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Alle origini dell'europeismo in Piemonte. La crisi del primo dopoguerra, la cultura politica piemontese e il problema dell'unità europea. Atti del Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi Einaudi (Torino, 28-29 novembre 1991)

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ALLE ORIGINI DELL’EUROPEISMO

IN PIEMONTE

LA CRISI DEL PRIMO DOPOGUERRA, LA CULTURA POLITICA PIEMONTESE E IL PROBLEMA DELL'UNITÀ EUROPEA

A cura di Corrado Malandrino

A tti d el Convegno tenuto presso la Fondazione Luigi E in audi

(Torino, 28-29 novembre 1991)

Con il patrocinio della Regione Piemonte

TORINO - 1993

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Corrado Malandrino, Introduzione... p. 9

Norberto Bobbio, Luigi Einaudi, federalista ... » 17

Massimo L. Salvadori, Il primo dopoguerra in Europa:

trionfo o crisi dello Stato nazionale? ... » 33

Giuseppe Berta, Il Piemonte nella crisi europea del dopo­

guerra ... » 43

Valerio Castronovo, La prospettiva europeista di Agnelli e

Cabiati ... » 55

Corrado Malandrino, Gobetti e Treves: due approcci criti­

ci al progetto di Società delle Nazioni e alla prospettiva del­

l’unità europea ... » 73 Lucio Levi, Internazionalismo operaio e unità europea ... » 95

Sergio Pistone, Il pensiero federalistico in Piemonte e il fe­

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Introduzione.

1. Parlare di europeismo oggi non porta a facili consensi. Se mai vi fu per breve tempo, in passato, una retorica europeista di sicuro effetto, essa appare invischiata in gravi difficoltà. Al centro dei di­ battiti urgono altri temi. Non che l’europeismo sia scomparso. Ma prevale, anche in osservatori come Ralf Dahrendorf1, un dichiarato «euroscetticismo», ossia una sfiducia in relazione ai modi (il riferi­ mento è al trattato di Maastricht) in cui l’unità europea viene prepa­ rata e ai capi che dovrebbero dirigere l’operazione. Si sta avverando, ma nel senso contrario a quello da lui auspicato, l’ammonimento di Luigi Einaudi quando esortava a procedere senza indugi all’unifica­ zione europea — almeno della parte occidentale — sfruttando il con­ testo di sostanziale armonia nei sistemi liberaldemocratici quivi re­ gnante nel secondo dopoguerra. Nella fase attuale, caduto il muro di Berlino e, apparentemente, raggiunto un grado ancora maggiore di omogeneità ideologica nell’est e nell’ovest, ci si accorge che sorgono inconsueti e forse più grandi problemi che ostacolano il processo d’u­ nificazione. Una situazione di rinnovati conflitti etnico-nazionali e razziali, che si pensava superata per sempre in Europa a seguito di un’acquisita saggezza dopo le tremende prove della prima e della se­ conda guerra mondiale (quasi alla stregua di un nuovo tucidideo 1

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«possesso per sempre»), ripresenta le sue forme abbiette nell’Europa orientale, di nuovo in luoghi segnati dalla storia. La guerra civile è una realtà ognor incombente nei paesi delTex-Unione sovietica e un pericolo ricorrente in buona parte dell’Europa orientale.

La comunità europea, e gli Stati nazionali che la compongono, so­ no premuti da due insidie distinte ma nel contempo collegate. Da un lato, si profila il fallimento sostanziale del trattato di Maastricht. Il pericolo e che siano messi a repentaglio procedure e tempi degli ac­ cordi monetari e politici ivi stabiliti, con le immaginabili conseguenze sull’intero processo unificatore europeo che è, a sua volta, il risultato di decennali pratiche di programmazione e coordinamento economi­ co, culturale e politico tra gli Stati occidentali. L ’eventuale messa in discussione di esse provocherebbe una situazione di crisi dagli esiti incalcolabili. Da un’altra parte, occorre prender atto che vari paesi, I Italia in primo luogo, sono percorsi da forti tensioni particolaristi­ che, localiste e regionaliste, che arrivano a metter in campo — anche sulla base di ventilate adesioni micro e macroregionali dirette alla fu­ tura Europa unita — finalità separatiste spesso aggrovigliate con ri­ gurgiti razzisti. Non vi è dubbio che il primo rischio sia a sua volta enfatizzato dal farsi avanti prepotente di vieti e vecchi nazionalismi (da quello della Marna2 a quello grande-serbo di Sarajevo), galvaniz­ zati omeopaticamente dalla debolezza comunitaria e dalla crisi dei rapporti tra le maggiori potenze europee, divise dai conti da pagare per l’unificazione tedesca e per lo stabilimento della moneta unica. II secondo rischio proviene, in Italia, oltre che dall’insufficienza di un modello istituzionale, dal fallimento morale e politico di un’intera classe di governo. Cosa che ricopre, almeno parzialmente, di un man­ to di legittimità le richieste più radicali di cambiamento. Ma accanto a sacrosante esigenze di riforma istituzionale, di instaurazione di un reale autogoverno regionale e locale, vengono insinuate così istanze separatiste accompagnate da ripiegamenti etno-razzisti che nulla han­ no di giustificabile e di lecito.

Si crea poi una particolare e perversa congiunzione tra il primo e il secondo ordine di problemi. Per opporre una valida difesa ai ri­ schi del separatismo e alle minacce esterne, appare a taluno necessa­ rio riscoprire un sentimento di patriottismo nazionale, che però ri­

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schia, se non ben capito, di ritorcersi contro le ragioni che militano a favore dell’unificazione politica europea e, anzi, di condurre a insi­ diose contrapposizioni con altri partners. È allora vieppiù necessario trovare un percorso equilibrato che, nel rispetto delle singole realtà nazionali, della cultura, della storia e dell’insopprimibile loro identità (ma non di pretese a una sovranità assoluta), non pregiudichi la mar­ cia verso l’unità federale europea.

2. Quando i sintomi di tali tendenze cominciavano a prender for­ ma fu deciso, nell’àmbito del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, di dare un seguito alla riflessione che, nel 1975, aveva già consentito la tenuta di un seminario di studi e l’edi­ zione del volume su L ’idea dell'unificazione europea dalla prima alla

seconda guerra mondiale0. Stavolta l’attenzione avrebbe dovuto fis­ sarsi sulle origini del rapporto speciale che, ormai da quasi un secolo, lega il mondo socioeconomico e intellettuale piemontese alla prospet­ tiva europea, allo scopo di dare un contributo scientifico e di promo­ zione fattiva al rinnovamento e al consolidamento della coscienza eu­ ropeista nella regione e in Italia. Grazie all’impegno del presidente Mario Einaudi e alla cura e agli sforzi di Massimo L. Salvadori si potè così realizzare nel novembre 1991 presso la Fondazione, con il patrocinio della Regione Piemonte, il convegno di studi intitolato «Alle origini dell’europeismo in Piemonte», collegante la crisi del primo dopoguerra, la cultura politica piemontese e il primo affac­ ciarsi in regione del problema dell’unità europea. In questo volume vengono ora pubblicate le relazioni in veste aggiornata e arricchita non solo per l’apparato bibliografico, bensì per la successiva rilettura critica.

L ’intreccio di relazioni economiche, sociali, culturali e politiche che legano all’inizio del secolo il Piemonte al più ampio contesto eu­ ropeo non ha per la verità una storia molto antica. Esso si pone a par­ tire soprattutto dal ruolo di guida assunto nel corso delle vicende ri­ sorgimentali e, in seguito, grazie al decollo industriale concentrato nei settori tessile e metalmeccanico. Sono questi gli eventi di lungo periodo che proiettano il Piemonte come attore sullo scenario inter­ nazionale. Nel passato esso resta in posizione più defilata e arretrata, forse più per il carattere cauto e schivo dei suoi abitanti o per il con- 3

