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Il Pci di Togliatti e le socialdemocrazie europee

Guerra fredda, comunismo e socialdemocrazia L’Europa e L’Italia.

2. Il Pci di Togliatti e le socialdemocrazie europee

La ricostruzione approfondita dell’atteggiamento del Pci di Togliatti verso le socialdemocrazie europee va al di là degli scopi di questo lavoro: si tratta qui, piuttosto, di fissare alcune coordinate per meglio orientarsi nell’esame delle vicende successive,

33 Da un altro punto di vista, l’atteggiamento socialdemocratico verso il campo sovietico può

essere letto, attraverso le lenti proposte da Tony Judt, come un aspetto della generale «indifferenza alla scomparsa dell’Europa orientale» tipica degli europei dell’Ovest, abituatisi presto alla divisione del continente e comunque «così preoccupati dei notevoli cambiamenti in atto nei loro paesi, che sembrava quasi naturale che ci dovesse essere un’impermeabile barriera armata che correva dal Baltico all’Adriatico». Cfr. T. Judt, Postwar, cit., p. 196. Faceva in ogni caso eccezione in questo quadro la socialdemocrazia tedesca, per la quale il rapporto con l’Europa orientale era questione nazionale di primaria importanza.

con una sintetica ricognizione che metta in luce gli aspetti più significativi della questione34.

Punto di partenza deve essere l’osservazione della particolare rilevanza, nel caso del Pci, del momento antifascista, fondamento della presenza nazionale e origine di un discorso politico unitario destinato ad influenzare a lungo la cultura politica del partito. Nella stessa abbondante misura, il Pci visse dell’antifascismo le contraddizioni, e scontò le conseguenze della sua mancata proiezione internazionale – come criterio delle relazioni postbelliche fra le potenze vincitrici e come elemento unificante della sinistra europea. La discordanza, determinata da quell’esito, fra una politica nazionale impostata come unitaria e la crisi della grande alleanza internazionale, metteva in discussione la proposta politica del comunismo italiano: è un tema ben noto, che ricapitoleremo qui solo brevemente, facendo riferimento all'ampia letteratura disponibile35.

Dopo essere stato, con la “politica di Salerno”, interprete di prima linea della scelta legalitaria del movimento comunista negli anni della Resistenza e dell’immediato dopoguerra, il Pci perdeva con la guerra fredda l’orizzonte del governo nazionale, e finiva sul banco degli imputati per il suo “moderatismo” al momento del “serrate i ranghi” imposto dal Cominform. Adeguandosi alle nuove circostanze, la direzione togliattiana riusciva, superando anche resistenze diffuse in settori rilevanti del partito, a salvaguardare la sostanza del disegno del «partito nuovo» e della «democrazia progressiva» (più in generale: la possibilità, declinata a partire dal piano nazionale, di

34 Il tema dell’atteggiamento delle socialdemocrazie nei confronti del Pci sarà invece esaminato, a

posteriori, nel paragrafo 1.2.

35 Per limitarsi alle ricerche successive all’apertura degli archivi italiani e sovietici, una sintetica

bibliografia può comprendere: M. Lazar, Maisons Rouges. Les partis communistes français et italien de la Libération à nos jours, Aubier, Paris 1992; R. Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana. Dalla Resistenza al trattato di pace, 143-1947, Editori Riuniti, Roma 1995; E. Aga- Rossi, G. Quagliariello (a cura di), L’altra faccia della luna. I rapporti tra Pci, Pcf e Unione Sovietica, il Mulino, Bologna 1997; E. Aga Rossi, V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin: il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1997 e 20072; S. Pons,

