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Socialdemocrazie e comunism

L’ambigua lotta alla “logica dei blocchi”

2. Socialdemocrazie e comunism

La seconda metà degli anni Sessanta ha rappresentato per i partiti socialdemocratici europei un’importante fase di transizione. Nell’autunno del 1964, i laburisti guidati da Harold Wilson tornavano al governo in Gran Bretagna, interrompendo un predominio Tory che durava dal 1951. In Germania, la Spd, all’opposizione nel nuovo Stato democratico dalla fine della guerra, si associava nel 1966 alla Cdu nel gabinetto di Große Koalition: tre anni dopo, sarebbe stato il leader del partito, Willy Brandt, ad assumere la guida di un nuovo esecutivo, stavolta in coalizione con i liberali. L’esperienza del centro- sinistra italiano indicava in ogni caso l’immissione dei socialisti nel mainstream della politica nazionale, mentre Stati più piccoli come l’Austria o i tre del Benelux sperimentavano aggiustamenti e crisi delle relazioni fra socialisti e cristiano-democratici attorno alle quali si orientavano i loro sistemi politici. Nell’area scandinava, la tenuta del bastione svedese faceva da contraltare alle interruzioni dell’egemonia socialdemocratica in Norvegia (fra il 1965 e il 1971) e Danimarca (1968-1971); una situazione particolare era quella della Finlandia, dove si stabiliva nel 1966 un governo a guida socialista sostenuto anche dai rappresentanti comunisti. Quanto alla Sfio, la sua crisi di adattamento al sistema gollista era destinata ad essere sbloccata solo nel decennio successivo, con la fondazione del nuovo Parti socialiste guidato da François Mitterrand.

La definizione proposta da Tony Judt di un «momento socialdemocratico», caratterizzato dall’«apogeo» del «moderno Welfare-State europeo», probabilmente non è valida allo stesso modo per l’intera sezione occidentale del continente, ma riassume efficacemente un aspetto della straordinaria trasformazione economico-sociale conosciuta dall’Europa dal dopoguerra in poi34. Lo sviluppo economico realizzato nell’ambito della collaborazione euro-atlantica aveva stabilizzato la posizione politica ed economica delle classi lavoratrici nelle comunità nazionali, dando risposta ad almeno una parte delle istanze sociali del periodo postbellico. L’estensione delle competenze dello Stato ne era testimone: all’interno di una concezione ampia dei diritti di cittadinanza, il riformismo

34 T. Judt, Postwar, cit., pp. 360-389. Lo stesso Judt osserva (p. 376): «In general, with the

exception of Britain and Scandinavia, the liberated ‘Sixties’ did not actually arrive in Europe until the Seventies».

socialdemocratico poteva trovare un terreno d’azione privilegiato. Il consolidamento delle democrazie europee non restava, evidentemente, senza conseguenze sull’approccio socialista alla guerra fredda, in anni caratterizzati da una complessiva «evoluzione delle mentalità in Occidente»35. Senza mettere in discussione il legame atlantico, rafforzato nel periodo del revisionismo, si poteva ora guardare al confronto Est-Ovest con maggiore serenità, tanto più che, dopo la grande paura della crisi dei missili di Cuba (ottobre 1962), le due superpotenze mostravano una nuova attitudine a «regolamentare la rivalità»36 – una politica che, fino alla sua tragica scomparsa, aveva avuto nel presidente americano John Kennedy un autorevole assertore (se non sempre un esecutore solerte). Il clima di distensione fra le grandi potenze, suggellato dalla firma del primo accordo in materia di armamento nucleare – il Limited test ban treaty del 1963 – non poteva che essere salutato positivamente da un movimento che aveva nell’opposizione alle manifestazioni più acute della “politica dei blocchi” uno dei pochi punti saldi e condivisi della propria visione politica internazionale37. Su queste basi, negli anni successivi, si sarebbero innestate politiche europeo-occidentali ispirate dalla critica degli “eccessi del bipolarismo” – dalla détente gollista alla Ostpolitik tedesca –, che sembravano fare il pari con lo sviluppo di tendenze autonomistiche nel blocco orientale – il caso più eclatante era quello della Romania di Ceauşescu38. L’accresciuta “maturità” europea era accompagnata da un nuovo indirizzo critico verso la politica estera statunitense di settori consistenti delle opinioni pubbliche occidentali, che trascendeva spesso i convincimenti di partiti e governi: a catalizzare questi sentimenti era in primo luogo l’escalation militare nel Vietnam, paradigma di quelle che sono state definite, con riferimento alle caratteristiche dell’egemonia americana, «illiberal consequences of liberal empire»39.