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servatorismo ivi regnante4 che non per le sue effettive potenzialità, il quadro cambia notevolmente tra otto e novecento. Torino diventa centro d ’innovazione industriale, «laboratorio» di lotte e d ’integra- zione sociale di massa, avvicinandosi ad altre e consimili realtà nazio­ nali ed europee. Non è perciò un fatto straordinario che tra i suoi piu acuti e avvertiti esponenti dell’economia, dell’accademia e della cultura politica in generale, prenda piede un’elaborazione originale di segno europeo che ha una eco, pur essendo redatta in termini critici nel contesto storico delineato tra il 1916 e il 1918 dall’iniziativa di pace del presidente statunitense Wilson e dalla sua proposta di edifi- cazione di una «società delle nazioni». È quanto emerge dalle relazio­ ni di Valerio Castronovo e di Giuseppe Berta, che affrontano il rap­ porto intercorrente tra il mondo economico, la cultura industriale e emergere della proposta federalista ed europeista da parte di un pro­ vato capitano d’industria, come Giovanni Agnelli, e di un accademi­ co.’ e poliedrico uomo di cultura vicino al mondo del lavoro, come At- tilio Cabiati. Questi non sono però i primi a misurarsi con la materia Luigi Einaudi, come mette in luce Norberto Bobbio, segue già da molti anni il problema dell’unità europea sulla scorta di una personale e inedita riflessione storico-filosofica e politologica, che parte dall’u­ so combinato di strumenti euristici tra loro assai eterogenei e distan- fi: 1 insegnamento storicista tedesco, da Ranke a Treitschke, da un ato, con il privilegiamento della tematica dello Stato nazionale e del­ la ragion di Stato vista a partire dal principio della preminenza della politica estera su quella interna; la dottrina contenuta nel Federalist di Hamilton e 1 elaborazione federalista anglosassone rinverdita nel primo decennio del novecento, da un altro lato. A un’ampia rassegna del pensiero federalista internazionale, con puntuali rilievi sui nessi che con esso vengono stabiliti dai pensatori piemontesi, è dedicato 1 intervento di Sergio Pistone. Infine Lucio Levi e Corrado Malan­ drino si occupano di far affiorare, insieme alla generale atmosfera d interesse circondante la problematica europeista, alcune voci

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scordanti e i limiti di taluni approcci, specie nel campo socialista e marxista.

Dando prova di «realismo idealistico», come afferma Salvadori (e Castronovo parla di «preveggente realismo»), parte dalla società in­ tellettuale e produttiva piemontese, in particolare da Einaudi, Agnel­ li e Cabiati, un’analisi lucida della crisi in cui si involge lo Stato na­ zionale europeo nell’attimo del suo apparente massimo trionfo du­ rante il primo dopoguerra. Contro il rinchiudersi dentro i confini in­ tangibili di un’indipendenza illusoria e di una sovranità assoluta ana­ cronistica, costoro fanno valere le ragioni economiche e politiche di fondo, risultanti dell’evoluzione produttiva e delle interconnessioni sempre più strette tra gli Stati capitalistici europei, che militano per l’instaurazione di legami che non possono essere quelli deboli di un’alleanza confederale, ma quelli forti di una federazione. «Utopia contro realtà?» si chiede Salvadori. Per rispondere che, ad ogni buon conto, non si tratta di un’utopia irragionevole, ma di un disegno rea­ lizzabile. E aggiunge: «Quando dissero che dagli Stati nazionali pote­ vano venire solo trattati ingiusti; che questi seminavano nuove guer­ re; che quell’unità dello spirito, dei costumi, dei princìpi politici e del diritto pubblico che facevano dell’Europa una “ società dei popoli’’, della quale avevano parlato Voltaire e Rousseau, poteva ormai essere ricostituita, preservata e sviluppata solo volgendo le spalle al dogma fu­ nesto della sovranità assoluta dello Stato nazionale; quando dissero tut­ to ciò quegli spiriti mostrarono il realismo dei costruttori di nuovi mon­ di, di quei mondi che lo spirito innovativo fa nascere dapprima come in veste ideale allorquando le vecchie costruzioni sociali, politiche e isti­ tuzionali già contengono in sé la causa della propria dissoluzione».

3. Col fallimento del progetto wilsoniano, il ritiro degli Stati Uni­ ti d’America dalla scena europea e la stentata vita della Società delle Nazioni nelle mani della Francia e dell’Inghilterra, cessa la discussio­ ne europeista anche in Piemonte. Inizia un lungo silenzio, sul quale pone il suggello il regime fascista in formazione, interrotto dalla ri­ presa di discorsi europeisti in chiave antifascista da parte dei fuoru­ sciti, specialmente degli emigrati in Francia, tra i quali si ritroveran­ no poi gli esuli torinesi di Giustizia e Libertà, in sintonia con lo «spi­ rito di Locamo» e col memorandum di Aristide Briand che da questo prende vita5. All’iniziativa di Briand la retorica fascista cerca di

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contrapporre, in una sterile visione concorrenziale, la sua idea «ro­ mana» di civiltà europea.

Sarà durante la Resistenza che il Piemonte si segnalerà per una nuova fiammata di spirito europeista6. Nel 1943, tra i cofondatori del Movimento federalista europeo di Spinelli e Rossi, durante il ra­ duno tenutosi a Milano nella casa di Mario Alberto Rollier7, figure­ ranno vari piemontesi, come Franco Venturi e Vittorio Foa8 9 10 11’. I temi della federazione europea fanno ormai parte di un bagaglio consolida­ to della componente della cultura democratica e giellista piemontese. Ne fanno fede numerosi fatti e pubblicazioni che si susseguono. Un gruppo di piemontesi e valdostani — Giorgio Peyronel, Emile Cha- noux, Ernesto Page, Osvaldo Coisson, Gustavo Malan e lo stesso Rollier firmano nel dicembre 1943 il documento meglio conosciu­ to come «Carta di Chivasso», nel quale i principi del federalismo in­ fra e sovrannazionale sono posti alla base della ricostruzione italiana ed europea. I partigiani Antonino Repaci e Duccio Galimberti si in­ gegnano a redigere un Progetto di costituzione confederale europea e

interna*’. Lo stesso Luigi Einaudi, espatriato in Svizzera e in contat­ to con Rossi e Spinelli, è sollecitato a riprendere le sue antiche idee e a rielaborarle in nuovi articoli e opuscoli significativamente intito­ lati Per una federazione economica europea (1943), 1 problemi economi­

ci della federazione europea (1944), Il mito dello Stato sovrano (1943),

ecc. . Augusto Monti, maestro d una generazione di democratici e antifascisti, esalta nella Realtà del partito d ’azione11 le eredità di Sal­ vemini e Gobetti, recuperando al loro interno l'ispirazione europei­ sta. Norberto Bobbio si fa interprete di una visione cattaneana del federalismo europeo e si sforza di collegarla con le contemporanee

6. Cfr. C. Malandrino, Scrittori federalisti e regionalisti nella Resistenza piemontese in: Le identità regionali. Fascismo e antifascismo in Piemonte, a cura di M. Guasco Milano’ Angeli, 1987, pp. 171-194.

T 7i Cf('À„anche P ^ ’ampia bibliografia, S. Pistone, L'Italia e l ’unità europea, Torino oescher, 1982, seconda sezione, pp. 69-143. Su Rollier cfr. C. Rognoni Vercelli Ma­ no Alberto Rollier, un valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991. Ved. infine anche I mo­ vimenti per l'unità europea, 1945-1954, a cura di S. Pistone, Milano, Jaca Book, 1992. j- JLn? '° a r*corc^a ^att* *n H Cavallo e la Torre. Riflessioni su una vita, Torino Einau­ di, 1991.

9. Torino, Fiorini, 1946.

10. Per la maggior parte ripubblicati in L. Einaudi, La guerra e l'unità europea Mila­ no, Comunità, 1953.

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suggestioni provenienti dalla cultura anglosassone12. Pur non essen­ do espressamente l’oggetto delle sue opere, Adriano Olivetti ha ben presente la dimensione europea nella grande meditazione sull’ Ordine

politico delle comunità13. E sulla base dunque di un’ininterrotta at­ tenzione per la costruzione di un’Europa unita che il Piemonte parte­ ciperà nel secondo dopoguerra e fino ai nostri giorni — prestandogli alcuni tra i suoi uomini migliori, basti segnalare il nome di Antonio Giolitti —, alle vicende che hanno contrassegnato la storia dell’inte­ grazione europea, dall’istituzione delle prime comunità «funzionali», al loro allargamento in mercato comune e quindi nella CEE dei dodi­ ci. Ma questa è un’altra storia, che si trova oggi a un passo decisivo, al quale anche questa pubblicazione intende dare il suo piccolo con­ tributo. L ’Europa federata, come ricordava Mario Einaudi introdu­ cendo il convegno, dovrà nascere sulla base del principio di sussidia­ rietà. Dovrà cioè «occuparsi dei problemi che son più grandi del qua­ dro del singolo Stato: problemi di politica estera, politica di difesa, politica di protezione dell’atmosfera e della sopravvivenza dell’uma­ nità di fronte ai pericoli causati dall’energia atomica e altri fattori di questo genere che stanno creando problemi immensi, di cui non ci rendiamo conto, alla vera sopravvivenza di questa civiltà». Non do­ vrà, insomma, per riprendere il discorso iniziale, crearsi una confu­ sione pericolosa tra il livello degli Stati nazionali e quello federale. Poiché, come riafferma con forza Mario Einaudi, non vi è contrasto tra la «riduzione di quei poteri e degli Stati che sempre in passato hanno portato a guerre» — e che si suole riassumere nel dogma della sovranità assoluta nazionale — e «il mantenimento di quel complesso di caratteristiche sociali, culturali, di costume, che sono alla base del concetto di “ nazione” ... Una forte, grande e libera Comunità so- vrannazionale europea può sorgere soltanto sulle fondamenta dei mo­ di di essere delle più piccole patrie che la compongono».

