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L’«offensiva ideologica» della socialdemocrazia

Verso un’Europa socialdemocratica?

1. L’«offensiva ideologica» della socialdemocrazia

L’ultimo scorcio degli anni Sessanta aveva presentato ai partiti dell’Internazionale socialista un bilancio incerto. Le chances di espansione della loro area d’influenza che leader e commentatori avevano intravisto nei mutamenti del contesto internazionale e nel fermento delle società europee si erano concretizzate solo in misura parziale. Le aspettative sull’evoluzione delle società dell’Est europeo erano state frustrate dall’invasione della Cecoslovacchia. All’Ovest (fatta eccezione per la Svezia) i risultati elettorali lesinavano soddisfazioni, almeno fino al successo della Spd del settembre 1969. I movimenti giovanili, che alcuni osservatori avevano salutato positivamente, preoccupavano altri che invece ne evidenziavano le tendenze radicali e il rifiuto degli strumenti di gestione delle domande sociali propri delle democrazie liberali. «Not a good year for the Mensheviks»: così il 1968, a partire da questi elementi, era descritto su «Socialist Commentary», rivista della destra «socialdemocratica» del Labour Party1.

Questo insieme di questioni era affrontato in un discorso che Leo Bauer aveva preparato per Brandt in vista del Council dell’IS di Copenaghen, dell’agosto 1968, e che l’allora ministro degli esteri non aveva potuto pronunciare, trattenuto a Bonn dall’invasione della Cecoslovacchia. L’intervento riconosceva un paradosso fondamentale nella situazione del movimento socialdemocratico. Le sue concezioni «della democrazia liberale, della dignità dell’uomo, della sua sempre più ampia sicurezza sociale» si erano diffuse, in particolar modo dal 1945 in poi, ed erano ormai accolte

1 P. Pulzer, Not a good year for the Mensheviks, in «Socialist Commentary», ottobre 1968. Per

un’analisi di quest’area del partito laburista cfr. S. Meredith, Labours Old and New. The parliamentary right of the British Labour Party 1970-79 and the roots of New Labour, Manchester University Press, Manchester (UK) 2008, pp. 25-41.

anche nei programmi di altre forze politiche europee. Lo stesso sviluppo dell’Europa orientale, prima dell’invasione, sembrava indicare che le «idee del socialismo liberale» erano riuscite a sopravvivere «al più crudele terrore stalinista». Allo stesso tempo, però, i risultati elettorali dei partiti socialisti erano negativi, soprattutto nel voto giovanile, e la loro influenza diretta non avanzava. Per elaborare una risposta a questo problema, sosteneva l’autore, si doveva tenere conto di una situazione non statica, caratterizzata dalla diminuita capacità di controllo sulle vicende politiche europee da parte delle superpotenze, ma anche, ad un diverso livello, del complesso delle autorità tradizionali: «Tutto, proprio tutto è in movimento. La rivolta dei giovani di tutto il mondo è solo l’espressione più evidente di questa rivoluzione con la quale dobbiamo convivere». Ne derivava la proposta di un impegno particolare:

Se riteniamo che l’idea della democrazia sociale ed umanistica abbia nell’epoca attuale grandi opportunità non solo in Occidente, ma anche nei paesi comunisti e soprattutto nel Terzo mondo, dobbiamo al più presto rispondere alla domanda: come dovrebbero essere definiti, qui e oggi e per il futuro, gli obiettivi del Sozialdemokratismus, per essere capaci di esercitare un richiamo su ampi settori, ma soprattutto sui giovani? […] Ho posto tutte queste domande anche per un’altra ragione: non è forse vero che nei nostri partiti siamo di fronte ad una grande mancanza di autostima2?

