono infatti tombe risalenti al primo periodo di formazione che rappresentano sicuramente le sepolture dei capi dei diversi gruppi gentilizi che diedero vita al centro e dominarono la comunità nelle prime

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generazioni.34 La fase di maggiore ricchezza sembrerebbe risalire al VII secolo a.C., quando si hanno diverse innovazioni e acquisizioni da aree esterne al Veneto: è questo il periodo, per esempio, degli intensi contatti con l’Etruria padana che, tramite Bologna, esporta lungo la Valle dell’Adige prodotti e novità che già circolavano in ambienti tirrenici, laziali ed etruschi da circa un secolo. Dopo circa un secolo, nel VI a.C., si iniziano a notare dei segnali che lasciano intendere come l’aristocrazia atestina avesse perso potere sia all’interno che all’esterno della città. Tra i vari fattori esterni che portarono a questo cambio di egemonia, può essere sicuramente annotato il fatto che, dopo una crisi nei centri tirrenici, il commercio etrusco venne riattivato lungo nuove rotte nella zona alto adriatica, tagliando fuori la Valle dell’Adige. In più, senza dubbio influì anche l’arrivo dei Cenomani, verso la fine del V secolo, prima in Lombardia e poi nel Veneto. I segnali di crisi si accentueranno poi nel IV secolo a.C., quando la presenza celtica inizierà a manifestarsi anche nei corredi funerari e nella crisi delle produzioni artigianali e dei commerci, dovuta al fatto che l’Etruria padana era caduta sotto i colpi dei Boi.35

Quanto alla particolare collocazione topografica dei santuari atestini individuati dalla ricerca archeologica, è da sottolineare anche come siano tutti dislocati al di là dell’area occupata dall’insediamento e, generalmente, anche dell’area delle necropoli. Osservandone la localizzazione, è facile notare la notevole differenza con le situazioni attestate nel mondo etrusco-romano e in quello greco. Nella concezione religiosa romana gli dèi sono cittadini e abitano quindi nelle città. Questo è il motivo per il quale numerosi sono i templi che si ritrovano all’interno del perimetro urbano. Diverso invece è il modello greco: gli spazi consacrati si definiscono a

34 Capuis 1993, pp.135-136. 35 Ruta Serafini 2001, pp.197-210.

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partire dall’VIII secolo e si concretizzano spesso in una rete di santuari esterni alla città, in una dimensione periurbana ed extraurbana; al tempo stesso, però, all’interno dell’abitato e generalmente sull’acropoli, nascono templi dedicati alle divinità cittadine. Un più puntuale confronto si potrebbe avere con la situazione che si riscontra Etruria. In questa regione, infatti, soprattutto nella sua parte settentrionale, è comune il fatto di trovare città che presentano una vera e propria corona di santuari che circonda, dal di fuori, il perimetro urbano: particolarmente significativi in questo senso sono gli esempi che si hanno ad Arezzo e a Volterra.36 In questi due casi i santuari si trovano disposti sulle principali arterie stradali di accesso e uscita dalla città, ma allo stesso tempo si notano comunque delle significative differenze: entrambe le città, infatti, mostrano importanti aree sacre anche all’interno del percorso delle mura o sull’acropoli.37

Questa specifica disposizione ad anello attorno l’area abitata che si ritrova nel caso atestino, senza che vi sia altra testimonianza al suo interno, si pone in termini unici e sembrerebbe rispondere a una primaria funzione di tutela nei confronti di questa. I luoghi di culto atestini, situati in punti strategici dai quali le divinità possano esercitare controllo e tutela della comunità dei vivi, sono stati visti come una sorta di cippi sacri a delimitare e marcare il confine tra l’agro e la campagna suburbana. Non a caso, i luoghi di culto iniziano a costituirsi, generalmente, in una fase avanzata del VI secolo a.C., un periodo in cui in Veneto si ha un sempre maggiore consolidamento delle strutture cittadine.38

36 Meggiani in Este preromana 2002, p.78. In particolare vedi le note 9 e 10. 37 Meggiani in Este preromana 2002, p.78, nota 11.

38 Fermo restando il fatto che, pur mancando effettivi rinvenimenti, non può essere esclusa a priori la

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27 II.1.1 Il santuario in località Caldevigo

Questo luogo di culto è stato individuato nella zona settentrionale dell’area abitata, al di là della zona delle necropoli e del ramo dell’Adige che lambiva le pendici dei Colli Euganei (Fig. 12). Si trattava quindi di un sito proiettato verso le aree collinari e nello stesso tempo affacciato sulla pianura. Da qui infatti si gode di una vista completa della zona, tale da garantire un buon controllo del centro abitato e di buona parte della piana circostante.