L’impossibile egemonia, cit.; R. Gualtieri (a cura di) Il Pci nell’Italia Repubblicana 1943-1991, cit.; V. Zaslavsky, Lo stalinismo e la sinistra italiana: dal mito dell’Urss alla fine del comunismo, 1945-1991, Mondadori, Milano 2004; A. Guiso, La colomba e la spada. Lotta per la pace e antiamericanismo nella politica del Partito comunista italiano, 1949-1954, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a cura di) Togliatti nel suo tempo, Carocci, Roma 2007. Rimandiamo all’Introduzione per una discussione delle diverse linee interpretative di questi lavori.

attingere ad una cultura politica più ampia di quella cominformista36), confermando allo stesso tempo il saldo collegamento della propria azione con quella del movimento comunista internazionale. Si accettava dunque un appannamento della prospettiva strategica – la limitazione delle possibilità di un partito comunista collocato nel campo occidentale – continuando però a portare avanti, nei margini residui, l’azione politica.

La rottura del 1947 non interrompeva lo sviluppo della legittimazione antifascista perseguito nella partecipazione al processo costituente e nel radicamento del partito nella società. Se il testo costituzionale assumeva così, per i comunisti, un carattere programmatico, incorporando le aspettative di riforma politica ed economica, il partito di massa era lo strumento che consentiva la sopravvivenza nell’ambiente ostile della guerra fredda e, insieme, garantiva una presenza capillare che rispondeva alle peculiarità della situazione italiana (l’eredità del fascismo, la concorrenza sul territorio dell’organizzazione cattolica). La sua costruzione materiale, politica e identitaria, aveva nell’appartenenza al fronte guidato dall’Unione Sovietica un elemento essenziale.

Il legame politico che a quella costruzione era sotteso dava luogo per il Pci ad un “primato dell’internazionalismo” che vincolava l’azione del partito alla compatibilità con la definizione sovietica degli interessi del movimento comunista, in particolar modo sul terreno sensibile della politica internazionale. Il vincolo riassumeva tuttavia un’interazione più complessa, nella quale, fatto salvo il criterio gerarchico, il partner minore non poteva limitarsi ad un ruolo di accettazione passiva di direttive elaborate altrove37. A definire l’azione del Pci nell’Europa della guerra fredda erano cioè una cultura politica e un criterio di appartenenza, che determinavano una particolare lettura della combinazione fra gli elementi nazionali e internazionali della vita politica;

36 Cfr. R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, vol. VI, Il «partito nuovo» dalla

Liberazione al 18 aprile, Einaudi, Torino 1995, pp. 248-58 e 277-296.

37 All’interno della letteratura menzionata in precedenza, cfr. su questi aspetti in particolare G.

Gozzini, La democrazia dei partiti e il «partito nuovo», in R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a cura di) Togliatti nel suo tempo, cit., pp. 280-291. Una lettura parzialmente differente è quella proposta da M. Lazar. All’interno di una ricostruzione comparativa delle vicende del comunismo italiano e francese che ridimensionava l’immagine di una decisiva “originalità” del Pci all’interno del movimento comunista (almeno prima del 1956), egli osservava: «L’azione dei due partiti comunisti alla fine degli anni Quaranta e all’inizio degli anni Cinquanta trae ispirazione da una medesima fonte. Ma i due partiti interpretano in maniera differente una partitura musicale scritta per l’insieme del movimento comunista internazionale: il Pcf sceglie l’allegro vivace, il Pci è incline all’allegro moderato» (Maisons rouges, cit., p. 73).

un’interpretazione a sua volta mediata dal tentativo di proporre una visione specifica dei compiti del movimento comunista e della funzione che il partito doveva svolgere al suo interno38. Non sorprende che questo complesso adattamento lasciasse come retaggio un “mito” della politica unitaria, quale fase di concordanza fra gli aspetti nazionali e internazionali della proposta politica comunista, e l’obiettivo del suo ripristino come traguardo strategico.