La risposta della Spd alla sfida individuata dal consigliere di Brandt fu efficace, almeno se si guarda alla capacità che il partito ebbe di aggregare consenso attorno al proprio programma. La campagna elettorale del 1969 ebbe nella Ostpolitik un tema essenziale, assieme a quello delle riforme interne: gli obiettivi socialdemocratici potevano dirsi ben definiti, e le urne garantirono loro l’approvazione dei tedeschi. Assumendo l’incarico di cancelliere, Brandt presentava con una formula destinata a diventare famosa la svolta che ambiva ad introdurre nella politica tedesca: «vogliamo osare più democrazia»3.

2 FES, AdsD, Nachlaß Egon Bahr, 1/EBAA000448, «Europa in Evolution- Eine Herausforderung

an den demokratischen Sozialismus» (Leo Bauer, 12 agosto 1968).

3 Cfr. il discorso, all’interno della raccolta «Deutsche Geschichte in Dokumente und Bildern» del

German Historical Institute di Washington DC: Regierungserklärung von Willy Brandt vom 28. Oktober 1969, <http://germanhistorydocs.ghi-dc.org/sub_document.cfm?document_id=901>.

Il successo elettorale del 1969 annunciava un’inversione della tendenza che aveva preoccupato i socialdemocratici di tutta Europa: a quello della Spd si aggiunsero presto governi a guida socialista in Austria (1970), Norvegia e Danimarca (1971), Olanda (1973)4. Se è vero che il quadro politico del continente continuava a presentarsi frammentato (in Gran Bretagna, ad esempio, il Labour perdeva le elezioni del 1970; in Francia il nuovo presidente Georges Pompidou garantiva la continuità del gaullismo), gli stessi conservatori e centristi, come è stato persuasivamente osservato, evitavano di proporre soluzioni radicalmente alternative a quelle socialdemocratiche. Si prenda il caso dell’Italia: senza che venisse interrotta l’egemonia politica democristiana, i primi anni Settanta vedevano l’approvazione in Parlamento di Statuto dei lavoratori, riforma pensionistica e legge sul divorzio, oltre all’attuazione dell’ordinamento regionale5. Pare possibile, in questo senso, parlare di una svolta a sinistra – se non altro di stampo culturale – come di un esito generalizzato del Sessantotto europeo, che aveva portato alla luce un insieme di nuove domande sociali con le quali la politica era chiamata a fare i conti6.

Si è già fatto riferimento al problema dei rapporti di queste domande, e dei movimenti che le veicolavano, con le tradizioni culturali delle “vecchie sinistre”. Tony Judt, ad esempio, ha insistito da un lato sulla trasformazione della «sociologia politica dell’elettorato europeo» («il blocco di voti della classe operaia bianca, maschile, dipendente […] si stava contraendo e dividendo»), dall’altro sulla comparsa di nuovi orientamenti centrati sulla rivendicazione di «diritti» individuali o su campagne single issue, piuttosto che su ottiche collettive, quali elementi che avrebbero finito per minare i tradizionali riferimenti dei partiti socialdemocratici (e comunisti) dell’Europa occidentale7.

Le tendenze individuate da Judt avrebbero indubbiamente giocato un ruolo importante in un’ottica di lungo periodo. L’esame del dibattito socialdemocratico dei primi anni

4 Si veda l’atteggiamento ora ottimista di J. Mander, Social Democracy in the Seventies, in

«Socialist Commentary», ottobre 1970.

5 Cfr. R. Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992, cit., pp. 171-72. Una visione critica di questa

stagione di riforme è in G. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 419-24.

6 Cfr. P. Chassaigne, Les années 1970. Fin d’un monde et origine de notre modernité, Armand

Colin, Paris 2008, pp. 236-55; G. Garavini, Dopo gli imperi: l’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Le Monnier, Milano 2009, pp. 149-60.

