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Il controverso rapporto tra fotografia e geografia

di Thomas Gilardi *

1. Il controverso rapporto tra fotografia e geografia

Il rapporto tra la geografia e la fotografia è tanto stretto quanto contro- verso da più di un secolo e mezzo. Dopo la sua invenzione nella prima metà dell’Ottocento la fotografia ebbe modo di imporsi velocemente come stru- mento privilegiato di comprensione del mondo.

Uno dei primi concetti geografici per cui venne utilizzata la fotografia fu il paesaggio, grazie al suo “valore documentario”; furono innumerevoli i paesaggi osservati, analizzati e descritti per mezzo delle fotografie dai geo- grafi di fine Ottocento e prima metà del Novecento. Ancora nel secondo dopoguerra, in una delle migliori pubblicazioni divulgative della geografia italiana (Vallega, in De Vecchis 2010), si affermava:

la fase elementare del paesaggio è una “veduta” panoramica, ossia l’immagine da noi percepita di un tratto di superficie terrestre, quale può abbracciarsi con lo sguardo da un determinato punto di vista. Questa immagine può essere fissata – ma perde già qualcuno dei suoi attributi – in una fotografia a colori, mentre in un qua- dro rivive trasformata dal travaglio artistico, dall’ispirazione del pittore (Sestini, 1963, p. 9).

In realtà le vedute rurali e urbane non erano di particolare interesse per i primi fotografi: furono i lunghi tempi di esposizione necessari per fissare i soggetti sulle lastre fotografiche a contenere per molti decenni l’uso della fotografia alla riproduzione di ciò che era immobile. Statue, monumenti e appunto vedute erano i soggetti principali di quella che prese il nome di fotografia pittorialista (Newhall, 1984). Successivamente, appena la tecnica

lo permise e i tempi di ripresa si ridussero, l’interesse dei fotografi si orien- tò velocemente verso aspetti della realtà più dinamici. Dunque se in un primo momento la fotocamera era fissa, poi il suo punto di vista fu più di- namico e alla fotografia pittorialista si affiancò quella giornalistica (Newhall, 1984).

Per tutto il XX secolo la fotografia, in ogni sua forma, si affiancò agli studi geografici e permise importanti considerazioni sul mondo. Dal canto loro i geografi, con gli esperti di altre discipline, indagarono le caratteristi- che dello strumento che più di altri riusciva a raffigurare la realtà. La que- stione poteva apparire tecnica: da un lato la fotografia usata per “registra- re”, che portò anche allo sviluppo del telerilevamento (aereo e satellitare) e che aspirava a riprendere la realtà in modo “oggettivo”; dall’altro lato la fotografia usata per “testimoniare”, che invece portò alla diffusione dei re- portage più diversi (riviste geografiche), e che intese riprendere la realtà in forma “soggettiva”. Tra i geografi che hanno indagato il rapporto tra la realtà e la fotografia si ricorda Eugenio Turri, che sosteneva come la foto- grafia non fosse in grado di restituire tutto ciò che era possibile percepire in un paesaggio, ma che, nonostante questo limite, la fotografia fosse comun- que in grado di riprendere un paesaggio così come le avremmo colto con lo sguardo (Turri, 2010).

L’evidenza fotografica è stata riconosciuta come una delle pietre ango- lari su cui è stato costruito nel tempo il mito della fotografia: fondato stori- camente sulla continua proclamazione dell’immagine come “documento”, “testimonianza”, ecc. (Gilardi, 2000). Infatti per decenni si è stati convinti che, se si fosse stati sul posto, si sarebbe visto l’oggetto ripreso nell’imma- gine esattamente come era stato fotografato. Come se al momento dello scatto non vi fossero a disposizione diversi punti di vista. Anche se è stato dimostrato più volte che spesso questo convincimento è solo un’illusione, dato che le fotografie possono essere modificate, sembra che nulla sia riu- scito a smuovere la fede implicita nella registrazione fotografica (Newhall, 1984). La storia della fotografia ha messo in evidenza come gli stessi foto- grafi abbiano cercato di liberarsi da questo vincolo che li confinava a meri “registratori della realtà apparente”. Tuttavia oggi la cosiddetta Legge di Newhall è ancora riconosciuta, infatti si afferma spesso che “un’immagine vale più di mille parole” e risulta difficile poter sostenere il contrario, so- prattutto quando l’immagine è definita e le parole sono banali (Gilardi, 2000). Ma la fotografia è riuscita a illudere che le immagini non solo riu- scissero a rappresentare fedelmente le cose, ma che addirittura “fossero le cose” (Eco, 1977), perché apparivano estremamente nitide al confronto del- le parole mai abbastanza precise utilizzate per descrivere i fenomeni. Inol- tre, si afferma spesso che viviamo nella società dell’immagine (Gombrich,

1985), ma ciò è vero solo se si riconosce lo squilibrio tra la fase di “produ- zione” e quella di “consumo”. Infatti, nonostante “la società dell’imma- gine” sia tale da diversi decenni, la nostra “alfabetizzazione visuale” è deci- samente carente e quasi sempre autodidatta. Ciò è dovuto al fatto che le forme istituzionali più diffuse di apprendimento si basano sull’uso presso- ché esclusivo del linguaggio verbale e di quello testuale, che non permetto- no lo sviluppo completo del potenziale visuale del pensiero umano.

Nonostante ciò, è vero anche che il linguaggio visuale sta trovando sempre più spazio nella didattica della geografia, proprio perché ricono- sciuto come una delle radici del pensiero umano (Gardner, 2010). Tuttavia per allenare questa forma di intelligenza è necessario cercare di cambiare da un linguaggio all’altro, utilizzando una serie di tecniche che la maggior parte degli insegnanti di geografia non conoscono in modo adeguato.

Per questa ragione un secondo punto di riflessione in merito al rapporto tra la fotografia e la geografia è relativo al suo uso nella didattica e nella comunicazione divulgativa. Infatti, le fotografie sono utilizzate sempre più spesso alla stregua di semplici illustrazioni: fumetti, dipinti, incisioni, dise- gni, ecc. Tutto appare utilizzato in modo sostanzialmente intercambiabile. In molti casi le immagini finiscono col sostituire anche i testi e sono carica- te di una funzione dispensativa che non sono in grado di sostenere. Infatti la maggiore forza del linguaggio visuale, rispetto a quello testuale, non ri- muove la necessità di un apprendimento significativo che permetta allo stu- dente di collegare le informazioni nuove con quelle già note e che le pre- servi dall’oblio (Novak, 2001). Eppure è evidente che i processi di realizza- zione delle diverse immagini non sono uguali: al di là di tutte le possibili sovrapposizioni e combinazioni ogni tipo di immagine ha una sua specifici- tà.

Dunque è necessario chiedersi cos’è una fotografia? Qual è il suo rap- porto con la realtà? Per quale motivo un geografo dovrebbe insegnare con delle immagini fotografiche piuttosto che dei dipinti o altri linguaggi?