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1. Nella tradizione politica italiana il contrasto sulla possibilità o meno che la prima guerra mondiale portasse, in seguito alla distruzio­ ne degli imperi autoritari e militari, alla costruzione di un durevole ordine europeo mediante da un lato la formazione di nuovi Stati na­ zionali sovrani e dall’altro la costituzione di una Lega di nazioni in grado di preservare la pace per il futuro grazie alla forza del diritto internazionale e della democrazia, è rappresentato al livello più alto da Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi. L ’uno e l’altro erano critici decisi dello Stato imperialistico. Ma il primo credeva, da mazziniano e wilsoniano qual era, che la guerra avesse le sue radici nella politica non democratica degli Stati; il secondo individuò al contrario la causa della guerra nel carattere assoluto della sovranità dello Stato vuoi na­ zionale vuoi multinazionale, vista come tale da alimentare gli effetti perversi dei sistemi chiusi in economia e di una conflittualità interna­ zionale destinata, nei casi estremi, a degenerare nel conflitto armato. Insomma, per Salvemini la guerra rappresentava la manifestazione patologica dello Stato sovrano, che avrebbe potuto vivere in modo sano se democratico e aperto alla cooperazione internazionale; al con­ trario per Einaudi la guerra era il prodotto necessario della sovranità nazionale illimitata e del suo carattere storicamente obsoleto in una epoca in cui l’obiettivo per cui lottare doveva essere l’ordinamento federale del vecchio continente: poiché questo soltanto appariva ca­ pace ormai di rispondere a quelle esigenze di unificazione

dell’Euro-pa che avevano le loro radici oggettive nell’internazionalizzazione della vita economica.

Di qui l’opposto atteggiamento di Salvemini e di Einaudi di fron­ te alla proposta wilsoniana di ricostruzione dell’ordine internazionale ed europeo. In essa il pugliese vide la speranza dell’Europa; il pie­ montese lo specchio delle sue illusioni. E l’uno considerò la Lega del­ le Nazioni l’assise possibile della democrazia internazionale; l’altro l’arena dei futuri conflitti in primo luogo europei. Nel suo libro Dal

Patto di Londra alla Pace di Roma Salvemini affermò di aver conside­ rato l’interventismo democratico come «il programma di Mazzini che rinasceva a un tratto dal sepolcro, in cui sembrava sotterrato da cin­ quantanni»1 e in Guerra o neutralità? disse che il grande conflitto poneva l’alternativa fra un sistema che, se vittorioso, avrebbe ridato vita a un nuovo Sacro Impero della nazione germanica, circondato da una «pleiade incoerente e impotente di staterelli vassalli» e un si­ stema invece che, se vittorioso, avrebbe invece portato alla costitu­ zione di un ordine di stati sovrani nazionali liberati finalmente dal- l’incubo dell’oppressione dei più deboli da parte dei più forti1 2. Data questa prospettiva, si può ben capire come Salvemini abbia visto in Wilson un Mazzini redivivo.

A mettere in luce il punto di vista di Einaudi, voglio qui solo ri­ cordare un articolo del 28 dicembre 1918, in cui egli rivolse una criti­ ca frontale al «dogma funesto della sovranità assoluta»3 e il discorso da lui tenuto all’Assemblea costituente il 29 luglio 1947, dove, riflet­ tendo sul significato della prima guerra mondiale in relazione alla se­ conda, sostenne che la storia aveva posto ormai all’ordine del giorno, fin dal 1914, il problema dell’unificazione europea. Di questo impul­ so la prima guerra aveva rappresentato la «manifestazione cruenta» e la seconda la sua ancor più tragica continuazione, condotta con la spada dell’«Attila moderno». Il bisogno di unificazione dell’Europa, non potendo farlo in materia costruttiva, si era espresso attraverso la spada tragicamente fallimentare di Satana4. Einaudi guardò, per parte sua, fin dal 1918 al modello costituito dagli Stati Uniti d ’Ameri­ ca; e con lui erano, in una comunanza di ispirazione fondamentale, an­ che Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, i quali all’ispirazione statuniten­ se univano quella che a loro veniva dal Commonwealth britannico.

1. G. Salvemini, D al Patto di Londra alla Pace di Roma, Torino, 1925, p. XXI. 2. G. Salvemini, Guerra o neutralità?, Milano, 1915, pp. 13-14.