35 G-H. Soutou, La guerre de cinquante ans. Le conflit Est-Ouest, 1943-1990, Fayard, Paris 2001,

pp. 444-446.

36 F. Romero, Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino 2009,

pp. 164-173.

37 Cfr. Sassoon, One Hundred Years of Socialism, cit., pp. 325-327.

38 Cfr. ad esempio D. Deletant, ‘Taunting the Bear’: Romania and the Warsaw Pact, 1963-1989,

in «Cold War History» 4/2007, pp. 495-501.

39 J. Suri, Power and Protest. Global Revolution and the Rise of Détente, Harvard University

Press, Cambridge (MA) 2003, p. 131. Per il quadro interpretativo cfr. J. Hanimäki, Détente in Europe, 1962–1975, in M.P. Leffler, O.A. Westad, The Cambridge History of the Cold War, vol. II, cit., pp. 198-218.

La definizione, in questo contesto, dell’atteggiamento verso il campo orientale, proponeva ai socialdemocratici europei una criticità di fondo. Se, da una parte, il sostegno alla distensione implicava un ammorbidimento dei toni verso il sistema sovietico, la distinzione dal comunismo rimaneva un fondamento del profilo ideologico socialista: la sua definizione si alimentava di demarcazioni nette, difficili da conciliare con la dose di realismo politico necessaria per separare il blocco orientale, quale realtà internazionale, dal sistema di potere che lo reggeva. Nel complesso, prevaleva comunque la tendenza alla ricerca di un nuovo dialogo, al quale si dava l’interpretazione, variamente modulata, di strumento per favorire la riforma del sistema40. Allo stesso modo, il giudizio sul comunismo restava severo nei suoi elementi fondamentali, ma veniva aggiornato alla luce di alcuni mutamenti che sembravano chiamare in causa aspetti non secondari del modello sovietico.

L’Internazionale socialista rimaneva, da questo punto di vista, un forum piuttosto conservatore. Attorno all’opposizione al comunismo, come si è visto, l’organizzazione aveva visto la luce, e al suo interno aveva influenza il gruppo dei socialisti dell’Europa orientale in esilio, poco incline alle concessioni ideali al sistema sovietico41. Ciononostante, in corrispondenza con la crescita dell’autorità sull’IS dei socialdemocratici tedeschi42 – per i quali il confronto con il mondo comunista rappresentava una questione nazionale di primaria importanza –, anche al suo interno si sviluppavano ricerca e dibattito. Un intervento di Richard Löwenthal, politologo attivo nella Spd e attento osservatore delle vicende comuniste43, pubblicato nell’estate del 1964 sul bollettino dell’Internazionale, offre un’interessante introduzione ai termini della discussione. L’autore individuava tre linee di sviluppo attorno alle quali concentrare l’attenzione per valutare se «il comunismo con il quale abbiamo a che fare oggi è lo stesso nemico contro il quale ci siamo in origine organizzati per combattere»44: la

40 A. Bergonioux, G. Grunberg, L’utopie à l’épreuve, cit., pp. 212-213. 41 Cfr. G. Devin, L’Internationale socialiste, cit., p. 194 e ss.

42 Devin propone una suddivisione della storia dell’IS negli anni della guerra fredda in tre fasi:

un’egemonia laburista dal 1945 al 1963, una fase di passaggio fino al 1966, seguita dalla definitiva affermazione della leadership tedesca. Ibid., pp. 299-300.

43 L’articolo riassumeva alcuni contenuti del suo volume World Communism: The Disintegration

of a Secular Faith, Oxford University Press, Oxford 1964.

44 R. Löwenthal, Freedom and Communism Today, in «Socialist International Information», 1

destalinizzazione (come categoria riassuntiva del cambiamento dei metodi di conservazione dell’ordine politico-economico comunista), la distensione internazionale, e quella che definiva «dissoluzione policentrica del comunismo mondiale». Con l’ultimo concetto, Löwenthal specificava di intendere «il conflitto fra l’Unione sovietica e la Cina comunista, il fatto che non ci sia più una sola dottrina leninista ortodossa e un solo centro dal quale è interpretata, e la crescente autonomia […] di cui persino i regimi al di là della Cortina di Ferro […] stanno godendo rispetto al loro un tempo onnipotente protettore, […] sullo sfondo del conflitto sino-sovietico»45.

