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Al cinema, a differenza di ciò che avviene a teatro, l'illusione non si fonda su convenzioni tacitamente ammesse dal pubblico, bensì sul realismo imprescindibile di quello che gli viene mostrato.

Il cinema ha a che fare direttamente con la realtà, che esiste indipendentemente

dall'arte che ne tratta. [...] Il cinema ha un rapporto diretto con la realtà anche laddove questa realtà sia fittizia. [...] La letteratura si fonda sul linguaggio verbale che

ricorre alla mediazione del simbolo per richiamare alla mente la realtà.141.

Il margine di fantasia che la letteratura permette al lettore, osserva Cinquegrani, è decisamente più ampio rispetto a quello che rimane allo spettatore di un film. Una descrizione tratta da un libro, per quanto dettagliata, non avrà mai lo stesso realismo di un attore che interpreta un determinato personaggio. L'attore, infatti, presenta il proprio aspetto, inoltre la gestualità, il modo di parlare, l'atteggiamento sono curati per rendere quel tale personaggio e non c'è possibilità di immaginarlo

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diversamente, poiché si offre al pubblico così come l'interprete l'ha formulato e non altrimenti. È anche a questo che si riferisce Pasolini quando afferma che il cinema è la lingua scritta della realtà, come abbiamo visto nel primo capitolo142. Il realismo proprio del cinema non è tuttavia così distante da quello del teatro: anche in un dramma infatti i personaggi sono costituiti da persone in carne ed ossa che recitano un ruolo. La pellicola cinematografica però può contare su un'estensione dello spazio che in confronto a teatro si può a malapena accennare. Mentre l'ordine diegetico di una storia può essere simulato realisticamente tanto al cinema quanto in teatro, solo la pellicola filmica può presentare anche uno spazio vero o realistico, poiché le riprese avvengono sia in studi cinematografici, sia in luoghi che esistono realmente nel mondo e che possono essere riconosciuti. È il caso delle grandi città che spesso hanno fatto da sfondo a numerosi film - si pensi solo a Roma o a New York. Sul palcoscenico si può realizzare un'ottima scenografia che risulti quasi reale, ma lo spettatore sa perfettamente che il prato che si può intravvedere da una finta finestrella è probabilmente niente più di un'immagine dipinta.

L'effetto del realismo cinematografico, o della realtà nel cinema, non può dunque essere raggiunto in un'opera drammatica, perché il vero spazio teatrale è unicamente quello dato dall'ampiezza del palcoscenico. Certamente il teatro può prendere spunto dal cinema, cercando di evocare un'apertura spaziale che vada oltre ai limiti fisici del palcoscenico. Valle-Inclán e Raffaele Viviani, ad esempio, utilizzarono per i propri spettacoli uno stratagemma similare, rispettivamente

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Si veda 1.3.III Semiotica del film, in particolare il riferimento a Pasolini e alla lingua scritta della

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nell'Esperpento Luces de Bohemia e in Via Toledo di notte143. Si tratta di due rappresentazioni incentrate su una passeggiata notturna in città, che i due drammaturghi hanno tentato di raccontare anche visivamente, con la successione di numerose ambientazioni esterne che producono un effetto di quadri scenici in scansione. Lo spazio in movimento comunque rimane illusorio, senza che il pubblico percepisca con disagio l'artificiosità dello spazio scenico, in quanto partecipa all'illusione con la sospensione della propria incredulità, comportandosi secondo le regole del gioco teatrale. Anche al cinema ovviamente lo spettatore è del tutto cosciente che ciò che vede proiettato sullo schermo è una ripresa cinematografica e non la realtà, eppure nel caso del film la vicinanza con la realtà è maggiore.

Quanto appena assodato è fondamentale qualora si tenti di indagare il rapporto tra realtà fittizia e realtà vera. Nel 1918 Federigo Tozzi scrive il racconto La

recita cinematografica, in cui il protagonista, lo schivo Calepodio, stanco della

propria monotona vita, decide di suicidarsi. Quando si avvicina ad un fiume, perso nei suoi pensieri, Calepodio però si imbatte con sorpresa in un gruppo di attori che recitano proprio la scena di un suicidio. Il portinaio che vuole mettere fine alla propria vita assiste così alla ripresa cinematografica di ciò che lo attende; ma appena la scena viene terminata, attori e attrici si rilassano prendendosi una pausa, scherzando fra loro. Calepodio allora si smarrisce e non riesce più a compiere ciò che era intenzionato a fare, prima di incontrare la troupe.

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La scena da girare è certamente finzione e coerentemente con la finzione gli attori

reagiscono concitatamente ad un momento tanto coinvolgente, eppure al termine

della prova tutti ritornano alla vita reale e attendono di ricominciare, pensando certamente alla recitazione più che all'emotività di un suicidio che sanno essere fittizio;

eppure agli occhi di Calepodio sembra essere proprio questa indifferenza la reazione più verosimile della gente al suicidio, ignorando così la distanza tra realtà e finzione144.

A Calepodio sembra vera la reazione degli attori rilassati e indifferenti anche perché la scena viene girata proprio davanti ai suoi occhi, in uno spazio reale; il racconto non avrebbe ottenuto la stessa drammaticità se Calepodio avesse assistito alla medesima scena in un teatro. Quando il cinema cominciò a diffondersi e ad essere proiettato su grandi schermi all'aperto, non era inusuale che gli spettatori più anziani e meno istruiti reagissero con stupore quando vedevano recitare in un film un attore che in una precedente pellicola aveva rappresentato un personaggio morente.

Oggi questo fraintendimento non ha più motivo d'essere; si può dire che semmai siamo avvinti da un procedimento in senso inverso: dal cinema che parla di se stesso o che palesa il suo farsi, il suo linguaggio, la sua stessa costruzione. La metadiscorsività del cinema permette di sviluppare diversi livelli diegetici, a volte concentrici, che da un lato, come avviene nel metateatro, accentuano il realismo dell'oggetto cinematografico, dall'altro lato però ci proiettano all'interno dello stesso film, inserendo virtualmente lo spettatore nella fabula.

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