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Il Pci di Luigi Longo

L’ambigua lotta alla “logica dei blocchi”

1. Il Pci di Luigi Longo

Il segretario del Pci che succedeva a Togliatti, sebbene privo dell’autorevolezza politica e delle risorse culturali del suo predecessore, era destinato a lasciare una traccia tutt’altro che secondaria nella vicenda del partito. Il periodo di direzione di Luigi Longo, più breve e meno immediatamente caratterizzato rispetto a quelli che ne delimitano i confini temporali, dominati da figure capitali per la tradizione comunista italiana come Togliatti ed Enrico Berlinguer, è stato recentemente oggetto di un rinnovato interesse storiografico, che ha restituito l’immagine di un percorso non scontato in anni di mutamento per l’Italia e per gli equilibri globali1.

Rispetto al tema di questo studio, gli anni di Longo sono quelli di una prima iniziativa del Pci – messa in campo a partire dal 1967 – per avviare un dialogo con i partiti socialdemocratici europei. Le origini di questo orientamento sono da rintracciare in due linee d’azione della segreteria. La prima faceva riferimento al ruolo del Pci in seno al movimento comunista internazionale, e allo sviluppo, per questo tramite e a partire da questo campo politico, di una lettura particolare della situazione europea e internazionale della metà degli anni Sessanta. L’altra guardava invece all’Italia, e alla risposta da dare all’alleanza governativa di centro-sinistra e alla ridefinizione del sistema politico legata alla nuova funzione del Psi: a catalizzare l’attenzione era in questo caso il progetto di rafforzamento del polo socialista, con l’unificazione del partito di Nenni con quello socialdemocratico. Attorno ad entrambi i temi, e alla loro connessione con la proposta economica e politica generale del partito, si sviluppava nel gruppo dirigente del Pci un

1 Sarà sufficiente qui il richiamo al recente lavoro di A. Höbel, che sarà necessariamente punto di

riferimento costante per le prossime pagine: Il PCI di Luigi Longo (1964-1969), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2010.

dibattito vivace: al di là della tendenza, assai sottolineata in sede memorialistica e storiografica, alla polarizzazione fra una “destra” e una “sinistra” – facenti capo rispettivamente a Giorgio Amendola e Pietro Ingrao –, le questioni affrontate nei primi anni del dopo-Togliatti erano destinate ad impegnare a lungo la politica comunista.

Il gesto politico col quale Longo inaugurava la propria segreteria – la pubblicazione del «Memoriale di Yalta» – dava al partito un’indicazione chiara sulla linea politica e sulla funzione da svolgere all’interno del movimento comunista. La scelta irrituale di dare la massima pubblicità a un documento riservato e critico come il «Memoriale» fissava di fronte all’opinione internazionale lo standard delle posizioni del Pci sul punto più alto dell’elaborazione autonoma del partito, e annunciava un’interpretazione attiva della partecipazione al movimento comunista. Mentre la stampa del Pci dava largo risalto alla ricezione internazionale del testamento politico di Togliatti2, Longo ribadiva al gruppo dirigente il significato della scelta della pubblicazione:

L’abbiamo fatto per rendere omaggio a Togliatti e per dare anche autorità a una nuova direzione. […] Il pubblicarlo ha aperto un momento diverso nei rapporti tra i partiti e nei paesi socialisti, che ha inciso e inciderà. Continuerà questo? Vorrei che continuasse. Il dibattito aperto è un elemento nuovo: basti pensare agli errori, e alle cose mal compiute, dei dirigenti dei paesi socialisti. Non se ne era mai parlato in questi termini. […] Penso che noi dovremmo agire in modo che si discuta più liberamente tra i partiti, in primo luogo tra noi e il Pcus, conducendo avanti questo dibattito3.

Poche settimane dopo – alla metà di ottobre del 1964 –, la reazione del gruppo dirigente italiano alla repentina rimozione di Chruščёv dai suoi incarichi nel Pcus dimostrava l'accoglimento della lettura proposta da Longo, e, insieme, i limiti dell’innovazione introdotta dal segretario. Nella denuncia del metodo e del merito dell’operazione – il dirigente ucraino era associato alla politica del XX Congresso e della coesistenza pacifica, rispetto alle quali si temeva un arretramento – arrivavano dalla

2 Cfr. ad esempio S. Segre, Lo scritto di Togliatti nei commenti della stampa mondiale, in

«Rinascita», 12 settembre 1964; G.C. Pajetta, Il promemoria nella stampa operaia e socialdemocratica, ivi, 3 ottobre. Un’ampia rassegna stampa è in FIG, APC, Sezione esteri, mf. 516, pp. 266-338.