Settanta, tuttavia, suggerisce considerazioni differenti circa l’atteggiamento assunto dai partiti dell’IS nei confronti delle nuove istanze sociali. L’indirizzo dominante, infatti, pare quello della ricerca di un adattamento ai tempi nuovi della proposta politica del movimento, nella convinzione – consolidata dalle tendenze elettorali – che fosse quella la più capace di rispondere alle esigenze delle «società moderne»: le domande dei movimenti sociali, opportunamente reinterpretate, potevano accompagnare una fase di consolidamento della socialdemocrazia sulla scena politica europea.

All’indomani dell’affermazione elettorale della Spö, il bollettino dell’IS pubblicava un intervento nel quale il nuovo cancelliere austriaco Bruno Kreisky esaminava i temi sull’agenda internazionale della socialdemocrazia. Kreisky annunciava l’avvio di una nuova fase, la terza della storia socialdemocratica, dopo quelle dedicate «a rendere il proletariato cosciente del proprio ruolo sociale» e «a diventare una forza politica credibile, al lavoro per la costruzione del Welfare State».

Ora siamo di fronte ad un problema: dove andiamo dopo il Welfare State? A causa della pressione della nuova generazione, il problema si è fatto acuto. Oggi, la questione è quella della democratizzazione in tutti i campi della nostra vita sociale.

L’attenzione alla democrazia e alla sua estensione confermava la distanza fondamentale dal mondo comunista. Allo stesso tempo, era lanciata una sfida ai conservatori, che partiva dal terreno europeo.

Non voglio sminuire gli sforzi di Guy Mollet, Paul-Henri Spaak e altri socialisti. Ciò nonostante, ad oggi l’integrazione europea è ricordata per i nomi di Gasperi [sic], Schuman, Adenauer e Churchill. Questi hanno dato all’impegno per l’integrazione europea un carattere piuttosto conservatore. […]

Credo che ora sia giunto il tempo di osare fare un grande balzo in avanti (se posso prendere in prestito questa espressione). E questo deve essere intriso dei principî e delle idee della socialdemocrazia europea. In Europa ci sono due idee che attirano l’attenzione: la prima è la democratizzazione interna, l’altra l’integrazione di tutta l’Europa democratica. La vocazione della socialdemocrazia, oggi, è a dare un apporto storico alla soluzione di entrambi i problemi. Nella misura in cui la socialdemocrazia si dimostrerà capace in questi due ambiti, essa sarà in grado di

stabilizzare la propria posizione e di aiutare i partiti socialdemocratici più deboli a realizzare un nuovo inizio.

Gli ultimi riferimenti erano per l’Europa orientale. La sconfitta del 1968 non aveva cancellato la speranza in un cambiamento nelle «istituzioni della dittatura comunista», né la convinzione circa il suo possibile orientamento:

Quale dovrebbe essere l’alternativa alla dittatura comunista? A cosa dovrebbe assomigliare il socialismo dal volto umano […]? Cos’altro potrebbe essere se non socialdemocrazia? In questo modo la moderna socialdemocrazia può diventare un’alternativa per coloro che desiderano il socialismo, ma devono riconoscere che la dittatura comunista non può realizzarlo.

La via per la realizzazione di questa influenza rimaneva quella definita altrove con la formula Wandel durch Annäherung, un approccio cauto che rifuggiva ogni interventismo aggressivo. La distensione internazionale, osservava infatti Kreisky, era una condizione essenziale per lo sviluppo dell’azione socialdemocratica, che rimaneva invece bloccata nelle fasi di confrontation fra i blocchi8.

I temi affrontati da Kreisky erano quelli al centro dell’azione e del dibattito della socialdemocrazia al principio del nuovo decennio: approfondimento del Welfare State e “democratizzazione” della società, affermazione dell’influenza del movimento in Europa e sul processo di integrazione europea, azione in favore della distensione internazionale. Il clima di nuova sicurezza ideologica riconoscibile nell’articolo del cancelliere austriaco, che liquidava decisamente la «mancanza di autostima» denunciata da Bauer ancora nel 1968, doveva marcare questa fase. Le relazioni all’interno della sinistra europea, dunque, non potevano non essere condizionate da questo sforzo di affermazione della socialdemocrazia, che si candidava al ruolo di forza egemone nella politica continentale. Non rientra fra gli obiettivi di questo lavoro l’approfondimento dei contenuti dell’elaborazione socialdemocratica, o la verifica della loro coerenza con l’azione dei governi guidati da partiti dell’IS. Quello che interessa qui sono piuttosto le considerazioni