12. Cfr. N. Bobbio, Le due facce del federalismo, «Giustizia e Libertà», I, n. 37, 7.6.1945; Id., Federalismo vecchio e nuovo, ivi, n. 102, 21.8.1845; Id., Colloquio con La-ski, ivi, n. 209, 28.12.1945; Id., Il federalismo e l ’Europa, « L ’Unità europea», 5.3.1946; Id., Orientamenti federalistici nei paesi anglosassoni, «L a Comunità internazionale», I, n. 4, 1946; Id., Prefazione a C. Cattaneo, Stati Uniti d ’Italia, Torino, Chiantore, 1945.

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Luigi Einaudi, federalista.

Il pensiero federalistico di Luigi Einaudi è stato più volte esposto e commentato1. Non c’è storia del federalismo europeo che non col­ lochi Einaudi tra i più autorevoli, illuminati e dottrinalmente agguer­ riti, fautori dell’idea federalistica, in particolare dell’idea federalisti­ ca applicata all’Europa, e quindi tra i padri del Movimento federali­ stico europeo. La mia relazione non ha altro scopo che quello di met­ tere un po’ d ’ordine nel materiale raccolto, non solo da me, e richia­ mare la vostra attenzione su alcuni punti di particolare attualità.

Sul problema della federazione europea Einaudi è tornato soprat­ tutto due volte nella sua lunga vita di studioso e di osservatore politi­ co: alla fine della prima guerra mondiale e alla fine della seconda, vale a dire nei due momenti in cui la crisi del vecchio assetto degli stati europei richiede il superamento della secolare politica di equilibrio delle potenze, che delle grandi guerre europee è stata la causa princi­ pale.

Tuttavia non può essere trascurato, se non altro con un breve ac­ cenno, uno dei primissimi articoli del giovane studioso, Un sacerdote

della stampa e degli Stati Uniti d ’Europa, che, scritto a ventitré anni, 1

1. Mi limito a ricordare la monografia di U. Mo r e l l i, Contro il mito dello Stato so­ vrano. Luigi Einaudi e l'Unità europea, Milano, Franco Angeli, 1990. La monografia di C.

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può apparire quasi come un segno del destino2. Il «sacerdote della stampa» è il giornalista inglese W.T. Stead direttore della «Review of reviews », nato nel 1849, morto nel naufragio del Titanic (1912), fondatore di un settimanale «War against war», resosi famoso per la battaglia contro la tratta delle bianche, contro la corruzione dei mi­ norenni e contro la guerra, autore di un noto libro The United States

of Europe, apparso nel 1899. Il giovane Einaudi, il cui articolo era apparso su «La Stampa» il 20 agosto 1897, si riferiva a un articolo dello Stead pubblicato da una rivista due anni prima dell’uscita del libro. Lo Stead vedeva l’inizio dei futuri Stati Uniti d’Europa nella coalizione delle sei grandi potenze europee (Germania, Russia, Au­ stria, Italia, Francia, Inghilterra), soprattutto in funzione an ti turca. Si noti qui di passata che l’unione europea ha sempre presentato due facce, una rivolta all’interno e l’altra rivolta all’esterno, raffiguranti due esigenze diverse, anche se spesso collegate, la pace perpetua tra le nazioni lacerate da guerre secolari e la difesa contro il nemico co­ mune. Il giovane recensore ne accoglie favorevolmente il pronostico osservando che «le grandi e durevoli creazioni storiche avvengono non secondo i piani prestabiliti dai pensatori, ma per l’attrito fecon­ do delle opposte forze»3, dove è da notare che questa idea dell’«at­ trito» da cui sprigiona la scintilla dell’innovazione, è una idea ispira­ trice e conduttrice di tutto il pensiero einaudiano: un’idea aggiungo, tipicamente cattaneana, derivante da un autore che aveva per primo pronunciata in una memoranda situazione la formula «Stati Uniti d’Europa». Il giovane scrittore cosi concludeva: «L a nascita della fe­ derazione europea non sarà meno gloriosa solo perché nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari»4.

Il primo gruppo di scritti, usciti dopo la prima guerra, furono compresi nel volume laterziano, pubblicato nel 1920, col titolo Lette­

re politiche di Junius, raccolta di 14 lettere inviate da Einaudi fra il

2. Vedilo ora col titolo, Una biografìa avanti lettera degli Stati Uniti europei, in: Crona­ che economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), voi. I, (1893-1902), Torino, Einau-

nt’ n '1 n'ò PP- 37-39 (voi. I li delle «Opere di Luigi Einaudi»), E stato ristampato più volte. Neila Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi (dal 1893 al 1970), a cura di L. Firpo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1971, che comprende migliaia di titoli, il breve articolo sul giornalista inglese ha il n. 48.

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3 luglio 1917 e il 17 ottobre 1919 a Luigi Albertini, direttore del «Corriere della sera». Le più attinenti al nostro tema sono: La Società

delle Nazioni è un ideale possibile? (5 gennaio 1918); La Dea Potenza

e la Dea Giustizia, a proposito della proposta di unificazione dell’Au­ stria con la Germania (10 luglio 1919); Perché gli Americani combatto­

no in Europa (29 agosto 1918); Il dogma della sovranità e l ’idea della Società delle Nazioni (28 dicembre 1918). Oltre questa raccolta, è da tener presente La guerra tra i due ideali continua (23 giugno 1920), ripubblicato nel volume quinto delle Cronache^.

Le riflessioni di Einaudi sono provocate dal progetto che si va ela­ borando negli Stati Uniti, già durante il corso della guerra, per inizia­ tiva del presidente Wilson, di una Società o Lega delle Nazioni, che dovrebbe per l’avvenire impedire le guerre europee che hanno insan­ guinato per secoli il Vecchio Continente. Delle quali l’ultima ha cau­ sato massacri che nelle guerre precedenti non erano neppur lontana­ mente prevedibili. La prima guerra mondiale rispetto alla distruzione di vite e di cose è stata un vero e proprio salto qualitativo, sul quale esiste una letteratura immensa, filosofica, storica, memorialistica, ro­ manzesca, poetica: una letteratura il cui tema fondamentale è come agire perché la pace non sia più una tregua fra due guerre, ma sia una pace stabile che non abbia più la guerra come alternativa. (Inutile di­ re che gli stessi discorsi si ripeteranno con un di più di passione alla fine della seconda guerra mondiale e continuiamo a ripeterli anche oggi che la terza è stata evitata, ma ha lasciato uno strascico di spieta­ te guerre locali in più parti del mondo).

Già nel maggio 1916 Wilson aveva tenuto un discorso intitolato

League to enforce peace, in cui si preannunciava «un’associazione uni­ versale delle Nazioni, creata in vista di mantenere inviolabile la sicu­ rezza dei mari [...] e di prevenire qualsiasi guerra». Ne seguono altri, tra cui quello più famoso sui quattordici punti, pronunciato l’8 gen­ naio 1918. L ’ultimo di questi punti è così formulato: «Con appositi accordi dovrà venir costituita una società generale delle Nazioni per fornire mutue garanzie d’indipendenza politica e d’integrità territo­ riale agli Stati sia grandi sia piccoli». Progetti di una futura associa­ zione di nazioni erano stati redatti nello stesso tempo altrove, in Francia, in Inghilterra e, sotto la guida del nostro maggior internazio- 5

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nalista Dionisio Anzilotti (che sarà il futuro presidente della Corte di giustizia dell’Aia), anche in Italia.