Direzione del Pci inviti a «rimanere all’altezza di Yalta» e ad «andare a risposte più profonde e avanzate, sia per quanto concerne i paesi socialisti, sia per il problema generale di che cosa intendiamo per democrazia socialista»4. A testimonianza di un bilanciamento interno, che mostrava la continuità degli schemi dell’«unità nella diversità», altri dirigenti opponevano a queste esigenze quelle del realismo (con riferimento al conflitto cino-sovietico, Gian Carlo Pajetta ricordava che «in questa situazione vogliamo trovarci in una certa trincea, e non in mezzo, dove piovono i colpi di tutti») e dello schieramento internazionale: «la democrazia varia da paese a paese. Nella Rdt a noi ci interessa [sic] la democrazia certo, ma soprattutto che resista nelle sue posizioni per fronteggiare la Germania occidentale»5. Sebbene circoscritta entro i margini dell’unità comunista, l’affermazione della facoltà d’intervento nelle questioni del movimento e della possibilità di sviluppare iniziative autonome a livello internazionale doveva caratterizzare l’azione del Pci negli anni successivi. Scrivendo al Pcus per chiedere chiarimenti sugli avvenimenti di ottobre, gli italiani confermavano i punti essenziali della propria impostazione: «La lotta per la coesistenza pacifica, il principio delle diverse vie d’accesso al socialismo, l’esigenza di sviluppare la democrazia socialista, debbono rimanere l’asse della nostra strategia in questa fase storica»6.

In Italia, la situazione politica aveva conosciuto un tornante decisivo nel luglio del 1964. La formazione del secondo governo guidato da Aldo Moro, in un clima intorbidito dalle pressioni conservatrici extra-legali, avveniva nel segno della rinuncia ai punti più rilevanti e controversi dell’agenda di riforma del centro-sinistra. Immediatamente registrato dal passo indietro di due dei dirigenti socialisti più impegnati su questo terreno – Antonio Giolitti e Riccardo Lombardi –, il passaggio di fase era tale da far parlare in seguito, in sede storiografica, di una «definitiva sconfitta dei riformisti» all’interno dell’alleanza di governo (anticipata, del resto, dall’affermazione nei mesi precedenti della

4 Ivi, Direzione, 15 ottobre 1964, pp. 904 e 896. Gli interventi sono rispettivamente di Paolo

Bufalini e Pietro Ingrao.

5 Ibid., p. 905, intervento di Gian Carlo Pajetta.

6 Ibid., p. 912, Lettera «Al comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica», 26

ottobre 1964. Una lettura differente di questa fase della politica comunista è proposta invece da M. Galeazzi, Il Pci e il movimento dei paesi non allineati, Franco Angeli, Milano 2011. Secondo Galeazzi (p. 120), «Il vincolo internazionalista all'Urss era più forte nei suoi eredi di quanto non lo fosse stato per Togliatti, che nella fase finale della sua vita aveva assunto una posizione critica nei confronti della leadership del Pcus».

linea economica patrocinata dalla Banca d’Italia, incentrata sull’utilizzo della stretta sul credito come strumento di contenimento delle rivendicazioni salariali)7. Già nel gennaio del 1964, il Psi aveva pagato il dazio della scissione di una parte consistente della sua ala sinistra, che era andata a formare un nuovo «Partito socialista di unità proletaria» su di una linea di opposizione al centro-sinistra. Come ha osservato Guido Crainz, «consumata la sconfitta del centro-sinistra riformatore, il Pci trovava sì ulteriore legittimità come forza essenziale della sinistra, ma per ciò stesso non poteva più eludere nodi cruciali. Essi attenevano tutti al “governo” della grande trasformazione del paese, ed esigevano la capacità di ridare credibilità (e fascino) alle ipotesi riformatrici»8.