3. L. Einaudi, La guerra e l'unità europea, Bologna, 1986, p. 36. 4. Ivi, pp. 45-46.

2. L ’ordine europeo uscito dal conflitto mondiale e sancito dai trattati di pace del 1919 rappresentò la sconfitta sia degli ideali mazziniano-wilsoniani di Salvemini sia di quelli federalistici di Luigi Einaudi.

Crollarono infatti bensì gli imperi autoritari e multinazionali, co­ me auspicava Salvemini, ma un tale crollo non portò affatto ad una Europa mazziniano-wilsoniana, bensì al trionfo delle vecchie volpi o dei vecchi lupi come Lloyd George e Clemenceau, all’umiliazione dei lupi senza unghie come i nostri statisti, che reclamarono invano l’a­ dempimento dei dettati del Trattato di Londra, alla pace cartaginese imposta dai vincitori sui vinti, alla costituzione di una pleiade di Sta­ ti nazionali sovrani minori, subito indotti a farsi clienti degli Stati più forti. Quale fosse lo spirito dei Clemenceau e dei Lloyd George lo fissò in parole indelebili Keynes fin dal 1919 nel suo saggio su Le

conseguenze economiche della pace. «L a vita futura dell’Europa — scrisse il grande economista — non li riguardava»; e continuava di­ cendo che le loro preoccupazioni «si riferivano alle frontiere e alle nazionalità, all’equilibrio delle forze, agli ingrandimenti imperialisti­ ci, al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla ven­ detta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli inso­ stenibili pesi finanziari»5. In un altro passo, affermò: «il trattato non comprende alcuna clausola che miri alla rinascita economica del­ l’Europa, nulla che possa trasformare in buoni vicini gli Imperi cen­ trali sconfitti, nulla che valga a consolidare i nuovi Stati dell’Europa, nulla che chiami a novella vita la Russia; esso non promuove neppu­ re, in alcuna guisa, una stretta solidarietà economica fra gli stessi Al­ leati»6. E ancora: il trattato di pace fu «figlio degli attributi meno degni di ognuno dei suoi genitori, senza nobiltà, senza moralità, sen­ za intelletto»7.

Se mettiamo a confronto i giudizi di Keynes con il tipo di ordine internazionale dell’Europa uscita dai trattati di pace possiamo ben vedere come essi fossero pienamente corrispondenti alla realtà.

La pace e i trattati che la sancirono risposero alle seguenti «logi­ che». Primo. Furono l’espressione anzitutto degli interessi della Francia e della Gran Bretagna, diretti gli uni a stabilire l’egemonia francese sul continente europeo e gli altri al consolidamento dell’im­

5. J.M . Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Torino, 1983, p. 57. 6. Ivi, p. 160.

pero inglese. Secondo. In cambio del via libera alla politica insensata­ mente punitiva nei confronti della Germania da parte dei francesi, che non vollero fare differenza fra l’imperatore Guglielmo e i rappre­ sentanti della nuova Germania apertasi alla democrazia dopo la scon­ fitta, gli inglesi ottennero di far la parte del leone in un settore per loro vitale come il Medio Oriente. Terzo. La Francia mirò a consoli­ dare in ogni modo la sua posizione di maggiore potenza continentale dopo il crollo dei tre grandi imperi di Germania, Austria-Ungheria e Russia. E perseguì questo obiettivo attraverso l’annichilimento del­ la Germania e una politica di alleanze e di egemonia con i nuovi Sta­ ti, tutti di secondo rango, nati dal crollo degli imperi multinazionali. Quarto. Francia e Inghilterra fecero ogni sforzo per opporre alla Rus­ sia sovietica una invalicabile barriera.

In un simile quadro, quale ruolo venne a giocare nel dopoguerra europeo lo Stato nazionale? Esso trionfò certamente come mai in precedenza nella storia del continente, ma i modi e le conseguenze del suo trionfo furono tali da preparare la seconda grande catastrofe che colpì l’Europa in questo secolo. Il problema del rapporto fra trionfo e crisi dello Stato nazionale in Europa va considerato in rela­ zione a due dimensioni, diverse fra loro eppure strettamente correla­ te: i rapporti creatisi fra i singoli Stati per un verso e per l’altro il contenuto istituzionale, ideologico ed etico di questi Stati, insomma, 10 «spirito» di questi Stati nazionali.