Fra gli ambiti nei quali il “primato dell’internazionalismo” si faceva più stringente ricadeva evidentemente anche l’atteggiamento verso la sinistra europea. Dopo la rottura del 1947, l’aspra critica alla socialdemocrazia incorporata nella «dottrina dei due campi» fu assunta dal Pci come parte integrante della difesa dello spazio politico comunista. Il Leitmotiv, declinato senza particolare originalità, era la denuncia del «tradimento» operato dai socialdemocratici con l’abbandono della politica unitaria, destinato a collocarli nel campo dell’imperialismo e della guerra, fuori dal perimetro d’azione delle forze di classe. L’adozione del criterio dei due campi non lasciava spazio ad opzioni terzaforziste, e identificava direttamente scelta internazionale e possibilità di rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Della proposta di «Terza Forza» della Sfio si leggeva sull’«Unità» la definizione di «politica che ha incominciato con il tradimento del socialismo per finire con il tradimento della democrazia»39. Contro di essa si esprimeva Togliatti nelle assise del movimento comunista, escludendo, per un «sincero socialista», la possibilità di collocarsi su una «via di mezzo […] fra gli interessi delle classi lavoratrici […] e gli interessi del capitalismo monopolistico e delle classi privilegiate»40. L’ispirazione dell’Internazionale socialista era invece risolta dalla stampa del Pci nell’atlantismo bellicista, sconfessione delle tradizioni più nobili del socialismo europeo:

Se fosse vivo Jaurès, che cosa egli direbbe di questa Internazionale Socialista risorta alla conferenza del Comisco di Francoforte, attorno alla bandiera del riarmo atlantico? Jaurès, che pagò con la vita la sua tenace opposizione alla guerra, non avrebbe certo riconosciuto nei dirigenti

38 Una formulazione particolarmente chiara del concetto è in R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al

1992. DC e Pci nella storia della repubblica, Carocci, Roma 2006, p. 28.

39 L. Lombardo Radice, La “Terza Forza”, in «l’Unità», 27 novembre 1947.

40 L’espressione è tratta dal rapporto di Togliatti alla terza conferenza del Cominform, del

novembre 1949. Cfr. G. Procacci (a cura di), The Cominform. Minutes of the Three Conferences, cit., p. 787.

socialdemocratici convenuti in questi giorni nella città tedesca, i continuatori della sua lotta ideale41.

Il collegamento fra scelta internazionale e capacità di effettiva trasformazione sociale era evidente nel giudizio comunista sull’esperienza del governo Attlee in Gran Bretagna. Nel 1950, Togliatti parlava di «sconfitta del laburismo», criticando l’azione dei dirigenti inglesi:

Nel campo internazionale, sono stati strumento dell’imperialismo nordamericano. […] All’interno, hanno subordinato ai piani e interessi dei grandi monopoli americani la vita economica inglese, tanto da trovarsi alla fine in un cul di sacco. Le loro nazionalizzazioni non hanno distrutto le basi economiche della grande borghesia […]. Anche le altre riforme sociali sembrano non essere andate oltre i limiti corporativi e di un’ampia previdenza e beneficenza42.

Il giudizio era ripreso l’anno successivo dal vicesegretario Luigi Longo, il quale, all’indomani delle consultazioni che avevano riportato al governo i Tories, contrapponeva l’incerto bilancio delle realizzazioni di «quella adulterazione e falsificazione del socialismo che va sotto il nome di laburismo» ai «passi da gigante» compiuti nei «paesi di nuova democrazia» nello stesso arco di tempo che separava dalla fine della guerra43. Confrontarsi con i risultati dell’azione laburista riportava d’altronde alla radice della scelta comunista, la rottura rappresentata dalla Rivoluzione d’ottobre: al riformismo britannico si rimproverava in primo luogo l’essersi messo fuori e contro quella che era dipinta come la via del progresso storico dell’umanità; la collaborazione «oggettiva», nell’antisovietismo, con le forze conservatrici, che faceva tutt’uno con l’abbandono dell’obiettivo della trasformazione socialista44.