Il dibattito comunista, come si accennava, tendeva ad orientarsi attorno a due proposte, che richiamiamo qui in forma estremamente sintetica9. Da un lato, la linea amendoliana, che traeva da un giudizio sui persistenti elementi di arretratezza del capitalismo italiano l’indicazione della necessità di fungere da sponda e da pungolo per le iniziative di riforma del centro-sinistra, al fine di ottenere un terreno d’azione più avanzato, lavorando al contempo sul rapporto con i socialisti per mettere in evidenza le contraddizioni dell’alleanza. Dall’altro, quella ingraiana, che sottolineava invece l’avanzata del «neocapitalismo» e delle sue capacità di integrazione subalterna della classe operaia. Di qui la critica al centro-sinistra come strumento di «razionalizzazione capitalistica», e l’obiettivo di un «modello di sviluppo» integralmente alternativo, al quale lavorare costruendo alleanze con settori di società che veicolassero “dal basso” domande che si opponevano alla logica capitalistica – un terreno sul quale sviluppare un dialogo privilegiato con parte del cattolicesimo di sinistra.

La linea di Amendola, più istituzionale e coerente con gli orientamenti tradizionali del partito, anche a livello internazionale (il movimentismo di Ingrao si prestava infatti a declinazioni antimperialiste-militanti che mettevano in questione il sostegno alla politica di coesistenza pacifica, asse centrale della visione del Pci), doveva essere in buona parte accolta nella sintesi operata dal centro del partito, rispetto alla quale l’XI Congresso, del

7 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Utet, Torino 1995, p. 181 (pp. 172-181 per un

inquadramento generale del passaggio).

8 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003,

p. 156.

9 Analisi approfondite sono in G. Sorgonà, La svolta incompiuta, cit., pp. 151-238; A. Höbel, Il

gennaio 1966, avrebbe rappresentato un punto d’arrivo. Qui vale la pena soffermarsi rapidamente su un episodio critico della proposta del dirigente napoletano: la “sortita” del novembre 1964 sulla costruzione di un partito unico della sinistra10.

Le tappe della vicenda sono note: mentre negli ambienti comunisti si sviluppava un dibattito sul tema dell’unità della sinistra, che rispondeva criticamente ai progetti di riunificazione fra Psi e Psdi, Amendola avviava sull’argomento un dialogo col filosofo Noberto Bobbio, il quale aveva invitato il Pci a «fare i conti», discutendo di unità, con il tema della democrazia (spunto dell’osservazione erano le modalità della rimozione di Chruščёv, prova clamorosa del mancato avanzamento, su questo terreno, degli Stati a regime comunista). Dopo un primo scambio di battute, il dirigente del Pci rispondeva all’argomentazione di Bobbio secondo cui l’unica politica possibile per un partito unico del movimento operaio sarebbe stata quella socialdemocratica (in quanto la sola adeguata alla realtà di uno Stato a regime democratico-parlamentare), con la proposta di unificare la sinistra sulla base di una linea di «via italiana al socialismo». Né socialdemocrazia né modello comunista, dunque, poiché «nessuna delle due soluzioni prospettate alla classe operaia dei paesi capitalistici dell’Europa occidentale negli ultimi cinquant’anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata finora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società»11. La presa di posizione di Amendola causava una comprensibile agitazione nel mondo comunista, all’interno del quale l’equiparazione fra i due movimenti suonava sacrilega, e il giudizio sui mancati risultati della politica comunista liquidatorio. La risposta pubblica della Direzione del partito restava comunque relativamente morbida: la prima replica era affidata, su «Rinascita», ad un dirigente di secondo piano, che manteneva la polemica entro toni contenuti12.

A questo episodio, in particolare, sarebbe stata a lungo legata l’immagine di un Amendola “socialdemocratico”, coraggioso anticipatore di una confluenza del Pci

10 Sulla questione cfr., oltre ai volumi di Höbel (pp. 82-89) e Sorgonà (pp. 226-29), G. Cerchia,

Giorgio Amendola. Gli anni della Repubblica (1945-1980), Cerabona, Torino 2009, pp. 310-318. Utili anche le osservazioni di R. Gualtieri, Giorgio Amendola dirigente del Pci, in «Passato e Presente», gennaio-aprile 2006, pp. 35-37 e G. Berta, Una socialdemocrazia mancata. L'eredità dispersa di Giorgio Amendola, in «Il Mulino», 3/2007, pp. 399-408.