Quando i trattati di pace, sulla base del crollo degli imperi multi­ nazionali, portarono alla costituzione di una serie di nuovi Stati, poté sembrare che il nuovo ordine europeo segnasse un passo avanti deci­ sivo nella direzione della libertà dei popoli, realizzando finalmente le aspirazioni del nazionalismo democratico dei Mazzini e dei Kossuth. E in effetti, nonostante tutte le contraddizioni e i limiti della nascita dei nuovi Stati, non è dubbio che le forze nazionali democratiche sentirono allora di aver raggiunto un risultato di valore storico. D ’al­ tra parte, il rifacimento della carta geopolitica dell’Europa dell’Est metteva in luce tre elementi destinati a contrastare ogni illusione «mazziniana». Il primo elemento era che l’Europa si presentava più che mai divisa in Stati forti, in grado di far valere la propria sovrani­ tà, e in Stati deboli, per cui la sovranità era largamente una finzione. 11 secondo elemento era che, mentre la distruzione degli imperi mul­ tinazionali e la formazione dei nuovi Stati venne posta sotto il manto della democrazia e della libertà dei popoli, le esigenze dei confini, de­ gli «equilibri» e della Realpolitik fecero sì che non si esitasse a inglo­ bare in virtù della forza minoranze etniche e nazionali entro confini

a queste niente affatto graditi, reintroducendo, pur in scala minore, il principio proprio degli imperi multinazionali fondati sul dominio di una o più nazionalità dominanti. Il terzo elemento, conseguenza dei primi due, fu che il nuovo ordine da un lato attivò immediata­ mente il meccanismo della formazione di sistemi egemonici, dei cor­ doni sanitari, della dipendenza degli Stati non in grado di esistere per sé nei confronti degli Stati più forti a cui si chiedeva di diventare ga­ ranti della difesa di una sovranità forzatamente limitata, dall’altro non riuscì a mettere fine alle rivendicazioni delle minoranze oppres­ se. Tutto ciò mostra bene come il trionfo dello Stato nazionale nel primo dopoguerra fosse affetto dai germi della propria crisi.

3. Fin daH’immediato dopoguerra, fu possibile capire come l’ordi­ ne internazionale europeo fosse minato nelle sue strutture.

Una mina era costituita ormai dalla ormai evidentissima dipen­ denza economica dell’Europa da quegli Stati Uniti, grazie al cui aiuto finanziario e militare soltanto Inghilterra, Francia e Italia erano riu­ scite a piegare gli imperi centrali. Il che stava a indicare che anche quelle che apparivano essere ancora le grandi potenze europee in real­ tà non disponevano più di quell’attributo che rende la sovranità di uno Stato piena, vale a dire la disponibilità di adeguate forze mate­ riali proprie. Fu proprio la consapevolezza di questa realtà che indus­ se nel 1923 l’austriaco Coudenhove-Kalergi a porre nel 1923 in Pan-

Europa la questione in questi termini: «Oggi l’Europa non è più il centro della terra [...]. Può l’Europa nella sua frammentazione politi­ ca ed economica mantenere la sua pace e la sua indipendenza di fron­ te alle crescenti potenze mondiali extra-europee o essa è costretta, per conservare la propria esistenza, ad organizzarsi in federazione di Stati?»8.

Una mina era il fatto che la pace europea nei termini stabiliti dai Clemenceau e dai Lloyd George, in quanto pace cartaginese, fosse basata sulla forza. Essa poteva durare solo nella misura in cui inglesi e francesi avessero la volontà e la capacità di mantenere la Germania, divenuta fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento il cuore economico, industriale, dell’Europa in una condizione di minorità. La pace carta­ ginese aveva seminato in Germania denti di drago. E fu la cieca boria dei francesi, sostenuta dagli inglesi, a fornire l’inchiostro alla penna dell’Attila moderno, il quale nel Mein Kampf additò ai tedeschi il compito di «sottostare a qualunque privazione» pur di arrivare alla

distruzione dello sforzo francese di stabilire il proprio primato in Europa9 e «raggiungere il grado di potenza mondiale» senza il quale la Germania sarebbe stata condannata alla non-esistenza10 11. Nelle facce opposte eppure tanto simili espresse da un lato nella strategia di un Clemenceau, che considerava la vita della Francia dipendente dalla sua capacità di mantenere la Germania in una condizione di Stato minore e dall’altro nel programma hitleriano di annientamento dell’egemonismo francese, vediamo, ancora una volta, come il trionfo di ciascuno dei grandi Stati nazionali avesse come principio della pro­ pria vita la riduzione dell’antagonista alla subordinazione o, nel caso estremo, alla non esistenza.