I rinvenimenti si sono succeduti a partire dalla metà del XVI secolo, ma solo alla fine dell’Ottocento divenne chiara la natura votiva dei reperti.39 Nel 1936, durante alcuni lavori in una cava di calcare, avvenne il rinvenimento di un nucleo consistente di materiale, consegnato poi al Museo Nazionale Atestino. In seguito all’accaduto iniziarono scavi sistematici dai quali fu subito chiaro che i materiali, in realtà, provenivano dal pendio soprastante e che erano giunti nel luogo di ritrovamento in seguito al dilavamento del terreno in cui giacevano originariamente. Non venne però identificato il fulcro del teorizzato santuario e ogni ipotesi sulla sua eventuale strutturazione rimane ancora nel campo congetturale.

I reperti sono esclusivamente bronzei e tutti di ottima qualità. E’ stata proposta un’articolazione in due classi fondamentali di offerte: quella delle lamine decorate a sbalzo o a incisione e quella dei modelli miniaturistici.40 Le lamine figurate, rettangolari e con foro per affissione, sono la classe più rappresentata. Raffigurano in modo ripetitivo un solo individuo di profilo rivolto a sinistra: si tratta di figure di guerrieri caratterizzati da armamento oplitico o di figure di donna riccamente abbigliata (Fig. 13-14). Le figure

39 Gambacurta-Zaghetto in Este preromana 2002, p.283, nota 1; Maioli-Mastrocinque 1992, p.33, nota

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femminili sono le più caratterizzate: queste sembrano mostrare quasi sempre un disco sulla testa; il capo può essere coperto da un velo o, se questo manca, agghindato con un’acconciatura a cono. Sono state datate in un arco cronologico compreso fra la fine del VI secolo e gli inizi del IV a.C.41 Escono da questo schema due lamine raffiguranti occhi umani incisi (Fig. 15).

Alla classe dei modelli miniaturistici appartengono invece modelli di scudi, dischi, cuspidi di lancia, chiodi-stili simili a quelli rinvenuti nel santuario riconosciuto nel predio Baratella, modelli di cinture e dischi decorati, che sembrerebbero richiamare il mondo maschile e quello femminile (Fig. 16).42

Una classe particolare di materiali è rappresentata dai cosiddetti “astucci”: si tratta di oggetti ricavati da lamine rettangolari doppie, con lembo ribattuto e foro per sospensione, la cui lavorazione presenta una particolare trama che li farebbe pensare quali riproduzioni di teli di stoffa ripiegati (Fig. 17).

Il panorama della documentazione è arricchito dalla successiva scoperta di un cippo iscritto, rinvenuto in giacitura secondaria nelle vicinanze del luogo in cui è stato fatto il primo ritrovamento e interpretato da subito come votivo. In un secondo momento è stato ipotizzato che nell’iscrizione fosse presente un teonimo, cui sarebbe indirizzata la dedica. Si tratterebbe di un teonimo maschile, Einaio, che va ad arricchire il panorama delle divinità del Veneto antico.43

41 Gambacurta-Zaghetto in Este preromana 2002, p.289. 42 Gambacurta-Zaghetto in Este preromana 2002, p.284. 43 Gambacurta-Zaghetto in Este preromana 2002, p.283, nota 5.

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Due rinvenimenti occasionali sono meritevoli di una menzione particolare. Nel 1887 fu trovata una lamina, ricavata dal riutilizzo di un cinturone a losanga, con raffigurazione di guerriero (Fig. 18). Il personaggio è rappresentato armato di due lance, protetto da un grande scudo rotondo e da un elmo di un tipo di derivazione etrusca ad ampia diffusione. E’ stata datata tra la fine del V a.C. e gli inizi del IV secolo a.C.