8 B. Kreisky, Social Democracy’s Third Historical Phase, in «Socialist International

circa i compiti e le realizzazioni del movimento, che influenzavano in maniera decisiva le sue relazioni con le altre forze.

Nel suo rapporto al Council di Helsinki (maggio 1971), dedicato al bilancio degli ultimi due anni d’azione dell’Internazionale socialista, il segretario generale Hans Janitschek parlava di un «ringiovanimento» dell’organizzazione. La «ricettività» mostrata da molti partiti rispetto alle «nuove idee sul ruolo della socialdemocrazia nel mondo moderno» gli pareva poter annunciare «l’avvio di un’offensiva ideologica del nostro movimento, attesa da molto tempo». Da parte sua, Janitschek riteneva che «affermare di poter gestire l’economia mista e il Welfare State in maniera più umana e più efficiente rispetto ai partigiani della libertà d’impresa» sarebbe stata per la socialdemocrazia «una strategia destinata ad un successo sempre minore negli anni Settanta».

Quello che serve è una nuova visione ideologica del ruolo, del progetto e degli obiettivi della socialdemocrazia nelle società industriali avanzate, dove i nuovi problemi dell’inquinamento, della distruzione ambientale, dell’impoverimento culturale, delle disparità sociali e regionali, delle società multinazionali […] stanno mettendo in discussione sia l’idea che il capitalismo possa distribuire la ricchezza, sia la convinzione socialdemocratica che il sistema possa essere gestito nell’interesse generale9.

Meno allarmista, il premier svedese Olof Palme osservava, alla Conferenza dei leader di partito di Salisburgo del settembre dello stesso anno:

I paesi industrializzati stanno soffrendo di una crisi d’identità – molti dei loro cittadini non credono più davvero nel loro sistema economico. Questo ha lasciato una specie di vuoto, e dà alla socialdemocrazia un’occasione per affermare la propria identità: non già iscrivendosi alla “lega anti-sviluppo”, ma utilizzando lo sviluppo per affrontare problemi come la disuguaglianza, l’insicurezza del lavoro, e lo squallore ambientale di quanti sono coinvolti nel processo industriale10.

9 IISH, SIA, b. 277, «The International 1969 to 1971. General Secretary’s report to the Helsinki

Conference of the Socialist International 25-27 May 1971».

Si formava in questi anni l’immagine di un cuore progressista della socialdemocrazia europea rappresentato dall’asse Brandt-Kreisky-Palme. I tre leader iniziavano una serie di incontri dedicati non solo alla discussione delle questioni politiche correnti, ma a temi di ampio respiro – la pace, la direzione dello sviluppo, i rapporti fra Nord e Sud del mondo11. Lo sguardo rivolto all’orizzonte dei “pensieri lunghi” accresceva il profilo internazionale degli statisti e quello del loro movimento, che superava l’immagine di forza solo pragmatica, ancorata alla contingenza, proiettando quella di una nuova visione globale socialdemocratica. Meno noto all’estero rispetto ai tre leader, l’olandese Joop den Uyl (premier dal 1973 al 1977) percorreva una strada simile, nella definizione della quale era essenziale la capacità della sua direzione di integrare le spinte radicali provenienti dalla Nieuw Links (nuova sinistra) che dopo il 1969 aveva la maggioranza nel suo partito12. Dalla stessa PvdA proveniva Sicco Mansholt, a lungo commissario europeo per l’agricoltura, e Presidente della Commissione fra 1972 e 1973. La sua azione doveva caratterizzarsi per il tentativo di fare della Comunità europea un partner commerciale privilegiato per il Terzo mondo, secondo un’ottica che metteva in questione l’idea che l’obiettivo dei paesi industrializzati dovesse essere la ricerca delle condizioni per un continuo e non regolato “sviluppo”: piuttosto, Mansholt insisteva sull’opportunità per il Nord di concentrarsi su obiettivi di avanzamento sociale, aprendo alla prospettiva di una redistribuzione globale delle risorse che favorisse i paesi del Sud del mondo13. In termini meno radicali, l’idea di un nuovo rapporto fra Nord e Sud si era fatta strada anche nel governo tedesco, dove si collegava alla nuova azione internazionale della Germania a guida socialdemocratica, e aveva un attivo promotore nel ministro per la cooperazione economica Erhard Eppler14.

