All’uscita dalla Grande Guerra, il Piemonte aveva ormai acquisi to i caratteri che siamo abituati a considerare portanti per la sua struttura economica. Essi sono ravvisabili nel predominio della forma organizzativa della grande impresa nel settore industriale, nel raffor zamento di alcuni poli manifatturieri concentrati, destinati a spiccare entro il tessuto regionale, nel rapporto squilibrato intercorrente fra il capoluogo, Torino, e il retroterra di una regione ancora a forte base rurale1.
Di primo acchito, dunque, verrebbe da osservare che la guerra aveva ancor più avvicinato l’economia del Piemonte a quella del cuo re d’Europa, accrescendo la sua omogeneità rispetto alle aree più svi luppate del continente, quelle appunto che avevano accentuato, in seguito all’impulso produttivo provocato dalla dinamica bellica, la lo ro identità industriale. Da questo punto di vista, la società piemonte se del dopoguerra, con la sua prevalente caratterizzazione urbano- industriale, appartiene senza ombra di dubbio alle aree forti dell’Eu ropa, condividendo con esse anche i problemi sociali determinati, prima, da una mobilitazione intensiva — che non a caso fu detta «to tale» — e poi da una smobilitazione quasi altrettanto subitanea, che si accompagnò a una grande ondata di tensioni e di rivolgimenti poli tici.
1. Per un profilo economico-sociale della regione, colta fra guerra e dopoguerra, cfr. V. Castronovo, Il Piemonte, Torino, Einaudi, 1977, pp. 290 sgg.
Per molti osservatori e protagonisti del tempo, la trasformazione che il periodo bellico aveva operato sulla compagine regionale posse deva un indubbio segno positivo. Questa posizione accomunava, nel la sostanza, tutti coloro che erano indotti a valorizzare il peso e l’im portanza dei fattori del progresso materiale — quello che si misurava, per intendersi, sugli indicatori quantitativi della produzione e del l’occupazione industriali — come elementi di una modernizzazione tale da rendere di per sé obsoleti i limiti dell’Italia prebellica e da le gittimare invece volontà e aspirazioni politiche ben più ambiziose di quelle cui si era concesso credito durante il periodo giolittiano.
Quanti avevano beneficiato dei frutti dell’economia di guerra, fa cendo compiere alle loro attività industriali un balzo di dimensioni altrimenti inimmaginabili, non erano perciò i soli a valutare positiva- mente gli effetti della mobilitazione. Accanto a loro, per un parados so che è in realtà soltanto apparente, stava la più agguerrita minorità
agissante emersa dagli anni del dopoguerra, la frazione comunista dell’«Ordine Nuovo», affascinata, al pari delle frange radicali pronte a valorizzare le «energie nuove» nate dagli sconvolgimenti del con flitto, dalla potenza titanica delle concentrazioni produttive che ave vano alterato la fisionomia dell’industria. Ma stavano anche i più ri soluti intellettuali nazionalisti — come per esempio un Alfredo Roc co — , che scorgevano nell’assetto economico appena conquistato dal le grandi città italiane una risorsa fondamentale per un’aggressiva po litica di espansione finalmente consentita dalla nuova epoca2.
Certo, la vocazione europea che costoro erano propensi ad attri buire al Piemonte, sulla scorta della sua recente crescita economico- produttiva, era di natura affatto particolare. Per gli uni, il Piemonte era divenuto più europeo perché maggiormente omogeneo, grazie alla base di massa dei suoi movimenti sociali, alle forme della protesta collettiva di timbro radicale che coinvolgevano in quei giorni tutti i grandi centri industriali di più salda tradizione. Per gli altri, la pro spettiva europea che si dischiudeva era legata allo scenario esclusivo di un’aperta e totale competizione fra le nazioni, una sorta di gara economica che costituiva la prosecuzione con altri mezzi della guerra appena conclusa.