Quanto al presidente Wilson, Einaudi non si lasciò sfuggire un’occasione di tesserne l’elogio, e di esprimergli la sua più fervida ammirazione. In un articolo violentemente antigiolittiano del 3 luglio 1917 scrive: «Ignoro quel che la storia dirà dell’atto di Wilson [le pri­ me truppe americane erano sbarcate in Europa nel giugno]; ma im­ magino che difficilmente potrà negare che i messaggi del presidente americano discendano in linea retta dai grandi documenti della storia nordamericana: Washington, Jefferson, Lincoln, non avrebbero po­ tuto agire diversamente. [...] Essi sono documenti dello spirito di sa­ crificio di un popolo che ha sempre lottato per il raggiungimento di scopi ideali»6. Nel luglio 1918, quando ormai la guerra è vicina alla fine: «Il Wilson ha il dono rarissimo di vedere in fondo ai grandiosi problemi che sono posti dalla guerra. Anche gli uomini di stato euro­ pei finiscono a poco a poco di essere attratti dalla semplicità e dalla forza che si sprigiona dalle sue parole»7.

Quali siano state le ondate di entusiamo che il presidente Wilson suscito anche in Italia e nolo. Ma non voglio dimenticare che allo sta­ tista americano dedico in quegli anni un libro apologetico il grande amico di Einaudi e suo collega all università di Torino, Francesco Ruffini. Wilson vi è paragonato «per la sua ispirazione quasi ierati­ ca» e «il pathos umanistico» al nostro Mazzini. L ’ammirazione per il presidente s’inserisce nell’elogio incondizionato della Costituzione americana, che il Ruffini dimostra di conoscere molto bene8.

La ragione principale di questa ammirazione dipende per Einaudi dall essere il presidente americano, il «professore disprezzato dai no- stri miopi politicanti», in realta un «veggente» che ha preso una deci­ sione contraria al tradizionale isolazionismo degli Stati Uniti, avendo capito che nessun popolo e più libero di una libertà assoluta. Tutti i popoli sono ormai interdipendenti: «L a libertà assoluta è una terri­ bile creatrice di guerre». Quindi commenta: «A ll’idea della libertà

6. Cronache cit., voi. V cit., pp. 447-448. Questo articolo fa parte di un gruppo di lettere intitolate Lettere di un piemontese, indirizzate al « Corriere della sera », ed è intitola­ to 1 verdetti della «grande Vergine». Ma si veda anche II programma per la pace di Wilson f ,a i T l n Z 6i el n0%tr Pro^ ammt doganali, 10 marzo 1918, in: Cronache cit., voi. IV, (1914-1918), Tonno, Einaudi, 1961, pp. 632-636.

7 . 1 nuovi princìpi politici dell’Intesa ed i futuri rapporti economici intemazionali, in- Cronache cit., voi. IV cit., p. 721.

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del popolo eletto egli [Wilson] e noi opponiamo la idea della libertà che è vincolo [...]. Noi vogliamo essere liberi, ma vogliamo anche che gli altri siano liberi, e perciò noi riconosciamo che è sorte comune de­ gli uomini di essere servi gli uni degli altri»9. Se la libertà è vincolo sorge subito la domanda: quale vincolo? Era sufficiente il vincolo po­ sto nei vari progetti di una Lega delle Nazioni, che lasciavano intatta la sovranità assoluta degli Stati?

Nella prima lettera sopra citata, che è del 18 gennaio 1918 quan­ do la guerra è ancora in corso, Einaudi ha già chiaro in mente che i fautori di una Società delle Nazioni pensavano a un’alleanza perpe­ tua o confederazione di Stati, in cui gli Stati alleati o confederati continueranno a restare pienamente sovrani e reciprocamente indi- pendenti. Non pensano, non osano pensare, a un super-stato. Einau­ di, invece, conosce bene la distinzione tra una confederazione di Sta­ ti, di cui c’erano stati tanti esempi nella storia, e la nuova forma di Stato di Stati, lo Stato federale, che era nato per la prima volta sulle coste dell’Atlantico tra le tredici colonie emancipatesi dallo Stato che le aveva create, ed era stato sapientemente elaborato nello scambio di lettere fra i tre autori del Yederalìst.

L ’argomento che Einaudi adduce per giustificare la propria diffi­ denza verso la confederazione è storico. Le confederazioni del passa­ to, nate con tre scopi principali, mantenere la concordia fra gli Stati associati, difenderli contro le aggressioni dagli altri Stati, perseguire scopi d ’incivilimento, hanno generalmente fatto cattiva prova. Cita come esempi la decadenza delle Province Unite nel sec. XVIII e il sogno irreale del Sacro Romano Impero, «tentativo sterile di costitui­ re, sotto l’egida di un unico imperatore, una vera società delle nazio­ ni», la Santa Alleanza, e risalendo indietro di 2000 anni, la Lega del­ le Città greche10. La ragione principale della debolezza delle leghe o confederazioni dipende dal fatto che il potere che a esse viene attri­ buito non è il potere dello Stato, che consiste essenzialmente nella capacità di imporre imposte e nel monopolio della forza (di questi due poteri il primo ha bisogno, per essere esercitato con successo, del secondo). Gli Stati Uniti d’America sono il primo esempio del pas­ saggio, che Einaudi ora auspica anche per gli Stati europei, da una società di Stati ad uno Stato di Stati.

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Il tema delle leghe o confederazioni di Stati era ben noto nel di­ ritto pubblico europeo, mentre ignoto almeno sino alla costituzione degli Stati Uniti era il modello dello Stato federale. Nel De jure natu-

rae et gentium, Pufendorf aveva dedicato un’accurata analisi a quelle

formazioni complesse di stati che aveva chiamato «systemata civita- tum» (prendendo il termine «systema» dal suo maggior maestro, Thomas Hobbes), espressione che il traduttore francese, Jean Bar­ beyrac, aveva tradotto in forma molto più semplice e chiara con «états composés». Ciò che caratterizza i «systemata civitatum», è il fatto di essere uniti fra loro da un «vinculum peculiare» che li fa sem­ brare un «unum corpus», le «civitates» conservando però ciascuna il «summum imperium». Una specie di questi stati composti erano quei «sistemi», le cui parti erano unite tra loro da un «foedus perpe- tuum», essenzialmente a scopo difensivo. La differenza essenziale ri­ spetto ai veri e propri Stati era che l’Assemblea generale dei confede­ rati poteva decidere soltanto all unanimità. Barbeyrac traduceva con linguaggio più familiare: «Confédération perpetuelle ». Mentre Pu­ fendorf adduceva il solito esempio della Lega achea, Barbeyrac ag­ giungeva in una nota gli esempi più attuali delle Province Unite e dei Cantoni svizzeri11.

La più celebre analisi dei sistemi confederali era stata quella com­ piuta da Montesquieu, la dove, parlando delle differenze tra monar­ chie e repubbliche riguardo ai loro rapporti con gli altri stati, aveva sentenziato che «1 esprit de la monarchie est la guerre et l’agrandisse- ment», mentre «1 esprit de la republique est la paix et la modéra- tion». Fondamentale era in questo contesto l’osservazione che il mo­ do con cui le repubbliche provvedono alla loro sicurezza è «la répu- blique fédérative», definita «Société des sociétés»Il 12. Ne è il fonda­ mento una convenzione con la quale più corpi politici consentono di diventare membri di uno Stato più grande, dove peraltro il termine «Stato» e scorretto perche una confederazione non dà luogo a un nuovo Stato. Una «società di società» è esattamente l’opposto dello Stato federale, che può essere definito «Stato di Stati». Bisogna arri­ vare al dibattito del Federatisi, come ho detto, e alla costituzione de­ gli Stati Uniti per trovare il primo compiuto esempio di uno Stato federale, ovvero di uno Stato di Stati.

I l Per il Pufendorf si veda De iure naturae et gentium, libro VII, cap. 5, De formis rerumpublicarum, § 14, e ss., in particolare § 18; per 0 Barbeyrac, Le droit de la nature et de gens, nota al detto § 18.

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Se nel disegno filosofico per una «pace perpetua» Kant, che cono­ sceva la costituzione americana, abbia delineato una confederazione di Stati o già uno Stato federale, è oggetto di discussione. General­ mente si è ritenuto che il suo progetto delinei una confederazione di stati (foedus pacificum, o Völkerbund), mentre recentemente è stato sostenuto con buoni argomenti letterali che, pur con qualche ambi­ guità terminologica, Kant prospetti la formazione, se pure ideale, di uno Stato federale (o Respublica universalis, Weltrepublick, Völker­ staat)13.

Possiamo per ora lasciare sospesa tale questione, e ricordare che il primo progetto di vera e propria federazione di Stati europei è quello proposto da Saint-Simon et Thierry, nel libretto Réorganisa-

tion de la Société européenne (1814), se pure limitatamente all’unione di Francia e Inghilterra.