41 G. De Rosa, “Socialisti riarmisti”, in «l’Unità», 6 luglio 1951. 42 P. Togliatti, Sconfitta del laburismo, ivi, 28 febbraio 1950.

43 L. Longo, I laburisti pagano con la sconfitta la politica imperialista e borghese di Attlee, ivi,

27 ottobre 1951. Sul giudizio del Pci intorno al governo laburista cfr., in particolare per i riferimenti alla stampa comunista, E. Costa, Il “campo sperimentale” del socialismo: la vittoria laburista del 1945 e i suoi riflessi sulla sinistra italiana, in «Dimensioni e problemi della ricerca

storica», 2/2011, pp. 27-38.

La distanza del Pci dagli orizzonti politici delle socialdemocrazie non si misurava solo sul campo delle opzioni ideologiche e internazionali. La stessa strategia della “democrazia progressiva”, legata direttamente, nella sua concezione, alla vicenda storica italiana, presentava da questo punto di vista profili critici: sebbene, infatti, condividesse la tendenza europea occidentale alla collocazione sul terreno costituzionale e democratico dell’azione del movimento operaio, la proposta dei comunisti italiani era per altri versi assai peculiare. Si possono apprezzare, per limitarsi ad un esempio, alcuni caratteri della sua visione del sistema politico nella sintesi tracciata da Alessandro De Angelis:

La concezione della democrazia è di tipo rousseauiano e monistico, dove la componente assemblearista (parlamento specchio del paese) riconosce una uniformità di consensi attorno a un blocco nazionale, ossia un’alleanza fra forze motrici che incarna la volontà generale; il pluralismo dei soggetti politici non corrisponde nel disegno comunista ad una democrazia competitiva, fondata sull’alternanza. La sola maggioranza parlamentare che avrebbe rispecchiato in modo adeguato il patto costituzionale sarebbe stata quella fondata sulla coalizione tripartitica sine tempore45.

Il modello, che aveva la sua origine nell’esperienza antifascista (e veniva paradossalmente rinnovato dal consolidamento dell’incompatibilità internazionale del Pci), mal si accordava con la piena conversione alla democrazia liberale mostrata dall’Internazionale socialista a Francoforte. Non poteva passare inosservata la sfiducia del Pci verso i sistemi occidentali (ai quali il partito attribuiva una tendenza alla manipolazione della volontà popolare attraverso i meccanismi elettorali e il rischio costante di uno scivolamento verso soluzioni non democratiche46), né rassicurava – si rammenti la rottura del 1948 nel Comisco – l’impostazione comunista di una politica delle alleanze: avremo occasione di tornare sui dubbi che, anche nei loro sviluppi successivi, questi aspetti sollevavano fra i socialdemocratici europei.

Fra gli elementi che determinavano la specificità della situazione della sinistra italiana era poi, ovviamente, la collocazione dei partiti socialisti. Dopo l’espulsione dall’IS, il Psi

45 A. De Angelis, I comunisti e il partito. Dal “partito nuovo” alla svolta dell’89, Carocci, Roma

2002, p. 97.

46 Cfr. ad esempio P. Togliatti, Regimi democratici e regimi reazionari, in «Rinascita», ottobre

era passato ad un giudizio non meno severo di quello comunista nei confronti delle socialdemocrazie e dei loro leader. I dirigenti del partito non mancavano di energia nel denunciare fra questi i «Don Chisciotte dell’ideale anti-comunista» o le «mosche cocchiere dell’imperialismo americano»47. L’isolamento internazionale era rovesciato nell’orgogliosa rivendicazione di una funzione, unica in Europa, di portabandiera della tradizione socialista “abbandonata” dal resto del movimento. Se, senza dubbio, sarebbe superficiale ridurre a queste invettive la politica del Psi verso l’Internazionale – anche senza considerare la costante articolazione delle posizioni interne al partito, essa conobbe sviluppi e discontinuità, con un’evoluzione accelerata a partire dal 1955-5648 –, si trattava tuttavia di posizioni non prive di riflessi e collegamenti nella politica comunista. Il mantenimento del profilo autonomo del socialismo italiano in Europa rappresentava per il Pci una garanzia della tenuta dell’unica, preziosa, alleanza interna: in questo senso, a quell’obiettivo si doveva un’accentuazione, nel discorso pubblico del partito, della svalutazione dell’esperienza delle socialdemocrazie49. Un esempio di questa tendenza è in un intervento di Togliatti del marzo 1955, alla vigilia del XXXI Congresso del Psi:

Tutti i partiti socialdemocratici dell'Europa capitalistica, si dice, hanno respinto la collaborazione con i comunisti: perché i socialisti italiani dovrebbero fare l'eccezione? Ma perché non si trasporta la questione, per avere una giusta risposta, sul terreno concreto? Che cosa ha dato ai socialdemocratici e che cosa ha dato ai lavoratori il rifiuto socialdemocratico di collaborare con i comunisti? Nel 1946 la socialdemocrazia, avendo in parecchi paesi accettato di collaborare con i comunisti, sembrava dovesse avere e mantenere una posizione dominante nell'occidente europeo. Ruppe con i comunisti, ponendosi al servizio dell'imperialismo americano che questo esigeva, cacciò i comunisti dai governi e ne iniziò la persecuzione fredda e, come primo risultato, vide il predominio politico passare ai partiti clericali, conservatori e reazionari. Non vi è oggi nessun paese dell'occidente capitalistico nel quale si possa dire che è stata condotta, a favore degli operai

47 Cfr. G. Scirocco, Politique d’abord. Il PSI, la guerra fredda e la politica internazionale (1948-

1957), Unicopli, Milano 2010, pp. 134-35.

48 Cfr. S. Colarizi, I socialisti italiani e l’Internazionale socialista, cit., p. 24 e ss.

49 Il condizionamento sulla politica socialista andava evidentemente oltre l’aspetto qui preso in

considerazione, ed aveva sul terreno finanziario gli strumenti più efficaci. Sugli interventi comunisti sul Psi si veda ad esempio P. Mattera, Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico, Carocci, Roma 2004, pp. 154-55, 189, 255-57.

e dei lavoratori, un'azione di rinnovamento sociale. […] Nel confronto con questi partiti, chi ci guadagna è, ancora una volta, il socialismo italiano50.

Rappresentante italiano nell’Internazionale socialista era invece il Partito socialista dei lavoratori italiani, dal 1952 Partito socialista democratico italiano: il «partito di Saragat», nato con la scissione di Palazzo Barberini del gennaio 194751. Alleato della DC al momento del dibattito sulla scelta occidentale e partner essenziale della politica centrista, questo finì per incarnare nell’immaginario comunista la personificazione della politica di divisione della classe operaia abbracciata in ossequio alla fedeltà atlantica, gettando a lungo una seconda ipoteca, questa volta tutta “nazionale”, sullo stesso termine «socialdemocratico»52.

Il quadro tratteggiato sopra non esaurisce certamente l’impostazione della questione, ma può dare l’idea della pluralità di elementi critici che definivano il rapporto del Pci con le sinistre non comuniste europee nel primo decennio dalla fine della guerra mondiale. Complessivamente, il dato più rilevante pare quello della limitata autonomia mostrata dalle forze politiche nell’interpretazione del contesto internazionale. Da questo punto di vista, la rigidità del “primato dell’internazionalismo” del Pci rappresenta, nelle forme proprie del movimento comunista, l’altra faccia di una combinazione fra cultura politica e adattamento alla guerra fredda che, pur in circostanze differenti, anche per le socialdemocrazie si traduceva nella difficoltà di definire una proposta originale per la politica estera.