In seno alle istituzioni europee, l’azione socialdemocratica si inseriva più in generale nella congiuntura aperta dal vertice dell’Aja del dicembre 1969, che aveva annunciato una nuova fase della costruzione europea all’insegna di «allargamento»,

11 Palme, Brandt and Kreisky meet in Sweden, in «Socialist International Information»,

settembre-ottobre 1970. Successivi scambi fra i tre leader sono raccolti in W. Brandt, B. Kreisky, O. Palme, Quale socialismo per l’Europa, a cura di G. Arfè, Lerici, Cosenza 1976.

12 Cfr. D. Orlow, The Paradoxes of Success. Dutch Social Democracy and its Historiography, in

«Bijdragen en mededelingen betreffende de geschiedenis der Nederlanden», 1/1995, pp. 44-46.

13 Cfr. G. Garavini, Dopo gli imperi, cit., pp. 169-80.

«completamento» e «approfondimento» del processo15. Nel primo dei tre campi, l’interesse dei partiti dell’IS si manifestava, ad esempio, nelle pressioni esercitate sul Labour Party, che, all’opposizione, aveva assunto un atteggiamento critico rispetto all’adesione britannica alla Comunità16. Si faceva strada l’idea che – per usare le parole del danese Jens-Otto Krag – «il rafforzamento dell’Europa» avrebbe condotto al «rafforzamento della socialdemocrazia», allargando il suo raggio d’azione17. Nella stessa fase, in effetti, cresceva l’impegno per lo sviluppo della politica sociale europea18, e si esplorava il tentativo di un coordinamento efficace e istituzionalizzato della politica estera comunitaria19.

In questo contesto – era corretta l’osservazione di Kreisky – la distensione internazionale giocava un ruolo decisivo. Essa costituiva allo stesso tempo una condizione e un risultato dell’affermazione socialdemocratica. Dopo il 1969, il dialogo fra le superpotenze, volto al consolidamento e alla regolamentazione del condominio globale, aveva compiuto passi decisivi. Culmine di questa fase furono i colloqui di Mosca del maggio 1972, durante i quali Leonid Brežnev e il presidente americano Richard Nixon siglarono l’accordo Salt I sulla limitazione delle armi strategiche, e il testo sui «Principî fondamentali delle relazioni fra Stati Uniti e Unione Sovietica»20. Questa attività diplomatica (influenzata in maniera determinante, per il lato statunitense, dal

15 Cfr. M.E. Guasconi, Il vertice dell’Aja del 1-2 dicembre 1969: quale via per l’Europa degli

anni ’70?, in A. Varsori (a cura di), Alle origini del presente. L’Europa occidentale nella crisi degli anni Settanta, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 151-168.

16 Si vedano il dibattito sul tema e la risoluzione sull’allargamento della Comunità europea alla

riunione del Council di Helsinki (maggio 1971), in IISH, SIA, b. 277, «Council Helsinki May 1971 (II)».