Lo scopo principale di un’unione di Stati è la pace. Ma quale pa­ ce? La pace esterna o la pace interna? Nelle confederazioni storiche, così spesso evocate, sono presenti entrambi, anche se, in dipendenza dei tempi e delle circostanze, possa prevalere ora l’uno ora l’altro. Nelle riflessioni di Montesquieu, come si è visto, è preminente la pa­ ce esterna: le repubbliche, che erano Stati in prevalenza piccoli (dopo la repubblica romana la prima grande repubblica saranno gli Stati Uniti d’America) dovevano difendersi dall’aggressività dei grandi stati monarchici, unendosi. Nell’età contemporanea, alla quale si ri­ feriscono le riflessioni di Einaudi, e che sembra concludere tragica­ mente (ma in realtà non è che un inizio) tre secoli di guerre fratricide, lo scopo principale di un’unione di Stati è la pace interna. Il proble­ ma da risolvere non è tanto quello di difendere l’Europa dal resto del mondo (il modo è ancora in gran parte europeo), quanto di difenderla da se stessa. Ormai la confederazione si pone non più come sistema di difesa di piccoli Stati (gli Stati europei non sono piccoli) dall’ag­ gressività dei grandi Stati, monarchie o repubbliche non importa, di cui è costituito l’ordine europeo. Non mancheranno progetti di unio­ ne europea anche a scopo di difesa; la Paneuropa del conte Couden- hove Kalergi nascerà qualche anno più tardi principalmente per pro­ teggere l’Europa dal pericolo russo; ma è indubbio che, nel momento in cui si affacciano i vari progetti di società internazionale, l’obietti­ vo principale è la pace interna, com’era del resto il principale obietti­

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vo del progetto kantiano, nato dall’inizio delle guerre napoleoniche. Sulla distinzione tra confederazione di Stati e Stato federale Ei­ naudi ha le idee chiare. Constata, da un lato, la contraddizione tra il volere gli Stati Uniti d’Europa e tutti i discorsi sulla Società delle Nazioni, in cui gli Stati associati pretendono di continuare a restare Stati, e, dall altro, 1 inanità di ogni tentativo di associazione che con­ tinui a restare prigioniera della logica della sovranità nazionale. Il pri­ mo degli articoli citati si chiude con queste parole: «La guerra presen­ te e la condanna dell unita europea imposta colla forza di un impero ambizioso; ma è anche lo sforzo per elaborare una forma politica di ordine superiore»14.

Quale sia questa forma di ordine superiore non è in questi primi scritti ulteriormente chiarito. Nella conclusione Einaudi parla di «su­ periore organo statale» che solo può vincere l’anarchia internaziona­ le. Quando la guerra non è ancora finita e si erge contro l’idea dello Stato-potenza degli imperi centrali l’idea di una futura giustizia in­ ternazionale, afferma: «Noi con orgoglio possiamo opporre alla con­ cezione del super-Stato medio-europeo [...] la concezione di un orga­ nismo statale, in cui le nazioni associate sono veramente uguali, per­ ché in ognuna di esse già è profondamente radicato il principio della libertà del cittadino e dell’uguaglianza del cittadino allo stranie­ ro »15. Poco più oltre afferma con una certa solennità che il super- Stato europeo avrà la prevalenza se si riuscirà ad attuare l’idea di «uno o di parecchi organismi statali di ordine superiore in cui le pic­ cole nazionalità potranno trovare difesa da uguali a uguali»16 17.

Ciò che è chiaro nel pensiero di Einaudi sin dall’inizio è che la

conditio sine qua non di questo ordine superiore non ancora ben defi­ nito è la sconsacrazione e quindi l’abbattimento del dogma della so­ vranità nazionale che è «massimamente malefica» ed ha una «poten­ za diabolica»1'. (A chi conosce anche gli ultimi scritti einaudiani, non sfuggirà che la famosa contrapposizione fra la «spada di Satana» e la «spada di Dio» del discorso all’Assemblea costituente ha radici lontane). Perché malefica? Perché satanica? La risposta a questa do­ manda è di una stringatezza così essenziale da sbarrare la via ad ogni ulteriore domanda. La formulo con mie parole in questo modo: so­

14. Cronache cit., voi. V. cit., p. 948. 15. Ivi, p. 951.

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vranità significa non aver al di sopra di sé alcun superiore; la sovrani­ tà appartiene soltanto a chi non ha alcun potere sopra di sé. Ma chi può avere nessuno al di sopra di sé, nessun superiore, se non chi pos­ siede il dominio del mondo? Il sovrano di uno Stato, cioè di una par­ te di mondo, per quanto grande esso sia, per il solo fatto che vive in una società di altri Stati, s’intende di altri enti sovrani, non può non avere un potere limitato. Anche se nessuno degli altri Stati ha una potenza superiore, è altrettanto vero che non tutti gli altri stati sono a lui inferiori. Il solo fatto che vi siano Stati non inferiori vinco­ la la sovranità di ognuno. In altre parole, la sovranità assoluta non esiste di fatto. È auspicabile che esista il meno possibile anche di di­ ritto, il che può avvenire soltanto riducendo il numero degli Stati so­ vrani: «La verità — scrive Einaudi — non è il vincolo, non la sovra­ nità degli stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non è la loro indipendenza assoluta»18. In altre parole: la sovranità asso­ luta sarebbe «vera», sarebbe una verità di fatto solo se ci fosse, il che non è auspicabile, un solo signore della terra e del mare.

La battaglia che Einaudi sta combattendo nell’ultimo anno di guerra è una battaglia su due fronti: contro la fragilità e l’insufficien­ za di una semplice associazione di Stati e contro l’idea dello Stato- potenza di cui la Germania è sempre stata assertrice, e il cui definiti­ vo abbattimento è lo scopo immediato della guerra. Le due battaglie sono strettamente collegate. Vana sarebbe la distruzione dello Stato- potenza in nome di una concentrazione liberale dei rapporti tra indi­ vidui e Stati e tra l’uno e l’altro Stato, se poi non si riuscisse a instau­ rare un ordine capace di superare quel principio — la sovranità asso­ luta —, da cui nasce lo Stato-potenza.

L ’idea di questo ordine internazionale gli viene suggerita dall’ac­ cordo concluso il 12 maggio 1918 al quartiere generale tedesco fra Germania e Austria, che sembra preludere alla futura unificazione dei due Stati, al super-Stato dell’Europa centrale. Commenta: «Per vincere il nuovo super-Stato non basta la forza delle armi, fa d ’uopo altresì la forza di un’idea più alta, più perfetta di quella dei nostri avversari»19. Per dar forma concreta a questa idea più alta, Einaudi guarda con crescente ammirazione alla storia degli Stati Uniti e a quella dell’Inghilterra. La prima gli offre il modello dello Stato

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rale, che era nato proprio dal superamento dell’iniziale confederazio­ ne delle tredici colonie. La seconda gli offre il modello del Common­ wealth, che è una confederazione sui generis (una tipica forma, avreb­ bero detto gli antichi scrittori di diritto pubblico, di «res publica irre­ gularis». Per trovare la fonte di questo modello bisogna risalire un po’ più indietro, agli articoli che Einaudi scrive nel gennaio 1915, quando la guerra infuria ormai da qualche mese e non vi può più esse­ re alcun dubbio che si tratti di una lotta mortale fra Inghilterra e Germania per la supremazia europea (e di conseguenza mondiale). Questi articoli studiano la graduale trasformazione dell’Inghilterra da impero coloniale in comunità di ex-colonie, e mirano a contrap­ porre questo processo di dissoluzione incruento del più grande impe­ ro del mondo al processo contrario attraverso cui la Germania tenta di formare un nuovo impero coloniale: «Se vogliamo conservare — commenta — la speranza di essere un giorno i creatori di una nuova civiltà più perfetta, abbiamo bisogno che si rafforzino nel mondo le forme più perfette e libere di organizzazione politica, tra le quali niente di più meraviglioso, di più spontaneo, di più vivo e mutevole, di più atto a suscitare la nostra emulazione, oggi esiste dell’impero britannico»20.