Nel 1894 si trovò invece una statuetta in bronzo a fusione piena, nota come “la dea di Caldevigo”, raffigurante una donna riccamente abbigliata e con una complessa acconciatura (Fig. 19). E’ stata a lungo ritenuta un’immagine di una divinità, da cui la denominazione, ma, mancando di attributi chiaramente definibili come divini, è più spesso interpretata come una semplice devota. Sarebbe comunque una devota particolare, vista la ricchezza del tipo di abbigliamento, se non addirittura una sacerdotessa colta nell’atto della preghiera. Prodotto di un’officina locale, la figura indossa un vestiario ricco e complesso: alti stivali, veste corta e scampanata, cinturone a losanga, collane e bracciali. In più, in capo mostra un’alta acconciatura a cono e sulla fronte ha un’appendice destinata forse al fissaggio di un diadema a disco.44 Il cinturone che la donna indossa in vita è di un tipo che, ritrovandosi comunemente nei corredi delle ricche tombe femminili contemporanee, è stato utile per datare il bronzetto tra il V a.C. e la metà del IV a.C. Il tipo di abbigliamento e gli accessori indossati qualificano quindi la figura come una ricca signora o una devota in abiti da cerimonia. Caratteristiche connotative di questa figura sono i piedi forati, probabilmente per il fissaggio su un qualche tipo di supporto, e il fatto di avere un punto di appoggio inclinato in avanti, cosa che farebbe pensare che l’immagine fosse nata come applique fissata, per esempio, ad un vaso o comunque a un oggetto con significato rituale.

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30 II.1.2 Il santurario in località Morlungo

La zona è un sobborgo della città situato a Sud-Ovest dell’antico nucleo abitativo (Fig. 12). Il riconoscimento di un luogo di culto in quest’area risulta ancora problematico. Si conservano notizie poco chiare riguardo al rinvenimento, nel corso dell’Ottocento, di un nucleo poco consistente di materiali.45 Tale nucleo risulta costituito da dodici falli in lamina bronzea e tre ottenuti a fusione piena (Fig. 20). Uno di questi ultimi reca un’iscrizione in latino e questo, oltre a confermarne la destinazione votiva, ha fatto anche sì che l’intero nucleo venisse datato all’età romana.

Per quanto riguarda invece una possibile esistenza di un culto anche nell’epoca precedente, sono ricordate alcune iscrizioni venetiche provenienti dalla zona e apposte su materiali diversi, insieme anche ad altri oggetti rinvenuti all’incirca nella stessa area.46 Sono materiali importanti perché aiutano a inquadrare genericamente il deposito nell’ambito del III secolo a.C. Parrebbe inoltre più significativo e coerente questo gruppo rispetto a quello datato con certezza all’età romana e sembrerebbe quindi accettabile l’idea di un luogo di culto attivo già in età preromana, per quanto non molto indietro nel tempo.

II.1.3 Il santuario in località Casale

Si tratta di una località situata a Nord-Ovest dell’antico nucleo urbano di Este. Secondo la ricostruzione dell’antico tracciato del fiume Adige, questo è il punto in cui uno dei suoi rami secondari entrava in città (Fig. 12). I ritrovamenti sono avvenuti in più punti della località e si sono succeduti a partire dai primi anni del Settecento.47 La documentazione è in massima

45 Gambacurta in Este preromana 2002, p.270, nota 1.

46 Si tratta di due cavalieri in terracotta, di una sorta di trottola con una sequenza alfabetica venetica e

di una figura fittile di un ventre femminile, oltre ad altro materiale di epoca più tarda. Maioli-Mastrocinque 1992, p.35.

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parte datata all’età romana, ma si hanno anche importanti indizi di una frequentazione dell’area già dai periodi precedenti. Del materiale rinvenuto prima del Settecento si conservano solamente tre rilievi di attribuzione ellenistica e della massima importanza per l’interpretazione di questo luogo di culto, dal momento che uno di questi riporta una dedica ai Dioscuri da parte di un mercante greco (Fig. 21).

L’identificazione più considerevole è avvenuta agli inizi del Novecento, quando iniziarono le indagini nel fondo Cortellazzo (Fig. 22).48 Qui si scoprì una costruzione in grossi blocchi di trachite, subito riconosciuta come un muraglione di contenimento.49 Trovandosi nelle vicinanze del fiume, questo muraglione veniva quindi a costituire sia un’arginatura per le variazioni del regime fluviale, sia un sostegno per una terrazza artificiale costruita per ospitare il luogo di culto. Alla base di questa opera si è rinvenuto uno strato romano contenente diversi frammenti di decorazioni fittili e lapidee di carattere architettonico, insieme a mattoni, tegole e coppi. I resti più vistosi, consistenti in un fregio dorico con metope e triglifi, si riferiscono alla decorazione fittile di un edificio sacro, datato grazie a questi all’età tardo repubblicana.50 Nella decorazione di alcune delle metope è presente una patera baccellata che reca una raffigurazione di una testa umana in cui è stata vista l’iconografia dei Dioscuri (Fig. 23).51

A una frequentazione più antica rimandano altri materiali rinvenuti sia nel fondo Cortellazzo che nella vicina area del Tiro a segno.Nel primo caso, si tratta di una statuetta di devoto offerente con patera, originariamente

48 Baggio Bernardoni in Este Preromana 2002, p.276, nota 3.

49L’identificazione era già avvenuta a metà dell’Ottocento, senza che vi fosse mai stata condotta una

vera e propria campagna di scavo. Pellegrini 1916, pp.363-382.