11 G. Amendola, Ipotesi sulla riunificazione, in «Rinascita» 28 novembre 1964, ora in Id.,

Polemiche fuori tempo, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 54-55.

nell’alveo della sinistra europea occidentale per gli uni, simbolo di moderatismo e abbandono degli obiettivi di trasformazione socialista per gli altri (questi ultimi, probabilmente, più diffusi all’epoca nelle fila del Pci13). L’opinione non pare pienamente confermata dall’effettiva sostanza dell’argomentazione di Amendola, che rimaneva assai critico delle realizzazioni dei governi socialdemocratici europei, e non prevedeva per il partito unificato una rescissione dei legami con il campo sovietico. La proposta, casomai, riprendeva il discorso togliattiano della necessità per la sinistra europea occidentale di ritrovare, attraverso l’unità, una capacità di azione che aveva smarrito, all’interno del movimento operaio internazionale, a favore dell’Unione Sovietica14. Una sorta di «Terza via» ante litteram, come ha suggerito il biografo di Amendola Gianni Cerchia, priva però delle velleità di riforma del sistema comunista che avrebbero caratterizzato, un quindicennio più tardi, la nota formulazione berlingueriana. Il quadro di riferimento di Amendola era infatti «completamente nazionale», ed era in esso che il dirigente del Pci «tentava di verificare nuovi spazi e allargare gli orizzonti del possibile, ben al di là della tradizione e della prassi comunista»15.

È stato opportunamente osservato come, al di là della scarsa considerazione del problema delle compatibilità internazionali insita nella proposta, un elemento di debolezza decisivo fosse nell’indisponibilità di quello che doveva essere il suo referente principale, un Partito socialista che aveva invece scelto con determinazione la collaborazione governativa con la DC16. D’altra parte, come lo stesso Amendola suggeriva ai dirigenti del Pci che avevano accolto criticamente il suo scritto, la proposta poteva essere intesa anche solo nel suo valore tattico: «È utile opporre al polo di unificazione socialdemocratica un altro polo, di via italiana al socialismo. Questa

13 Questa almeno era l’opinione che riportava lo stesso Amendola: cfr. G. Cerchia, Giorgio

Amendola, cit., p. 327.

14 Su questo punto cfr. in particolare il primo degli interventi in risposta a Bobbio, Il socialismo in

occidente, ora in G. Amendola, Polemiche fuori tempo, cit., p. 47: «La divisione del movimento operaio dei paesi capitalistici ha impedito che esso potesse dare un suo originale contributo alla lotta mondiale per il socialismo, un contributo che affermasse nei fatti il necessario rapporto tra socialismo e libertà, che utilizzasse il patrimonio glorioso accumulato nelle grandi battaglie democratiche dell’ottocento e del novecento e l’eredità culturale delle grandi correnti del pensiero moderno, La rivoluzione socialista ebbe luogo in Russia e la classe operaia occidentale mancò all’appuntamento».

15 G. Cerchia, Giorgio Amendola, cit., p. 315.

posizione dà un sostegno alle forze che all’interno del Psi lottano contro la prospettiva socialdemocratica»17.

Nel dibattito interno alla Direzione comunista paiono interessanti, più che i prevedibili richiami alla tradizione che Amendola aveva sfidato (la distanza fra comunismo e socialdemocrazia, il giudizio sui risultati del primo), alcuni aspetti che chiariscono la difficoltà per il Pci di impostare un discorso sulla sinistra europea a partire da una prospettiva “nazionale” come quella dell’unificazione. Il direttore dell’«Unità» Mario Alicata osservava come nel «partito unico» si manifestassero «due istanze: una laburista (bipartitismo) e una stalinista», lasciando aperto il quesito sul «rapporto tra questo partito e le masse cattoliche»18. L’interrogativo era ripreso da vari dirigenti, fra i quali Nilde Jotti, che parlava di una tendenza a «mutare la linea strategica del blocco storico»19. Nella linea del “partito unico”, cioè, si percepiva una messa in discussione delle modalità di adattamento del Pci alla società italiana e alla guerra fredda, nonché, potenzialmente, della sua proposta originale all’interno del movimento comunista. L’elemento di pluralismo insito nella strategia fondata sulla valorizzazione della complessità dell’espressione politica delle «forze popolari» del paese rappresentava un atout al quale sembrava inopportuno rinunciare; tanto più che le ragioni interne e internazionali che avevano determinato il carattere peculiare dell’insediamento del Pci non parevano, nel 1964, in discussione nei loro fondamenti.