Entrambe queste ottiche — inclini, ognuna per proprio conto, a enfatizzare la crescita industriale verificatasi col regime di guerra al
2. Ho accennato a questi temi nel mio saggio La cooperazione impossibile: la Fiat, Tori no e il “ biennio rosso” , in: Fiat 1899-1930. Storia e documenti, Milano, Fabbri, 1991, pp. 205-247, al quale mi permetto di rinviare.
punto di sovraccaricarne talvolta gli stessi dati di modernità — non postulavano minimamente una logica di integrazione dell’Italia nel si stema europeo per quanto atteneva invece all’equilibrio tra economia e istituzioni liberali che un tempo il Piemonte era sembrato realizza re. In altre parole, coloro che sottolineavano l’accelerazione causata dalla guerra nello sviluppo economico regionale non lo facevano nella convinzione che ciò avrebbe indotto la nostra società ad essere più simile, sul versante della vita civile complessiva, a quelle che occupa vano una posizione più ragguardevole in Europa.
Quest’ultimo era stato semmai il modo di sentire, prima però che la guerra intervenisse a modificare tutto, degli intellettuali che aveva no conformato il loro criterio di giudizio su un liberalismo di stampo anglosassone, riallacciandosi idealmente, per questa via, all’età di Ca vour, l’unica a loro avviso, come vedremo, in cui si fosse perseguita una finalità di crescita regionale e nazionale attraverso una intenzio nale integrazione nel concerto europeo.
Parlando del gruppo di intellettuali anglofili contraddistinti da un credo che era insieme liberale e liberista, ci si deve riferire, com’è evidente, alla cerchia raccoltasi attorno alla «Riforma sociale» e a Luigi Einaudi. Erano costoro a formulare un’opinione che suonava dissonante sul sistema economico-sociale del Piemonte post-bellico. Là dove altri vedevano le prove di una maturità finalmente consegui ta, essi tendevano piuttosto a sottolineare i tratti di uno sviluppo cer to impetuoso, ma perverso, che minacciava di stravolgere le condizio ni di una progressione economica ordinata e soprattutto metteva a rischio l’intero equilibrio sociale fino allora peculiare nell’evoluzione della regione dal periodo risorgimentale alla guerra.
Quest’analisi verrà esposta pochi anni dopo la fine del conflitto, quando ancora non si sono attenuati gli echi di un duro scontro socia le, da Giuseppe Prato, nello studio del 1925 su II Piemonte e gli effetti
della guerra sulla sua vita economica e sociale. Scriverà Prato che il «cataclisma sovvertitore» della guerra si è risolto in un «brusco rivol gimento economico», responsabile di una «vasta e repentina inver sione di valori materiali e spirituali». Ciò si riflette in «una crisi psi cologica» tuttora priva di un «punto di stabilizzazione», al pari del «contrasto spasmodico» che ha lacerato «interessi vecchi e nuovi». Di qui un «senso di disorientamento», che il tempo trascorso dalla fine delle ostilità non è riuscito a dissolvere3.
3. G. Prato, Il Piemonte e gli effetti della guerra sulla sua vita economica e sociale, Ba ri e New Haven, Laterza e Yale University Press, 1925, p. 5.
Le parole di Prato non sono tali da lasciare adito a incertezze sul significato da attribuire alla guerra nel processo evolutivo di una re gione che all’esigua pattuglia degli intellettuali liberisti era sempre sembrata custodire i valori di civiltà e di ordine pacifico emersi dal risorgimento. Del resto, questi giudizi riprendono, anche testualmen te, tesi che erano state espresse a caldo, ma con inequivocabile fer mezza, nel biennio 1919-1920, da Einaudi nei commenti per il «Cor riere della sera». L ’economia di guerra aveva presentato, agli occhi di quest’ultimo, due colpe irreparabili: la prima consisteva nell’intro duzione di un sistema di bardature e di controlli che aveva finito col moltiplicare i guasti più antichi del protezionismo; la seconda nell’in flazione, una malattia endemica dell’organismo economico che aveva propagato la febbre a tutto il corpo sociale, corrompendone le funzio ni e i comportamenti. Prato, con il suo studio del Piemonte, non ave va fatto altro che conferire una conferma empirica alle tesi einaudia- ne, che tuttavia ne rimarcava il valore proiettandole in un arco stori co lungo e inserendo il fenomeno dell’economia bellica all’interno di una riflessione sui caratteri originali del Piemonte contemporaneo. Che il consenso fra i due studiosi fosse totale è testimoniato oltre tut to dal fatto che il libro di Prato compariva nella serie di ricerche sugli effetti della guerra curata da Einaudi con l’appoggio della Carnegie Foundation, quella stessa collana che avrebbe ospitato nel 1933 la sua monografia dedicata all’Italia e che invece non accolse l’Italia in
cammino di Volpe, ove la guerra era descritta, sì, come un evento ri voluzionario e cataclismatico, ma di segno positivo.