50 Maioli-Mastrocinque 1992, pp.30-33 e Baggio Bernardoni in Este Preromana 2002, pp.276-277. 51 Baggio Bernardoni in Este Preromana 2002, p.279.

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munito di lancia, proveniente dallo strato sottostante quello romano, a ridosso del muraglione;nel secondo, invece, si tratta di numerose lamine bronzee deformate e ossidate, rinvenute nel 1895, gran parte delle quali non venne raccolta ad eccezione di una raffigurante una donna riccamente abbigliata con in capo un grande disco, datata al V-IV secolo a.C. (Fig. 24).52 Uno degli elementi più significativi per l’attribuzione al periodo paleoveneto di questo luogo invece è costituito dal ritrovamento di un particolare oggetto nella vicina località dello Scolo di Lozzo, non lontano da dove è stato scoperto il tempio tardorepubblicano. Si tratta di una coppa bronzea con iscrizione in caratteri venetici, la cui forma non mostra confronti in ambito locale, quanto piuttosto con i kantharoi prodotti in Etruria tra fine VII e la prima metà del VI secolo a.C. (Fig. 25).53 A tutt’oggi, risulta essere il più antico documento iscritto collegabile al popolo veneto, datato alla metà del VI secolo a.C.

II.1.4 Il santuario in località Meggiaro

Questa località è situata ai confini nordorientali dell’antica area abitata (Fig. 12). La zona in cui è stato riconosciuto il centro cultuale preromano viene a trovarsi sul punto più alto di un dosso fluviale, in origine esterno alla città. Il luogo di culto risulta così posto in una particolare collocazione geografica, al confine tra città e campagna, per il controllo di importanti direttrici di traffico: quelle verso Padova e quelle che portavano al santuario di Caldevigo, che controllava l’imbocco del canale Berico-Euganeo.54

52 Baggio Bernardoni in Este preromana 2002, pp.278-279. 53 Locatelli-Marinetti in Este preromana 2002, pp.281-282.

54 Balista-Rinaldi in Este preromana 2002, pp.17-35 e Balista, Gambacurta, Ruta Serafini in Este preromana 2002, pp.105-121.

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Alla fine del secolo scorso, alcuni saggi preventivi in un’area destinata a nuove costruzioni, consentirono il ritrovamento di una considerevole quantità di materiali votivi datati all’Età del ferro. L’area fu quindi scavata in maniera estensiva, rivelando diverse fasi e modalità di utilizzo del sito.55 Le prime attività sacre, collocate a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C., sono testimoniate dalla presenza di una struttura spianata presso il margine occidentale dello scavo (Fig. 26, n.1) e di alcune aree a fuoco posizionate non lontano da questa (Fig. 26, n.3a, 3b e 4). Per tale motivo i depositi costituenti gli esiti di queste prime attività hanno rivelato una matrice carboniosa, ricca di frammenti di ossa animali e anche di resti di preparazione dei cibi. Non molto numerosi sono i frammenti ceramici, tutti di tipologie funzionali a contenere cibi e bevande e tra i quali se ne ricordano alcuni di ceramica greca che rimandano ad azioni rituali connesse alla libagione.56 Pochi sono anche i bronzi votivi, tra i quali si contano lamine raffiguranti guerrieri in armamento oplitico, scudi miniaturistici, bullae e pendagli a secchiello.57 Nel corso di questi primi momenti si colloca anche la creazione del cosiddetto “sacello” (Fig. 26, n.2), uno spiazzo lasciato libero da infrastrutture e delimitato da otto blocchi di trachite,58 posto in opera non lontano dalla struttura spianata già presente (Fig. 26, n.1). Nei pressi del sacello sono stati individuati alcuni buchi di palo che, mancando di un ordine geometrico che possa far pensare al supporto per una copertura, hanno fatto ipotizzare un riferimento a sostegni per l’esposizione delle offerte.59 In un momento successivo, le aree a fuoco vengono obliterate dalla costruzione di una nuova stesura pavimentale (Fig. 27, n.6) e viene costruito un pozzo (Fig. 27, n.5) nella

55 La trattazione segue quanto esposto da Balista, Sainati, Salerno in Este preromana 2002, pp.127-141. 56 In particolare kylikes e skyphoi attiche. Gregnanin in Este Preromana 2002, p.165.