La visione della storia di Einaudi è dominata dalla idea della lotta perpetua tra le forze morali e le forze materiali, e dal rifiuto radicale di ogni interpretazione materialistica della storia, da quella in parti­ colare, secondo cui i grandi eventi della storia umana, come la guerra europea, sarebbero determinati da cause economiche. Al gruppo di lettere di Junius sulla Società delle Nazioni e contro la sovranità na­ zionale è stato aggiunto in seguito uno scritto del giugno 1920, inti­ tolato La guerra tra i due ideali continua. Vi si legge: «Non fu econo­ mico il fondamento primo della guerra tra potenze. Fu nazionale. La guerra fu un combattimento tra opposti ideali e morali, fu il crogiolo in cui si elaborano i germi di nuove concezioni politiche». Più oltre: «La guerra fu uno sforzo sostenuto per ricreare l’unità spirituale del­ l’Europa [...] I giovani popoli [...] combattevano perché essi avevano un’idea di Stato da difendere e reputavano che l’imperatore tedesco fosse l’incarnazione dell’idea contraria. Erano venuti a debellare l’Anticristo in terra. Per quanto la guerra sia finita ormai da due an­ ni, la lotta tra il bene e il male non è finita, anche se il nemico da

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abbattere non è più la Germania, e non è neppure la Russia comuni­ sta. Il nemico è in noi»21 22. Come non ricordare l’articolo che Croce scriverà molti anni più tardi alla fine della seconda guerra mondiale,

L'Anticristo che è in n o li12. Che ci sia stata una comunanza più che di idee di atteggiamento spirituale di fronte alla storia, ai grandi pro­ blemi del Bene e del Male, fra i due maggiori maestri della nostra ge­ nerazione, è noto, ma non è forse ancora stato sufficientemente ap­ profondito. Quanto diverso l’atteggiamento scettico, ironico, disin­ cantato, negli stessi anni, di Pareto, che non avrebbe esitato a consi­ derare la dichiarazione einaudiana su gli scopi di guerra degli alleati contro gli imperi centrali (alleati fra l’altro con il più autocratico degli imperi, la Russia degli Zar) come un bell’esempio di «derivazione»! Quando Croce scrisse l’articolo sull’Anticristo, erano passati ven- t’anni, ma il nemico era ancora una volta lo stesso: il negatore della libertà e il nuovo «ideale di morte», scrisse, «ora si chiama totalitari­ smo, partito unico e obbedienza al partito»23.

Vano però sarebbe cercare negli scritti di quegli anni una compiu­ ta formulazione degli istituti che avrebbero dovuto costituire il nuo­ vo ordine internazionale. Quando Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati pubblicarono il loro libro, Federazione europea e Lega delle Nazioni (1918), ove sostenevano l’idea degli Stati Uniti d’Europa contro co­ loro che ritenevano essere sufficiente l’integrazione economica e con­ tro le varie proposte dell’internazionale socialista24, Einaudi ne scrisse una recensione su «La Riforma sociale», dove espresse il suo dissenso, sostenendo che una federazione europea senza Inghilterra sarebbe stata troppo ristretta, ed estesa a tutti gli Stati europei sareb­ be stata troppo ampia. Si limitò a proporre almeno in un primo mo­ mento diverse creazioni di Stati «latini, germanici, slavi d ordine più elevato dei piccoli stati europei, che tutto fa presumere destinati a diventare stelle di seconda o terza grandezza»25.

21. Cronache cit., voi. V cit., p. 975 e p. 978.

22. Questo articolo apparve primamente in «Quaderni della Critica», n. 8, 1947, pp. 66-70, quindi in: Filosofia e storiografia, Bari, Laterza, 1948, pp. 313-319.

23. Ivi, p. 317.

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Nel ventennio fra le due guerre l’idea federalistica, come ben no­ to, fece molta strada26. Punto culminante di questa storia fu il Ma­ nifesto di Ventotene, di cui quest’anno si è molto parlato in occasio­ ne del cinquantenario “7 28 *. La ripresa del discorso federalistico da par­ te di Einaudi non si fece attendere. Il 15 settembre 1943 per conto del Movimento (non ancora partito) liberale italiano, pubblica un ar­ ticolo Per una federazione economica europea2*. Dopo l’8 settembre si era rifugiato in Svizzera“2. Nessun paese più della Svizzera costi­ tu ta una sollecitazione a un ripensamento della questione federale. Già in un articolo del 15 agosto, scritto in Italia ma pubblicato sol­ tanto il 30 dicembre 1943 su un giornale della Svizzera italiana, Di

alcuni insegnamenti della Svizzera nel momento presente, aveva soste­ nuto che «occorre spogliare a poco a poco dei suoi attributi il nemico europeo numero uno, lo Stato perfetto»30. Anche l’ambiente dei profughi europei era particolarmente propizio alla discussione sul fu­ turo dell Europa. Il biografo di Einaudi, Riccardo Faucci, riporta una nota di diario, datata 10 maggio 1944, in cui Einaudi parla di riunioni di federalisti provenienti da varie parti d’Europa, cui egli partecipa su invito di Ernesto Rossi, anche lui esule in Svizzera (ma a Ginevra, mentre Einaudi è a Basilea).

Il carteggio Einaudi-Ernesto Rossi permette di seguire passo pas­ so il crescente interesse einaudiano per il problema del federali­ smo31. Superfluo ricordare che Ernesto Rossi insieme ad Altiero

26. Uno degli episodi di maggior rilievo di questa storia è lo scritto di Ph. Kerr

(Lord Lothian), Pacifism is noi enough, nor patriotism either, London, 1935; trad. it.: L ’a­ narchia intemazionale, in: Il federalismo. Antologia e definizione, a cura di M.Albertini Bo­ logna, 1979. Vedi la raccolta di scritti Lord Lothian. Una vita per la pace, a cura di G .’ Gu- derzo, Firenze, La nuova Italia, 1986. Sull’intera vicenda vedi A. Agnelli, Da Couden-hove Kalergi al Piano Briand, in: L ’idea dell’unificazione europea cit., pp. 40, 57, e gli altri scritti compresi nel volume.

27 . Me n’ero io stesso occupato in uno scritto, Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza, in: L ’idea dell’unificazione europea cit., pp. 221-237, quindi ri­ stampato come prefazione all’ultima ristampa del Manifesto: A. Spinelli, Il Manifesto di Ventotene, Bologna, Il Mulino, 1991. Il mio scritto alle pp. 9-27.

28. Ripreso nell opuscolo I problemi economici della federazione europea, stampato a Capolago, sul quale vedi oltre.

so8Forno *n Svizzera di Einaudi, notizie e documenti, Einaudi e la Svizzera, a cura di G. Busino, «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», voi. V, 1971, pp. 352-422' ; . ',[]\ (£ra88° questa ed altre notizie sul soggiorno di Einaudi in Svizzera da R. Faucci Einaudi, Tonno, Utet, 1986, pp. 321 e sg. L ’articolo citati) reca il n. 3137 nella Bibliografia degli scritti di Luigi Einaudi cit., p. 611. Fu pubblicato nella «Svizzera italiana» (Locamo), III, nn. 24-25, 30 dicembre 1943, pp. 485-498.

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Spinelli era stato l’autore del Manifesto di Ventotene. Già il 12 gen­ naio 1941 dal confino di Ventotene Rossi chiedeva a Einaudi notizia di una pubblicazione apparsa su una rivista americana, The nature of

a world peace. Einaudi risponde che la rivista non gli ha mandato gli estratti e commenta: «H o ragione di ritenere che il filo del discorso sia ancora quello delle vecchie lettere di Junius, con qualche varian­ te»32. La prima lettera che Rossi scrive a Einaudi dall’esilio svizzero il 23 agosto 1943 in risposta a una di Einaudi da Basilea del giorno prima, comincia subito dall’argomento che sta a cuore a entrambi: «Proprio stasera, mentre leggevo nella biblioteca cantonale il libro di Clarence K. Streit, nella traduzione francese Union ou chaos (1939), pensavo a lei». Gli fa sapere che ha ripreso subito gli studi per appro­ fondire l’esame dei problemi dell’unità europea. Cita varie opere sul tema che ha trovato nella Biblioteca di Lugano e mostra di apprezza­ re in particolar modo lo Streit. Informa il suo corrispondente che in Svizzera vi sono due associazioni che si occupano della federazione europea, una a Ginevra e una nella Svizzera tedesca33. Nella rispo­ sta dell’8 novembre Einaudi lo informa di aver scritto un opuscolo di propaganda sull’argomento per il gruppo liberale di Roma ma di non averne saputo più nulla. E commenta: «M a certo Ginevra è il luogo ideale per studi di questo genere»34. Lo consiglia di mettersi in contatto con Ròpke di cui ha molta stima. Aggiunge qualche consi­ glio bibliografico. Lo invita a studiare il tedesco e a leggere Burck­ hardt, il maggior storico della Svizzera tedesca, ricordandogli che questo grande storico aveva criticato l’unità tedesca fondata da Bi- smarck «e oggi si vede di quanto male sia stata la genitrice». Poi pre­ cisa: «In una federazione europea, che non sia lo strumento di uno stato dominante, come fu la Germania prussianizzata da Bismarck, bisogna trovar modo di salvare la sovranità politica, religiosa, cultu­ rale, dei piccoli stati. Deve essere una faccenda puramente economi­ ca e limitata ad alcuni argomenti ben definiti35. Il 1° luglio 1944 Rossi gli manda una copia del Manifesto di Ventotene, allora pubbli­ cato, con questa dedica: «A Junius che, nell’ormai lontano 1918, ha seminato in Italia le prime idee federalistiche per le quali noi oggi combattiamo». Intanto Einaudi ha scritto l’opuscolo I

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blemì economici della federazione europea, che viene pubblicato presso le nuove edizioni di Capolago a cura del Movimento federalista euro­ peo. Ne manda una copia a Rossi che lo ringrazia con una lettera del

17 agosto e si augura che venga pubblicato al più presto36.