Ma perché una storia economica ristretta al Piemonte? Perché un fenomeno universale come la guerra può essere studiato entro i confi ni di un sistema regionale? La scelta di Prato — che appare, per molti lati, di una sorprendente attualità, in linea con gli approcci recenti della storiografia economica — dipende da due ragioni concomitanti, cui si è già fatto cenno in precedenza. Anzitutto, per 1 ’intelligencija liberistica il Piemonte non è uno spazio economico come gli altri: è un modello che ha conosciuto un effettivo bilanciamento fra politica ed economia. Il Piemonte cavouriano è dunque un archetipo cultura le, realtà materiale e luogo ideale al tempo stesso, né più né meno della Lombardia di Cattaneo: un osservatorio privilegiato dal quale valutare le chances migliori della società italiana. In secondo luogo, proprio in virtù della sua storia passata, dei valori cui ha dato forma, dell’esistenza di un carattere regionale, il Piemonte diventa un banco di prova per misurare la portata della trasformazione — ma meglio sarebbe dire: della corruzione — indotta dalla guerra.
Non c’è capitolo del libro di Prato in cui, a lato degli indici dei progressi quantitativi, il lettore non trovi delle considerazioni preoc cupate sui fenomeni degenerativi cui l’espansione economica ha dato luogo. Così, si insiste sul «carattere patologico dell’ipertrofia indu striale» quando si riportano le cifre relative alla crescita del settore manifatturiero. Nell’espansione dei consumi si rintracciano i segni dell’immoralità dilagante fra il proletariato, poi culminati nei «satur nali» del biennio rosso. Dietro lo schermo dello sviluppo demografico di Torino, che ha superato nel 1916 la soglia dei cinquecentomila abi tanti, si mostra un’avanzata modificazione degli stili di vita, che ha la propria manifestazione più sintomatica nella forbice crescente fra il numero dei matrimoni (in aumento) e quello delle nascite (in calo). Perfino l’estensione della proprietà coltivatrice, l’elemento forse più gradito ai liberisti che identificano nella piccola proprietà il motore di un continuo impulso al miglioramento quantitativo e qualitativo della produzione agricola, appare controbilanciata dal moltiplicarsi della conflittualità entro il mondo rurale piemontese, ciò che ne de forma la tradizionale cornice sociale.
Il Piemonte post-bellico si rivela, nelle pagine di Prato, come un gigante che poggia su fondamenta d’argilla, una creatura sviluppatasi troppo in fretta sotto l’impulso di tempi e di circostanze eccezionali che ne hanno logorato le risorse sociali e la fibra morale. La regione rischia così, a causa di un’accelerazione bruciante del proprio ritmo di marcia, di smarrire un’identità che era sembrata consolidarsi per decenni.
Un’implicita comparazione sorregge tutta quanta l’argomentazio ne di Prato. Una comparazione che va a vantaggio del passato del Piemonte, a cui peraltro egli aveva rivolto fino allora la gran parte del suo impegno di studioso. Se il dopoguerra era il modello negativo, quello positivo era costituito dall’età risorgimentale, appunto, e dal decennio cavouriano in particolare.
Per Prato, e ancor più per Einaudi, l’azione politica di Cavour aveva configurato i capisaldi essenziali di un programma liberale che manteneva intatta la propria attualità. I meriti storici di Cavour con sistevano nell’aver egli mobilizzato le risorse della società regionale, integrandole progressivamente in un circuito attivo, sia locale che in ternazionale, e nell’aver così fatto in modo che si liberasse gradual mente lo spirito d’intrapresa. Il Cavour che restava nella memoria dei liberisti italiani era il leader of an advancing age celebrato da Wal ter Bagehot sull’«Economist», lo statista che aveva saputo fare l’inte
resse nazionale del Piemonte e dell’Italia perseguendo una politica di integrazione europea4.