Una mina era la spaccatura dell’Europa in tre grandi poli, la cui logica di sviluppo era del tutto distruttiva: il polo anglo-francese, il polo tedesco, il polo costituito dalla Russia sovietica. Il polo anglo­ francese doveva per un verso tenere in soggezione la Germania, e im­ pedire altresì che essa si unisse all’Austria ridotta a uno staterello; per l’altro verso, doveva costruire un cordone sanitario nei confronti dalla Russia sovietica. La Germania mirava, naturalmente, a sollevar­ si dalla propria condizione di minorità; e a questo scopo subito prese ad agire utilizzando la leva fornita dall’aiuto economico degli Stati Uniti, che diventò cruciale a partire dal piano Dawes varato nel 1924, e l’intesa segreta con i sovietici diretta a mantenere una poten­ zialità di ricostruzione militare. Dal canto suo la Russia sovietica — il cui espansionismo era stato bloccato dal duplice fallimento costitui­ to dalla sconfitta subita dalle correnti e dai partiti rivoluzionari ope­ ranti nei paesi capitalistici e dalla sconfitta delle armi sovietiche alle porte di Varsavia nell’agosto del 1920 — era sì stata indotta, per usa­ re le parole di Lenin, a imparare che occorreva adattarsi a vivere «in un sistema di Stati»11, ma manteneva quale proprio programma la sovversione, non appena le condizioni fossero risultate propizie, del­ l’intero ordine europeo e mondiale. Di fronte a interessi così struttu­ ralmente inconciliabili, solo la forza poteva mantenere i rapporti sta­ bilitisi e chi quei rapporti intendeva cambiare era spinto a sua volta ad accumulare la forza necessaria allo scopo. Merita, a questo punto, fare una citazione dal ben noto libro di Ludwig Dehio, Equilibrio o

egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia

9. A. Hitler, Mein Kampf, Roma, 1971, p. 242. 10. Ivi, p. 232.

politica moderna. Egli scrive: «i trattati del 1919 non fondarono un ordine durevole a somiglianza dei loro predecessori [...]. In verità, i problemi europei della pace vennero affrontati sullo sfondo di una confusa, immatura situazione mondiale: non poteva essere una solu­ zione matura e perciò durevole. [...] Ancora una volta teneva piutto­ sto il campo con rigida inesorabilità il principio tipicamente conti­ nentale della politica di potenza formatosi nel corso dei secoli, ma enormemente rafforzato nella sua efficacia dai mezzi di pressione che la moderna civilizzazione metteva a sua disposizione»12.

Una mina era la contraddizione fra la tendenza della vita econo­ mica all’internazionalizzazione e la tendenza degli Stati alla naziona­ lizzazione dell’economia. Cosi il moltiplicarsi degli Stati nel conti­ nente diventò un fattore organico di debolezza generale. Anche su questo tema vorrei fare una citazione. Scrivevano efficacemente Agnelli e Cabiati nel loro libretto Federazione europea o Lega delle na­

zioni?-. «Il nazionalismo ha creato una nuova categoria economica,

l’economica nazionalista, supponendola come una entità diversa dalla economia dei singoli individui e naturalmente in netta antitesi con quella delle altre nazioni»13. Tal che in Europa si era «giunti a que­ sto colmo di assurdo, che ogni fabbrica che sorgeva in uno Stato co­ stituiva una spina nel cuore per ogni altro Stato, che, mentre le su­ perbe invenzioni tecniche del vapore applicato ai trasporti di terra e di mare, dell’elettricità come forza motrice, del telegrafo e del telefo­ no avevano ormai annullato le distanze e reso il mondo un unico grande centro e mercato internazionale, i piccoli uomini si affannava­ no con ogni loro possa ad annullare gli immensi benefici delle grandi scoperte, creando artificiosamente mercati isolati e piccoli centri di produzione e di consumo»14.