Nell’opuscolo Einaudi non affronta direttamente il problema del- la struttura politica dell Europa. Non usa mai l’espressione del Mani­ festo, Stati Uniti d Europa, ma sempre soltanto l’espressione «Euro- pa federata». Ma gli esempi ricorrenti degli Stati Uniti e della Svizze­ ra non lasciano dubbi sul modello di Stato che ha in mente.

Lo scopo che assegna alla federazione è quello di liberare l’uomo dalla paura della guerra, sia interna sia esterna. Parla della federazio­ ne europea «che vuole togliere le cause delle guerre in Europa»37. Nella conclusione è evidente che ha in mente la Svizzera, quando scrive che «essa mira alla meta [...] di liberare l’uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio piccolo territorio contro i peri- coli di aggressioni nemiche, e a lui, così liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo territorio, alla vita universale»38.

Lo scopo principale del saggio è di trattare una materia ben più difficile, e non meno essenziale, che richiede una competenza specifi­ ca: il problema della federazione dal punto di vista economico. Si tratta del problema relativo alla distinzione tra i poteri che spettano allo Stato centrale e i poteri che spettano agli Stati membri in mate­ ria economica. La divisione deve essere tale che « l’autorità federale abbia soltanto il potere d ’attendere ai compiti compresi nell’elenco, tutti gli altri non elencati rimanendo di competenza dei singoli Stati federati» . L obbiettivo di questa distribuzione dei diversi poteri deve mirare a ridurre al minimo necessario il numero dei compiti at­ tribuiti allo Stato centrale. Non è il caso di esaminare qui punto per punto le proposte einaudiane. Il tema è trattato con la solita precisio­ ne analitica e tecnica, arricchito da esempi ricavati dalla storia e dalla vita quotidiana. Pur essendo meno noto di altri scritti einaudiani sul tema che stiamo discutendo, ritengo che questo opuscolo sia uno dei

36. Notizie sul rapporto Einaudi-Ernesto Rossi e in genere sulla storia dei dibattiti del tempo sull argomento degli Stati Uniti d’Europa, in: C. Rognoni Vercelli, Mario Alberto Rollter, un valdese federalista, Milano, Jaca Book, 1991.

io C’t0 <^a^a racc°lta di scritti einaudiani, La guerra e l'unità europea cit., p. 55. 38. Ivi, p. 72. 39

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maggiori contributi dati dall’economista al problema eminentemente co­ stituzionale della formazione di uno stato federale, e anche uno degli scritti di maggior rilievo nel dibattito del tempo tra federalisti, general­ mente più impegnati sul fronte politico che su quello economico.

Dopo la fine della guerra, Einaudi tornerà spesso sul tema dei li­ miti dello Stato sovrano, di cui è sempre più chiara la responsabilità nello scatenamento delle guerre. Tra le varie forme di pacifismo, quello di Einaudi appartiere alla specie che ho chiamato «pacifismo giuridico», secondo cui la principale causa delle guerre è l’anarchia internazionale, il fatto cioè che i rapporti fra Stati sono sempre rap­ porti in ultima istanza di forza, che conducono inevitabilmente a quella prova di forza suprema e decisiva, che è la guerra. Richiamo ancora la vostra attenzione su un articolo del giugno 1945, a guerra finita, in cui ribadisce la sua vecchia convinzione che la sovranità as­ soluta degli Stati è stata ancora una volta alla radice delle due guerre mondiali, onde «non avremo pace finché non l’avremo strappata dal­ l’animo nostro»40. Siccome la sovranità assoluta non è pensabile se non esiste l’indipendenza economica, chi vuole la sovranità vuole an­ che l’autosufficienza, ma chi vuole l’autosufficienza vuole anche la conquista senza fine di tutto il mondo conosciuto, vuole, in buona sostanza la guerra perpetua. Dal dogma della sovranità discende il principio del non-intervento. Ma è proprio contro il principio del non intervento che è stata combattuta la seconda guerra mondiale, e in difesa del principio che nessuno può considerarsi sicuro se non esiste nel mondo intero un comune modo di pensare e di operare nei rap­ porti fra individuo e Stato, fra Stato e Stato, fra Stato e regione, fra Stato e Chiesa, fra Stato e associazioni. Quanto il problema del non­ intervento fosse duro a morire lo dimostra il fatto che è rimasto nello Statuto delle Nazioni Unite. Ma anche lo Statuto delle Nazioni Uni­ te, nonostante un notevole rafforzamento dei vincoli fra Stati sovra­ ni, non ha superato il principio della sovranità dei singoli Stati. Le stesse conseguenze Einaudi traeva dal dibattito intorno alla messa al bando della bomba atomica. Tutti a parole dichiarano di opporsi alla bomba atomica, ma, ancora una volta, «è giocoforza riconoscere che, finché si rimanga nei confini del concetto degli Stati sovrani, la proi­ bizione dell’arma atomica è pura utopia»41 (come, del resto, ha be­ nissimo dimostrato il seguito della storia sino ai giorni nostri). «Chi

40. La teoria del non intervento (20 marzo 1948), che cito da Einaudi, Il buongoverno, a cura di Ernesto Rossi, Bari, Laterza, 1954, p. 631.

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vuole la pace — ripeteva in un articolo dell’aprile 1948 — deve vole­ re la federazione degli Stati, la creazione di un potere superiore a quello dei singoli Stati sovrani». La critica che egli aveva mosso alla Società delle Nazioni ripete nei riguardi deU’ONU, definendola un «non efficace strumento di pace nel mondo»42.

La sintesi finale di queste idee si può leggere nell’appassionato e accorato discorso che Einaudi tenne all’Assemblea costituente il 19 luglio 1946, in occasione dell’approvazione del Trattato di pace, fir­ mato a Parigi il 10 febbraio. Il discorso di Einaudi seguiva a quello di Croce. Cerco di raffigurarmi l’emozione dell’Assemblea quando furono pronunciate le famose parole: «Il problema dell’unità europea non può essere risolto se non in due maniere: o con la spada di Satana o con quella di D io»43.

Le guerre europee sono state in realtà guerre di religione, guerre civili e così sarà la terza se non si porrà fine alla guerra come soluzio­ ne dei conflitti fra Stati. «Diciamo alto che noi riusciremo a salvarci dalla terza guerra mondiale solo se noi impugneremo per la salvezza e l’unificazione dell’Europa, invece della spada di Satana, la spada di Dio; e cioè, invece dell’idea della dominazione con la forza bruta, l’idea eterna della volontaria cooperazione per il bene comune»44. Dopo aver ripetuto che l’unica soluzione è la formazione degli Stati Uniti d Europa, conclude: «Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi a informare la propria condotta all’ideale della li­ bertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l’utopia e la morte, fra l’utopia e la legge della giungla»45.

L ’idea della federazione europea, che avrebbe affratellato Stati che per secoli avevano combattuto fra loro guerre sanguinose, diven­ tava il simbolo dell’eterna lotta tra libertà e servitù, e insieme l’attua­ zione concreta di quella visione della storia come storia della libertà che Croce aveva celebrato quando aveva cominciato a scrivere la sto­ ria d Europa del secolo X IX ispirandosi alla grande tradizione del pensiero liberale, a quel pensiero liberale che li aveva accomunati lungo il corso della loro lunga e nobile vita e aveva illuminato le no­ stre menti durante gli anni della dittatura46.