Nella lettura di Löwenthal, i mutamenti andavano considerati come effettivi, ma non per questo era da modificare il giudizio verso i governi comunisti: ciò che si muoveva lo faceva nonostante il partito unico, che rimaneva un ostacolo fondamentale per il processo di riforma. Compito dei socialdemocratici doveva essere dunque «sfruttare la debolezza del nemico» e agire per «accelerare il processo di dissoluzione»46. Da questo punto di vista, l’articolo esaminava anche le “teorie della convergenza” che andavano diffondendosi nel nuovo clima internazionale. Sulla base di considerazioni a-ideologiche, dettate da osservazioni di ordine economico e sociale, queste sostenevano che le società comuniste e capitaliste avrebbero potuto «superare le loro differenze ed eventualmente convergere, sotto l’influsso di bisogni economici, sociali e politici simili, determinati dalla loro natura comune di società industriali»47. Nella versione polemica di Löwenthal, si trattava della teorizzazione dell’idea che

tutto quello che devono fare i comunisti è comportarsi in modo un po’ più libertario, mentre allo stesso tempo tutto quello che l’Occidente deve fare è diventare un po’ più socialista e stabilire un po’ più di giustizia sociale, e nel giro di poco ci troveremo tutti a chiederci di che cosa mai stavamo discutendo.

Al contrario, l’autore distingueva gli effetti dello sviluppo economico-sociale – del quale riconosceva la rilevanza ai fini del mutamento del sistema sovietico – dall’elemento politico, che restava una discriminante decisiva: era su questa base che riaffermava una

45 Ibid.

46 Ibid., p. 197.

47 G-H. Soutou, Teorie della convergenza nella Francia degli anni Sessanta e Settanta, in

distinzione insuperabile fra i movimenti comunista e socialista. Il primo aveva voluto implementare gli elementi utopici della visione marxista – l’idea di un ordine nel quale risolvere una volta per sempre la questione sociale – con gli strumenti del partito leninista, determinato a forzare la mano allo sviluppo storico per la costruzione della nuova società. La combinazione del fine e dei mezzi creava una dissociazione dalle effettive tendenze di sviluppo della società, destinata a sfociare in un sistema a vocazione intrinsecamente totalitaria, per i compiti che assegnava al potere politico: per questo motivo, il superamento dello stalinismo non era garanzia dell’avvio di un percorso di “convergenza” dell’Urss verso un modello “liberale”, poiché non erano stati intaccati i fondamenti ideologici che avevano reso possibili le politiche repressive. Il movimento socialista aveva invece abbandonato l’utopismo, orientandosi su di un’azione di tipo gradualistico, adeguata ai modelli democratici di governo: per quanto potesse essere difficile ed esposta ad arretramenti e sconfitte, osservava Löwenthal, la politica socialista in Occidente non doveva scontrarsi con «un’insuperabile barriera politica, con un’istituzione politica fondamentalmente ostile alla realizzazione dei nostri obiettivi»48.

Si può rilevare come le argomentazioni riprendessero la sostanza della «Carta di Francoforte», confermando la centralità della questione della democrazia politica. Non mancavano però nel movimento socialista sfumature e voci discordanti nell’interpretazione delle tendenze del comunismo internazionale. Il presidente del partito belga, Léo Collard, aveva presentato poche settimane prima un’apologia della proposta socialista, opponendo alle critiche di chi vedeva il movimento in difficoltà perché lontano dal governo nei paesi più importanti dell’Europa occidentale (il successo del Labour Party era ancora di là da venire) argomenti che richiamavano strettamente il “convergenzismo”:

Se è vero che l’Europa occidentale non è ancora socialista, è almeno altrettanto vero che non è più essenzialmente capitalista. Lo stadio intermedio è caratterizzato da una trasformazione […] delle strutture economiche, che devono adattarsi al progresso sociale, agli sviluppi tecnici, e alla competizione con l’Est. L’Europa occidentale è, di fatto, in marcia verso forme di economia collettivistica. Per quanto riguarda le contraddizioni interne del mondo comunista, è difficile

vedere come queste sarebbero una prova del declino dell’idea socialista. Al contrario, esse mostrano che, man mano che lo sviluppo economico avanza nell’Est, il benessere crescente e una progressiva “liberazione” delle menti stanno portando verso una graduale riconsiderazione dei concetti spirituali e delle strutture politiche, in una direzione che raggiungerà infine una forma di socialismo democratico49.

Agli sviluppi del mondo comunista dedicava in questo periodo due analisi un gruppo di studio dell’IS che riuniva socialisti occidentali ed esiliati dell’Europa dell’Est. La prima, sulle prospettive del comunismo post-staliniano, confermava l’immagine di un mutamento in atto all’interno degli Stati e nelle relazioni del blocco orientale, e di una resistenza opposta dalle leadership di partito50. La stessa impressione di un processo di disarticolazione del mondo comunista permeava il secondo studio, relativo al conflitto sino-sovietico, anche se qui si sosteneva – con una contraddittoria riproposizione della visione monolitica del comunismo – che i due Stati fossero divisi sui mezzi ma non sul fine, il «dominio mondiale del comunismo», che restava comune51.