Sotto il profilo economico, i meriti di Cavour erano altrettanto grandi delle sue qualità politiche. I due aspetti erano anzi indissolubi li: la strategia di sviluppo di Cavour, che aveva riverberato una luce così favorevole sul modello di crescita del Piemonte, era consistita nel disseminare, attraverso la creazione di una rete efficiente di infra strutture finanziata dai capitali esteri, stimoli all’imprenditorialità che avevano coinvolto una quantità sempre maggiore di soggetti e di gruppi sociali. Come annota Prato, «fra il 1850 e il 1860» incominciò a essere vinto il « misoneismo diffidente » delle classi abbienti ed esse cedettero a «un più attivo spirito d’intrapresa, che moltiplic[ò] le so cietà anonime e impresse] un movimento progressivo più rapido al l’industria», costretta dalla politica economica liberistica «nella salu tare alternativa di rinnovarsi o di perire»5.
Il senso di queste considerazioni era chiaro: la strategia cavouria- na aveva avuto successo perché l’intervento pubblico aveva fatto da cornice senza sostituirsi all’azione dei privati. Questi ultimi avevano dovuto confrontarsi col mercato interno e internazionale, imparando a fare conto sulle proprie forze. Così, l’aumento delle attività e delle dimensioni d ’impresa sfera potuto combinare con una diffusione del la capacità d’intraprendere nella società. Per questa via, aveva avuto incremento la percentuale dei piemontesi che, sotto il pungolo del li berismo economico, avevano passo dopo passo appreso i vantaggi del liberalismo tout court. L ’albero dell’economia si era quindi sviluppato sulle radici di una società via via conquistata alle ragioni del libero scambio e del liberalismo politico.
Ora, presentando in termini siffatti i motivi profondi dell’affer mazione del Piemonte e dei riconoscimenti che esso si era in breve assicurato presso le grandi capitali europee, Prato gettava automati camente una luce critica sul periodo di sviluppo a lui più vicino. La diversità fra le due epoche era così radicale da far risultare gli anni di guerra come una fase complessivamente infausta per il Piemonte.
Al regime della libertà economica, la guerra aveva sostituito un intervento pubblico generalizzato e pervasivo che aveva intaccato tutte le corrette procedure dell’attività industriale e commerciale.
4. W. Bagehot, The death o f Count Cavour [1861], in: Id, Collected works, a cura di N. S. John Stevas, vol. IV, London, The Economist, 1968, p. 455.
Certo, il sistema manifatturiero si era enormemente dilatato, come bastavano a dimostrare i soli dati relativi alle imprese industriali più grandi (ricordiamo che la Fiat del 1918 contava più di quarantamila dipendenti, contro i quattromila dell’anteguerra): ma a che prezzo? L ’espansione dell’industria era stata travolgente come i suoi profitti, ma trascinati questi e quella dalle commesse pubbliche e militari, che avevano cancellato ogni trasparenza e messo in mora i corretti criteri di conduzione amministrativa (ancora alla Fiat, già nel 1916 si era deciso di sospendere l’applicazione dei normali principi contabili, travolti da una dinamica della domanda che non rispettava le logiche di determinazione dei costi e dei prezzi vigenti in tempo di pace). In breve, questa situazione aveva creato un ambito molto propizio alle manovre di speculatori e pescecani: le loro fortune erano la negazione di tutti i valori comportamentali sui quali si era costruita la robustez za economica del passato.
I danni che la guerra e le sue conseguenze avevano inferto alla so cietà del Piemonte non erano valutabili su un esclusivo metro di eco nomicità. La loro gravità appariva per intero allorché si prendevano in esame le basi sociali del processo economico: queste ultime, stando al giudizio del liberismo, si erano ristrette, mentre si era soltanto am pliata la dimensione di attività economiche che avevano arricchito un’oligarchia ridotta, o che avevano alimentato l’ingrossamento delle file operaie, rese geneticamente estranee ai valori comportamentali del liberalismo, si potrebbe dire, dal corporativismo istituzionale at tuato mediante gli organi della mobilitazione industriale.