57 Per un puntuale elenco dei reperti, Salerno in Este Preromana 2002, pp.149-154.

58In situ ne rimangono 7, l’ottavo è stato asportato dal taglio per la costruzione di un fossato di epoca

romana. Balista, Sainati, Salerno in Este Preromana 2002, p.129.

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zona tra la massicciata e la nuova pavimentazione (Fig. 27, n.2). L’assenza, nel riempimento, di oggetti coevi alla vita del santuario e l’accurata tecnica costruttiva hanno fatto pensare che si trattasse di una cisterna per la raccolta dell’acqua.60 La composizione degli accumuli che costituiscono l’esito delle attività sacre si diversifica adesso per il fatto che, conseguentemente all’obliterazione delle aree a fuoco, si ha la generale mancanza di ritrovamenti di elementi carboniosi, cenere o ossa calcinate.61 Tra gli ex voto si ricordano numerosi dischi bronzei decorati a sbalzo raffiguranti figure femminili riccamente abbigliate, nelle cui acconciature compare un oggetto interpretato come diadema.62 Numerose anche le forme destinate alla libagione tra i reperti fittili, in particolare tazze di produzione standardizzata e di dimensioni spesso miniaturistiche che ne escludono un utilizzo pratico.63 Dopo un momento di degrado, alla fine del II secolo a.C. si ha la realizzazione di nuove strutture. Si ricorda, in particolare, la messa in opera di due piccoli pilastri nei pressi del sacello che presuppongono una struttura coperta, i cui resti sono risultati distrutti dalle arature risalenti al periodo romano. La definitiva cessazione dell’uso dell’area cultuale e la sua seguente conversione a zona agricola sono sancite dal ritrovamento di un rituale risalente al I secolo a.C.64

Tra i materiali degni di nota si ricordano le lamine bronzee con foro per affissione raffiguranti il tipo iconografico del singolo oplita gradiente verso sinistra (Fig. 28). Il milite si mostra sempre in possesso di elmo, a calotta

60 Balista, Sainati, Salerno in Este Preromana 2002, pp. 139-141. 61 Balista, Sainati, Salerno in Este Preromana 2002, p.136-137. 62 Salerno in Este Preromana 2002, p.151.

63 Gregnanin in Este Preromana 2002, p.166.

64 Si tratta di un servizio ceramico gettato sul fondo del pozzo, successivamente sigillato dal crollo del

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e con cimiero, lancia, talvolta accompagnata da un secondo esemplare, e scudo di tipo oplitico.65

Altresì importanti sono i non pochi astucci in lamina bronzea, uno dei quali contenente un aes rude, solitamente decorati a reticolato obliquo, come a ricordare i ricchi tessuti degli abiti che caratterizzano l’abbigliamento delle figure femminili in questo periodo (Fig. 29).66

Una menzione particolare merita essere riservata alla lamina bronzea iscritta e sepolta ripiegata ritualmente in una delle fossette scavate lungo il limite meridionale del sacello, in corrispondenza dei blocchi in trachite (Fig. 30). Formalmente, si tratta di una lamina ricavata dal ritaglio di un altro manufatto.67 I dettagli incisi e la particolare forma del taglio, simile a una mezzaluna incompleta, hanno evidenziato come questa rappresenti un’imbarcazione. Nella parte destra, terminante in modo ricurvo, è rappresentato il timone accostato allo scafo, mentre nella parte sinistra, mancante di una parte, si riesce a distinguere un accenno di sagomatura e a notare la presenza di una coppia di remi che fuoriescono dall’imbarcazione. Nella parte superiore, si sono conservati due fori che ne

presuppongono l’affissione e quindi l’esposizione. Tutta la

rappresentazione sembra finalizzata e proporzionata a lasciare libero lo spazio centrale, in cui è stata apposta la dedica votiva, scritta in caratteri venetici. Il profilo dello scafo si inserisce in una tradizione di ambito mediterraneo di periodo arcaico e manca di confronti diretti, mentre la presenza del timone laterale richiama l’iconografia delle navi da guerra contemporanee. Per questo periodo, questo tipo di raffigurazione rappresenta un unicum nel Veneto e potrebbe indicare non un semplice

65 Zaghetto in Este Preromana 2002, pp.142-145. 66 Salerno in Este Preromana 2002, p.151.

67 Nella decorazione, la sequenza di piccoli cerchi presente nella parte bassa sembrerebbe essere stata

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