Una mina era costituita dalla guerra dei valori, delle ideologie, dei gruppi e delle classi sociali. Nel corso del primo dopoguerra il proces­ so di democratizzazione politica conobbe un impulso straordinario. Si moltiplicarono gli Stati parlamentari e si allargarono le basi della partecipazione politica. Ma un simile processo si dimostrò subito as­ sai fragile. Le istituzioni della democrazia parlamentare, se riuscirono a resistere saldamente in Gran Bretagna e con difficoltà in Francia, entrarono presto in crisi in gran parte d’Europa perché divenute una

12. L. Dehio, 'Equilibrio o egemonìa..., Bologna, 1988, p. 221-223.

13. G. Agnelli-A. Cabiati, Federazione europea o lega delle nazioni?, Pordenone, 1986, p. 42.

palestra non di conflitti poggianti su un esteso comune consenso per la democrazia stessa, ma di lotte dirompenti che opponevano in ma­ niera inconciliabile le parti sociali e politiche. In una lettera del feb­ braio 1835 Tocqueville si era domandato: «se vi sarebbe stata una società democratica che procedeva senza poesia e senza grandezza, ma con ordine e moralità, o se invece avremmo avuto una società de­ mocratica disordinata e depravata, abbandonata a dei furori frenetici [...]»15. Ebbene, chi esamini il corso della storia europea fra le due guerre mondiali, può ben vedere come sia stato il secondo tipo di de­ mocrazia a preparare in Europa la via alla fascistizzazione e alla for­ mazione di tanti regimi autoritari. Disordine e «furori frenetici» che minarono la democrazia nell’Europa del dopoguerra furono le lotte mortali fra democratici e antidemocratici e imperialisti, fra comunisti e socialdemocratici, fra nazionalisti di scuola democratica e nazionali­ sti antidemocratici, fra umanisti e razzisti, fra fautori della potenza dello Stato e loro oppositori, fra marxisti e antimarxisti. Si potrebbe continuare nell’elenco. Queste correnti in conflitto per un verso fu­ roreggiavano in tutto il continente usurandone il tessuto complessivo e per l’altro si nazionalizzavano in ciascuno Stato.

Gli Stati nazionali, investiti dalle scosse generate da queste lotte, reagirono tutti alimentando il proprio nazionalismo. In quelli capita­ listici e liberaldemocratici più forti questo nazionalismo non entrò in­ fine in rotta di collisione con le istituzioni parlamentari; in quelli più deboli, che furono la grande maggioranza, il nazionalismo finì per unirsi indissolubilmente.all’autoritarismo e al totalitarismo. Il nazio­ nalismo acquistò più che mai una duplice valenza: all’interno dei sin­ goli Stati diventò un mezzo delle classi dirigenti per imbavagliare e nei casi estremi annientare le forze avverse; all’esterno, nei rapporti fra gli Stati, alimentò fino al parossismo il nesso amico-nemico, desti­ nato a diventare esplosivo negli anni ’30. Il trionfo dello Stato sovra­ no nazionale determinò in tal modo le cause che dovevano portare prima alla distruzione, poi alla divisione, infine alla soggezione del­ l’Europa. I momenti dell’ottimismo, legati allo «spirito di Locamo», ai piani di confederazione europea di Aristide Briand, al patto Briand-Kellogg con le loro promesse di mettere al bando la guerra, lasciarono un mero catalogo di buone intenzioni.

4. Di fronte a questa realtà, possiamo e dobbiamo porci il seguen­ te interrogativo: quale fu il valore, il significato della critica, rimasta

impotente, confinata all’ambito dell’utopia, svolta al momento della conclusione del conflitto mondiale e nel dopoguerra da quegli spiriti isolati che ben capirono come un nuovo trionfo dello Stato nazionale avrebbe portato con sé una nuova catastrofe dell’Europa e vi con­ trapposero il progetto federalistico?

Utopia contro realtà? Per dare una risposta bisogna ragionare bre­ vemente su che cosa si intenda per utopia. L ’utopia può essere consi­ derata come un qualcosa che o non sta ancora in nessun posto ma può starci, oppure un qualcosa che non sta in nessun posto perché non può starci. Bisogna inoltre tener conto che si può essere realisti in due modi: esprimendo una realtà ancora dominante, ma ormai vec­ chia o esprimendo una realtà non ancora dominante ma nuova e in