Toni simili erano riscontrabili nelle reazioni all’editoriale della «Pravda» al quale si faceva riferimento in precedenza. L’austriaco Friedrich Scheu, ad esempio, respingeva le proposte di collaborazione, ricordando che «l’unità d’azione con i comunisti […] non ha mai portato fortuna o vantaggi ai partiti socialdemocratici. […] È noto il detto di Lenin secondo cui “i comunisti devono sostenere i socialdemocratici come la corda sostiene l’impiccato”». Allo stesso tempo:

Se si parla di “riavvicinamento”, non sono i socialisti ad aver cambiato le proprie posizioni, ma i comunisti. Hanno liberalizzato in parte il loro sistema in alcuni paesi. Sia il capitalismo

49 L. Collard, The International and the Development of Socialism, in «Socialist International

Information», 18 luglio 1964, p. 174.

50 Post-Stalin Communism, ivi, 1 febbraio 1964, pp. 31-32. Cfr. anche la versione più ampia del

rapporto, allegata al numero del 28 marzo, tradotta e raccolta nell’archivio del Pci: FIG, APC, Sezione Esteri, mf. 516, pp. 140-159, «Informazioni dell’Internazionale socialista. Supplemento al vol. XIV no. 7 marzo 28, 1964. Ciò che è cambiato nell’Europa orientale nell’era post- staliniana».

americano che il comunismo sovietico stanno affrontando un processo di graduale trasformazione, che ha – ci auguriamo – il socialismo democratico come risultato52.

L’idea di una tendenza verso l’evoluzione pacifica dell’Europa orientale era largamente presente all’interno del governo laburista di Wilson: su di essa convergevano settori maggioritari del partito e dello staff di civil servants del Foreign Office53. Il leader della Sfio Guy Mollet riproponeva la questione all’indomani della destituzione di Chruščёv: il processo di destalinizzazione sarebbe andato avanti o si doveva temere un ritorno dei fautori della linea dura54?

La varietà dei pareri sull’andamento del “disgelo” nel blocco sovietico e sul suo rapporto con la distensione internazionale rifletteva la complessità di uno sviluppo storico difficile da cogliere mentre era in atto55: la prognosi sul futuro – esercizio massimamente aleatorio – influenzava inevitabilmente il giudizio sul recente passato. Spicca, a maggior ragione, il valore del disegno più ampio e coerente di politica verso l’Europa comunista costruito in questo periodo in ambito socialdemocratico, anche per la capacità di proporre una soluzione positiva alle aporie del movimento: la nuova Ostpolitik elaborata dal gruppo berlinese della Spd raccolto intorno alla leadership di Willy Brandt56.

52 F. Scheu, Reply to ‘Pravda’, ivi, 20 febbraio 1965, p. 20. Cfr. anche K. Bjoerk, Swedish Reply

to ‘Pravda’, ivi, 17 aprile 1965, pp. 82-83.

53 Cfr. G. Hugues, British Policy towards Eastern Europe and the Impact of the ‘Prague Spring’,

1964-68, in «Cold War History», 2/2004, pp. 115-39.

54 G. Mollet, The Khrushchev Case, in «Socialist International Information», 21 novembre 1964,

pp. 286-88.

55 Cfr. ad esempio la proposta interpretativa di J. Suri, The Promise and Failure of 'Developed

Socialism': The Soviet 'Thaw' and the Crucible of the Prague Spring, 1964-1972, in «Contemporary European History», 2/2006.

56 La bibliografia sulla Ostpolitik è sterminata. Un’aggiornata introduzione allo stato dell’arte è in

J. F. Juneau, Egon Bahr, l’Ostpolitik, et la place de l’Allemagne dans un nouvel ordre européen,

1945-1975, Tesi di dottorato, Université de Montréal, Faculté des études supérieures et

postdoctorales, 2009, pp. 12-22. Il lavoro di Juneau, peraltro, è assai utile per la definizione del pensiero del principale consigliere di Brandt in questo ambito, appunto Egon Bahr (la tesi è consultabile online: <http://hdl.handle.net/1866/3271>. Il link, come tutti quelli che seguono, è da considerarsi attivo al 20 giugno 2012). Il lettore italiano troverà un’introduzione tuttora più che valida ai diversi aspetti della politica orientale in T. Garton Ash, In nome dell’Europa, Mondadori, Milano 1994, e un riferimento essenziale per il suo collegamento con le vicende delle due Germanie in H.A. Winkler, Grande Storia della Germania, vol. II, cit. Oltre a questi lavori, nell’esposizione che segue si utilizzeranno in particolare A. Hofmann, The Emergence of Détente in Europe. Brandt, Kennedy, and the Formation of Ostpolitik, Routledge, New York-London 2007, per l’esame delle origini della nuova politica orientale nel contesto euro-atlantico; W. Loth,