17 J-O. Krag, The Danish View, in «Socialist International Information», maggio-giugno 1971. 18 Cfr. A Varsori, Alle origini di un modello sociale europeo. La Comunità europea e la nascita

di una politica sociale (1969-1974), in «Ventunesimo Secolo», no. 9, 2006, pp. 17-47.

19 Cfr. D. Möckli, European Foreign Policy during the Cold War. Heath, Brandt, Pompidou and

the Short Dream of Political Unity, I.B. Tauris, London-New York 2009.

20 La bibliografia è ovviamente assai ampia. Oltre ai lavori già citati, ci si limiti al classico R.

Garthoff, Détente and Confrontation. American-Soviet Relations from Nixon to Reagan, The Brooking Institution, Washington DC, 1994, oltre alle opere di inquadramento generale di W. Loth, Overcoming the Cold War. A History of Détente, 1950-1991, Palgrave, New York 2002, pp. 122-27, e G. Caredda, Le politiche della distensione. 1959-1972, Carocci, Roma 2008, pp. 245- 291. Per la connessione con il contesto europeo, cfr. il numero speciale del «German Historical Institute (Washington DC) Bulletin» 1/2004, American Détente and German Ostpolitik, 1969- 1972.

consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger21) certo non chiudeva la rivalità bipolare, che continuava sia nel campo delle grand strategies, con la storica apertura americana alla Cina, che nella competizione per il Terzo mondo o nell’avanzamento delle tecnologie militari. Essa contribuiva però a diffondere una sensazione di relativa stabilità, che rendeva meno incombente l’ombra della guerra fredda (lo stesso termine veniva utilizzato sempre meno per definire i caratteri dell’ordinamento internazionale)22.

All’azione delle superpotenze si affiancava, con priorità di tipo differente, quella europea del governo guidato da Brandt. Nei primi anni Settanta la Ostpolitik si concretizzava nella firma della serie dei «Trattati orientali», con i quali la Rft regolamentava le proprie relazioni con Urss, Polonia e Cecoslovacchia, oltre che con lo Stato tedesco dell’Est23. La controversia attorno a queste realizzazioni fu viva all’epoca, e continua ancora oggi a combattersi sul terreno storiografico: a prevalere fu l’aspetto della legittimazione fornita alle dittature comuniste, oppure il consolidamento di un ordine di pace europeo e l’introduzione di un principio di movimento decisivo per il superamento delle sue anomalie, la divisione del continente e il regime illiberale che lo reggeva ad Est24?

Agli occhi dell’opinione pubblica progressista coeva, gli elementi positivi superavano indubbiamente di gran lunga quelli negativi. Innanzitutto, l’Ostpolitik non riguardava solo la guerra fredda, ma anche, e in misura essenziale, l’ultima guerra mondiale25. Da questo punto di vista, l’azione di Brandt assumeva una dimensione storica che non poteva che favorirne la popolarità al di fuori dalla Germania: si pensi al celeberrimo inginocchiamento del cancelliere di fronte al monumento ai caduti dell’insurrezione del

21 Fra le opere recenti, si vedano J. Hanimäki, The Flawed Architect. Henry Kissinger and

American Foreign Policy, Oxford University Press, Oxford-New York 2004; M. Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana, Laterza, Roma-Bari 2006.

22 Cfr. F. Romero, Storia della guerra fredda, cit., pp. 208-38

23 Sulla Ostpolitik nella fase dei trattati cfr. ad esempio T. Garton Ash, In nome dell’Europa, cit.,

cap. III.

24 Si vedano ad esempio il bilancio di M.E. Sarotte, Dealing with the Devil. East Germany,

Détente and Ostpolitik, 1969-1973, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 2001, pp. 163-179, o il numero speciale di «Cold War History» 4/2008, Détente and its legacy.

25 G. Niedhart, O. Bange, Die »Relikte der Nachkriegszeit« beseitigen. Ostpolitik in der zweiten

außenpolitischen Formationsphase der Bundesrepublik Deutschland im Übergang vom den