È vero che anche negli anni del più acceso contrasto resisteva nel Partito comunista italiano l’idea di un tessuto unitario, legato alle radici operaie dei partiti

50 P. Togliatti, Socialisti e comunisti, in «Rinascita», marzo 1955, ora in Id., Opere, vol. V (a cura

di L. Gruppi), Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 919-20. Per una contestualizzazione dell’intervento, cfr. A. Agosti, Togliatti. Un uomo di frontiera, Utet, Torino 20032, p. 430.

51 Sulla nascita del partito cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del PSI, vol. III, Dal dopoguerra a oggi,

Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 63-71.

52 Cfr. ad esempio Unità socialista, in «Rinascita», luglio 1947, pp. 169-171; G. Pajetta,

Socialdemocratici italiani, ivi, febbraio 1949, pp. 54-58. L’ostilità al Psdi e l’identificazione socialdemocrazia-tradimento della classe erano diffuse anche nelle fila socialiste. Si veda ad esempio la descrizione delle reazioni negative al celebre incontro di Pralognan fra Nenni e Saragat in P. Mattera, Il partito inquieto, cit., pp. 258-259. Quanto al giudizio del comunismo internazionale, valga il riferimento al già citato intervento della rivista del Cominform sul Congresso di Francoforte, dove Saragat era menzionato con l’epiteto di «inveterato traditore della classe operaia italiana». Cit. in J. Braunthal, History of the International, vol. III, cit., p. 206.

socialdemocratici, in particolar modo dove questi non avevano una rilevante concorrenza comunista: alla vigilia delle elezioni politiche inglesi del 1951, Togliatti esprimeva l’auspicio di una vittoria laburista, «perché non possiamo augurare la disfatta di una parte della classe operaia, anche se i suoi dirigenti non seguono quella che noi riteniamo sia la giusta linea politica»53. Se si ricorda però quanto fosse severo il giudizio sui risultati di quella esperienza di governo, si vede bene come fosse difficile immaginare per il legame unitario una proiezione politica. Mancava, d’altra parte, uno spazio internazionale dove questa si potesse esplicare: quello dell’antifascismo si era presto consumato, l’integrazione europea era oggetto di controversia per un movimento e condanna senza appello per l’altro54, IS e Cominform si lanciavano reciproci anatemi. Quanto al pacifismo, al centro dell’iniziativa internazionale del movimento comunista nei primi anni Cinquanta, la sua declinazione marcatamente antiamericana da parte delle forze filosovietiche lo rendeva improbabile come terreno d’incontro con le socialdemocrazie, che pure avevano il tema nella loro tradizione55. Emblematica, da questo punto di vista, la

vicenda del Congresso mondiale della pace che – sotto l’insegna della celebre colomba disegnata da Pablo Picasso – doveva riunirsi nel novembre del 1950 a Sheffield, in Gran Bretagna: il governo di Clement Attlee ne osteggiò e infine proibì lo svolgimento, considerando il movimento che lo promuoveva nient’altro che una proiezione della politica estera sovietica («a Trojan Dove», nell’icastica definizione del segretario internazionale laburista Denis Healey)56.

La chiusura della fase più acuta della tensione bipolare, dopo il picco coinciso con la guerra di Corea, produsse una trasformazione solo lenta e parziale di questo quadro: è difficile, per gli anni successivi, parlare di una tendenza univoca nella vicenda delle relazioni fra il Pci e socialismo europeo. Dopo la morte di Stalin, il partito italiano poteva collegarsi alle tendenze distensive della nuova leadership sovietica: l’avvio del «disgelo» interno, l’allontanamento della prospettiva dell’inevitabilità della guerra (evidente negli

53 Cit. in E. Costa, Il “campo sperimentale” del socialismo, cit. p. 30.

54 Sulla posizione del Pci si veda S. Galante, Il Pci e l’integrazione europea. Il decennio del

rifiuto, 1947-1957, Liviana, Padova 1988.

55 Sul movimento dei «Partigiani della pace» cfr. A. Guiso, La colomba e la spada, cit.