L’origine geografica della proposta era tutt’altro che casuale. La Repubblica federale tedesca, in virtù del suo «conflitto particolare con l’Est» all’interno della guerra fredda (la definizione, del 1974, è ancora di Löwenthal57), aveva un interesse al confronto con la realtà sovietica differente da quello degli altri Stati occidentali: questo era vero a maggior ragione per la Spd, che, dal dopoguerra, aveva messo la riunificazione al centro della propria proposta politica58. Berlino era la città dove la divisione dell’Europa aveva la propria rappresentazione simbolica, e dove i suoi effetti materiali erano immediatamente tangibili. La costruzione del Muro, accolta a Washington con deboli proteste, aveva mostrato i limiti della tutela americana e l’inconsistenza delle speranze di soluzione della questione tedesca attraverso la forza. La divisione del paese si era confermata una realtà con la quale si sarebbero dovuti fare i conti a lungo, visto l’accordo sostanziale delle superpotenze per il suo mantenimento. La dottrina ufficiale di Bonn continuava ad avanzare una pretesa di rappresentanza esclusiva di tutti i tedeschi (in virtù della natura democratica dello Stato occidentale, opposta ad una Germania Est che veniva definita semplicemente “Zona di occupazione sovietica”), e a rifiutare ogni contatto diplomatico con i paesi dell’Est europeo (con l’eccezione dell’Urss). La riflessione di Brandt, borgomastro di Berlino Ovest, si incentrava invece sull’inserimento della questione tedesca nel quadro europeo, come subordinata della distensione internazionale: solo superando la contrapposizione in Europa era possibile immaginare la riunificazione. «Esiste una soluzione della questione tedesca soltanto con l’Unione Sovietica, non contro di essa», era l’argomentazione:

Non possiamo rinunciare ai nostri diritti, ma dobbiamo avere la consapevolezza che, per realizzarli, è necessario un nuovo rapporto fra l’Est e l’Ovest e perciò anche un nuovo rapporto fra la Germania e l’Unione Sovietica. Per questo ci vuole tempo, ma possiamo dire che questo ci G.H. Soutou (a cura di), The Making of Détente. Eastern and Western Europe in the Cold War, 1965-75, Routledge, New York-London 2008, per il legame con le iniziative di distensione europee e bipolari; C. Fink, B. Schaefer (a cura di), Ostpolitik, 1969-1974. European and Global

Responses, Cambridge University Press, Cambridge (UK) 2009; oltre agli studi coordinati da O. Bange e G. Niedhart nell’ambito del progetto Détente and Ostpolitik dell’Università di Mannheim (cfr. <http://ostpolitik.net>).

57 Cit. in H.A. Winkler, Grande Storia della Germania, vol. II, cit., p. 250.

58 Cfr. ad esempio J.P. Gougeon, La social-démocratie allemande, 1830-1996. De la révolution

apparirebbe meno lungo e opprimente se sapessimo che le condizioni di vita della gente nell’altra parte della Germania sono meno pesanti e che i nostri rapporti con loro sono meno difficili59.

Questo accento umanitario forniva una giustificazione sufficientemente solida all’argomento, apparentemente contro-intuitivo, della necessità del riconoscimento dello status quo europeo (unica condizione possibile per la distensione internazionale) come presupposto del suo superamento. Il gruppo di Brandt sviluppava, su questa piattaforma, un’architettura ideologica che illustrava la possibilità di favorire sul lungo periodo una trasformazione del blocco orientale, se lo si fosse sottoposto alla “sfida della coesistenza” con l’Occidente. Questa politica doveva diventare famosa con lo slogan coniato dal consigliere di Brandt Egon Bahr: Wandel durch Annäherung, ottenere una trasformazione tramite il riavvicinamento. La proposta, che aveva una delle sue origini intellettuali nelle elaborazioni dell’amministrazione Kennedy sulla “coesistenza competitiva”60, teneva insieme e valorizzava elementi differenti. Si trattava di una politica insieme “occidentale”, nella sua fiducia nella superiorità del modello euro-americano su quello sovietico, e specificamente “socialdemocratica”, per la capacità di definire un profilo autonomo della