La guerra era stata perciò l’artefice di un’immane piramide rove sciata, con pochi capitani di ventura del capitalismo a un estremo e una massa anonima e inquieta di operai all’altro. Chi ne pagava i co sti era l’universo composito dei ceti di mezzo, condannati al declino.
II mondo imprenditoriale cui erano culturalmente e quasi affetti vamente devoti i liberisti era quello del circuito della seta, quel conti
nuum di figure che andavano dai bachicultori agli industriali di medie
dimensioni, passando dagli intermediari commerciali e dai piccoli banchieri d’affari. Proprio quel mondo di cui la guerra aveva decreta to l’obsolescenza. Non solo: contestualmente con esso veniva meno anche quel ceto medio delle professioni e dell’amministrazione pub blica che guerra e dopoguerra avevano rapidamente falcidiato, in questo caso per effetto dell’inflazione e non più della fuorviante azio ne dello stato.
Statalismo bellico e deprezzamento della moneta avevano congiu rato per affossare l’intera compagine sociale del Piemonte risorgi
mentale e unitario, creando un apparato economieo-monstre che era la smentita pratica dell’ordinamento liberale e del suo ethos. La sosti tuzione del mercato a opera della regolamentazione pubblica, un meccanismo di sviluppo drogato che aveva pilotato l’espansione del l’industria, un gioco di contrattazione degli interessi che avvantag giava sistematicamente i più forti, erano fra i fattori principali che avevano concorso a esautorare la limpida dialettica delle funzioni in trodotta dalla politica cavouriana. Se di questo genere erano la visio ne e il tipo ideale della società di mercato che possedevano gli intel lettuali liberisti, si comprende allora perché la condanna del Piemon te dei loro tempi suonasse quasi senza appello e la denuncia di Prato assumesse i toni di una deprecatio temporum.
Quanto era successo in Italia e a Torino dopo il 1915 non poteva non rappresentare, in tale prospettiva, un allontanamento dall’Euro pa. Naturalmente, il distacco dai valori liberali che Prato lamentava per il Piemonte si sarebbe benissimo potuto constatare nelle altre aree dell’Europa industriale, sebbene si verificasse secondo modalità differenti in ogni contesto nazionale. Ciò che rendeva più amare le osservazioni di Prato era però il fatto che nessuna delle altre nazioni europee fino a quel momento avesse conosciuto un’uscita dal trava glio del dopoguerra simile a quella italiana e piemontese: qui soltanto si era assistito a una dissoluzione pura e semplice del mondo e della cultura liberali o al loro malinconico passaggio di campo nei ranghi del fascismo. Anche altrove l’ordine liberale era finito, ma in appa renza senza le convulsioni e i ribaltamenti totali che avevano con traddistinto una realtà adusa da decenni a ritenersi in sintonia con le società d’Oltralpe.
Molto si potrebbe obiettare all’analisi di Prato, dominata com’è da un senso di nostalgia per un passato che si percepisce scomparso e che per il gioco retorico delle contrapposizioni finisce col venire tra sfigurato, fino a dare luogo a una versione particolare del mito del Piemonte. Non di meno, sarebbe improprio ridurre tutto alla cifra della deprecatio temporum. Infatti, il libro di Prato ci è ancora utile per sollevare degli interrogativi circa la natura e le interpretazioni dell’economia e della società del Piemonte del primo dopoguerra.
In nessun’altra regione, l’idea della modernità è stata fatta coinci dere con quella di una semplificazone ai limiti dell’elementarità della struttura sociale. E invece è proprio questo il tratto caratterizzante che viene salutato come la novità del Piemonte alla fine del conflitto. La riduzione della società torinese al nucleo essenziale delle due classi protagoniste del processo di accumulazione è un punto su cui insiste
Gramsci, prima e dopo l’esperienza ordinovista. È lui a formulare quell’immagine di una società definita da una «composizione demo grafica razionale», che resiste ben al di là del declinare delle attese rivoluzionarie, per prolungarsi nell’elaborazione dei Quaderni del car
cere. Ma se vogliamo è la medesima immagine che torna in tante me
morie degli anni venti, pronte a evocare uno spazio sociale della città conquistato alla presenza operaia, come leggiamo per esempio, da ul timo, nel volume autobiografico di Vittorio Foa6. Un’immagine