Il percorso della segreteria sarebbe stato un altro, quello del tentativo di valorizzare nel contesto europeo le peculiarità del Pci. Il discorso sull’unità della sinistra, al di là della sua proiezione organizzativa, restava tuttavia in piedi, se non altro come elemento di contrasto al processo di unificazione socialista, temuto come manovra finalizzata alla marginalizzazione del Pci. Per questa via si valorizzavano – non senza elementi di tatticismo – alcune delle tendenze delle socialdemocrazie europee, opposte polemicamente a quelle del socialismo italiano. Così, si rivedeva parzialmente il giudizio negativo sulla Sfio, prima per l’episodio della candidatura unica della sinistra alle elezioni presidenziali del 1965, poi per l’avvio, pur faticoso, di un dialogo col Pcf che si

17 FIG, APC, Direzione, 3 dicembre 1964, mf. 28, p. 967. 18 Ibid., p. 976.

sarebbe protratto per alcuni anni20. Allo stesso modo, nella critica ai socialdemocratici italiani si recuperava un giudizio differenziato sulle altre esperienze europee:

Se andate in Svezia non potete quasi fare a meno di pranzare in un ristorante o di alloggiare in un albergo che non sia di una cooperativa diretta da socialdemocratici: se andate in Danimarca o in Svizzera non potete evitare di comperare in un grande magazzino cooperativo. Domandatevi e domandate a un italiano se, non avendo mai ricevuto notizie sulla socialdemocrazia […], se la sia mai trovata di fronte in una impresa economica. E domandatevi se, anche solo in una città, in una provincia del nostro paese di quelle di più antica tradizione riformista, ci sia un sindacato diretto da socialdemocratici che non diciamo rassomigli alle trade unions, ma possa essere considerato davvero un’organizzazione di classe, democratica, di massa21.

«Unificazione socialdemocratica» era l’espressione usata nella propaganda del Pci per definire l’avvicinamento fra Psi e Psdi in Italia (il processo sarebbe infine giunto a compimento nell’ottobre del 1966, con la fondazione del nuovo Psu22 ). Al programma, duramente criticato, venivano attribuiti un orientamento anticomunista, la tendenza a separare il socialismo italiano dalle proprie basi popolari, l’adesione ad un progetto di governo che rinunciava alla trasformazione della società23. «Socialdemocratica», tuttavia, l’unificazione era in una deteriore accezione “italiana” del termine: nella visione del Pci, essa da una parte non prevedeva la capacità di rappresentanza di istanze operaie riconosciuta a partiti come il Labour o i socialisti scandinavi; dall’altra riproponeva

20 Sul percorso della Sfio, il dialogo col Pcf e l’episodio della candidatura di François Mitterrand

alle presidenziali del 1965, cfr. A. Bergonioux, G. Grunberg, Les socialistes français et le pouvoir. L’ambition et les remords, Fayard, Paris 2005, pp. 184-190 e 229-238. Come esempio delle posizioni del Pci si considerino le osservazioni di M.A. Macciocchi, La grande vittoria della sinistra in Francia, in «l’Unità», 7 dicembre 1965: «Se una morale va tratta dalle elezioni francesi per ciò che concerne l’Italia, essa riguarda un’ala del Partito socialista e in prima persona Nenni, che risulta sconfitto in tutte quelle “tesi” avanzate nell’ultimo congresso socialista, e volte a gettare tra i ferri vecchi l’unità d’azione delle sinistre intesa fra socialisti e comunisti come un’operazione passata di moda, e non più redditizia».

21 G.C. Pajetta, Socialdemocrazia oggi, in «Rinascita», 8 gennaio 1966. 22 Cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del Psi, vol. III, cit., pp. 367-381. 23 Cfr. A. Höbel, Il Pci di Luigi Longo, cit., pp. 262-269 e passim.

schemi anticomunisti che i partiti dell’Internazionale socialista si sosteneva andassero superando24.

Nella misura in cui la critica al centro-sinistra e agli orientamenti dei partiti socialisti portava il Pci ad una nuova e più completa identificazione con lo spazio politico della sinistra, le ragioni del confronto con altre realtà europee ne uscivano rafforzate. Il termine «sinistra europea», come definizione comprensiva dell’insieme dei partiti comunisti e socialdemocratici dell’area occidentale, infrequente nel lessico comunista, compariva ad esempio in questo periodo in un documento che l’Istituto Gramsci inviava alla Direzione del partito in vista dell’organizzazione di un convegno sulle «Tendenze del capitalismo europeo», tenutosi a Roma nel giugno del 196525. Se è opportuno chiarire come l’analisi escludesse in ogni caso il superamento delle linee di confine tradizionali26, e come sulla stampa comunista continuassero ad abbondare i giudizi negativi sul socialismo occidentale27, nondimeno era riscontrabile una crescita dell’interesse all’avvio di un dialogo, pur nella considerazione delle differenze fra i due movimenti.