42. Chi vuole la pace? (4 aprile 1948) cit., p. 640.

43. Lo cito dalla raccolta La guerra e l ’unità europea cit.. p. 75. 44. Ivi, p. 76.

45. Ivi, p. 79.

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II primo dopoguerra in Europa:

trionfo o crisi dello Stato nazionale?

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dell’Euro-pa che avevano le loro radici oggettive nell’internazionalizzazione della vita economica.

Di qui l’opposto atteggiamento di Salvemini e di Einaudi di fron­ te alla proposta wilsoniana di ricostruzione dell’ordine internazionale ed europeo. In essa il pugliese vide la speranza dell’Europa; il pie­ montese lo specchio delle sue illusioni. E l’uno considerò la Lega del­ le Nazioni l’assise possibile della democrazia internazionale; l’altro l’arena dei futuri conflitti in primo luogo europei. Nel suo libro Dal

Patto di Londra alla Pace di Roma Salvemini affermò di aver conside­ rato l’interventismo democratico come «il programma di Mazzini che rinasceva a un tratto dal sepolcro, in cui sembrava sotterrato da cin­ quantanni»1 e in Guerra o neutralità? disse che il grande conflitto poneva l’alternativa fra un sistema che, se vittorioso, avrebbe ridato vita a un nuovo Sacro Impero della nazione germanica, circondato da una «pleiade incoerente e impotente di staterelli vassalli» e un si­ stema invece che, se vittorioso, avrebbe invece portato alla costitu­ zione di un ordine di stati sovrani nazionali liberati finalmente dal- l’incubo dell’oppressione dei più deboli da parte dei più forti1 2. Data questa prospettiva, si può ben capire come Salvemini abbia visto in Wilson un Mazzini redivivo.

A mettere in luce il punto di vista di Einaudi, voglio qui solo ri­ cordare un articolo del 28 dicembre 1918, in cui egli rivolse una criti­ ca frontale al «dogma funesto della sovranità assoluta»3 e il discorso da lui tenuto all’Assemblea costituente il 29 luglio 1947, dove, riflet­ tendo sul significato della prima guerra mondiale in relazione alla se­ conda, sostenne che la storia aveva posto ormai all’ordine del giorno, fin dal 1914, il problema dell’unificazione europea. Di questo impul­ so la prima guerra aveva rappresentato la «manifestazione cruenta» e la seconda la sua ancor più tragica continuazione, condotta con la spada dell’«Attila moderno». Il bisogno di unificazione dell’Europa, non potendo farlo in materia costruttiva, si era espresso attraverso la spada tragicamente fallimentare di Satana4. Einaudi guardò, per parte sua, fin dal 1918 al modello costituito dagli Stati Uniti d ’Ameri­ ca; e con lui erano, in una comunanza di ispirazione fondamentale, an­ che Giovanni Agnelli e Attilio Cabiati, i quali all’ispirazione statuniten­ se univano quella che a loro veniva dal Commonwealth britannico.

1. G. Salvemini, D al Patto di Londra alla Pace di Roma, Torino, 1925, p. XXI. 2. G. Salvemini, Guerra o neutralità?, Milano, 1915, pp. 13-14.

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2. L ’ordine europeo uscito dal conflitto mondiale e sancito dai trattati di pace del 1919 rappresentò la sconfitta sia degli ideali mazziniano-wilsoniani di Salvemini sia di quelli federalistici di Luigi Einaudi.

Crollarono infatti bensì gli imperi autoritari e multinazionali, co­ me auspicava Salvemini, ma un tale crollo non portò affatto ad una Europa mazziniano-wilsoniana, bensì al trionfo delle vecchie volpi o dei vecchi lupi come Lloyd George e Clemenceau, all’umiliazione dei lupi senza unghie come i nostri statisti, che reclamarono invano l’a­ dempimento dei dettati del Trattato di Londra, alla pace cartaginese imposta dai vincitori sui vinti, alla costituzione di una pleiade di Sta­ ti nazionali sovrani minori, subito indotti a farsi clienti degli Stati più forti. Quale fosse lo spirito dei Clemenceau e dei Lloyd George lo fissò in parole indelebili Keynes fin dal 1919 nel suo saggio su Le

conseguenze economiche della pace. «L a vita futura dell’Europa — scrisse il grande economista — non li riguardava»; e continuava di­ cendo che le loro preoccupazioni «si riferivano alle frontiere e alle nazionalità, all’equilibrio delle forze, agli ingrandimenti imperialisti­ ci, al futuro indebolimento di un nemico forte e pericoloso, alla ven­ detta e a riversare dalle spalle dei vincitori su quelle dei vinti gli inso­ stenibili pesi finanziari»5. In un altro passo, affermò: «il trattato non comprende alcuna clausola che miri alla rinascita economica del­ l’Europa, nulla che possa trasformare in buoni vicini gli Imperi cen­ trali sconfitti, nulla che valga a consolidare i nuovi Stati dell’Europa, nulla che chiami a novella vita la Russia; esso non promuove neppu­ re, in alcuna guisa, una stretta solidarietà economica fra gli stessi Al­ leati»6. E ancora: il trattato di pace fu «figlio degli attributi meno degni di ognuno dei suoi genitori, senza nobiltà, senza moralità, sen­ za intelletto»7.

Se mettiamo a confronto i giudizi di Keynes con il tipo di ordine internazionale dell’Europa uscita dai trattati di pace possiamo ben vedere come essi fossero pienamente corrispondenti alla realtà.

La pace e i trattati che la sancirono risposero alle seguenti «logi­ che». Primo. Furono l’espressione anzitutto degli interessi della Francia e della Gran Bretagna, diretti gli uni a stabilire l’egemonia francese sul continente europeo e gli altri al consolidamento dell’im­

5. J.M . Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Torino, 1983, p. 57. 6. Ivi, p. 160.

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pero inglese. Secondo. In cambio del via libera alla politica insensata­ mente punitiva nei confronti della Germania da parte dei francesi, che non vollero fare differenza fra l’imperatore Guglielmo e i rappre­ sentanti della nuova Germania apertasi alla democrazia dopo la scon­ fitta, gli inglesi ottennero di far la parte del leone in un settore per loro vitale come il Medio Oriente. Terzo. La Francia mirò a consoli­ dare in ogni modo la sua posizione di maggiore potenza continentale dopo il crollo dei tre grandi imperi di Germania, Austria-Ungheria e Russia. E perseguì questo obiettivo attraverso l’annichilimento del­ la Germania e una politica di alleanze e di egemonia con i nuovi Sta­ ti, tutti di secondo rango, nati dal crollo degli imperi multinazionali. Quarto. Francia e Inghilterra fecero ogni sforzo per opporre alla Rus­ sia sovietica una invalicabile barriera.

In un simile quadro, quale ruolo venne a giocare nel dopoguerra europeo lo Stato nazionale? Esso trionfò certamente come mai in precedenza nella storia del continente, ma i modi e le conseguenze del suo trionfo furono tali da preparare la seconda grande catastrofe che colpì l’Europa in questo secolo. Il problema del rapporto fra trionfo e crisi dello Stato nazionale in Europa va considerato in rela­ zione a due dimensioni, diverse fra loro eppure strettamente correla­ te: i rapporti creatisi fra i singoli Stati per un verso e per l’altro il contenuto istituzionale, ideologico ed etico di questi Stati, insomma, 10 «spirito» di questi Stati nazionali.

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a queste niente affatto graditi, reintroducendo, pur in scala minore, il principio proprio degli imperi multinazionali fondati sul dominio di una o più nazionalità dominanti. Il terzo elemento, conseguenza dei primi due, fu che il nuovo ordine da un lato attivò immediata­ mente il meccanismo della formazione di sistemi egemonici, dei cor­ doni sanitari, della dipendenza degli Stati non in grado di esistere per sé nei confronti degli Stati più forti a cui si chiedeva di diventare ga­ ranti della difesa di una sovranità forzatamente limitata, dall’altro non riuscì a mettere fine alle rivendicazioni delle minoranze oppres­ se. Tutto ciò mostra bene come il trionfo dello Stato nazionale nel primo dopoguerra fosse affetto dai germi della propria crisi.

3. Fin daH’immediato dopoguerra, fu possibile capire come l’ordi­ ne internazionale europeo fosse minato nelle sue strutture.

Una mina era costituita ormai dalla ormai evidentissima dipen­ denza economica dell’Europa da quegli Stati Uniti, grazie al cui aiuto finanziario e militare soltanto Inghilterra, Francia e Italia erano riu­ scite a piegare gli imperi centrali. Il che stava a indicare che anche quelle che apparivano essere ancora le grandi potenze europee in real­ tà non disponevano più di quell’attributo che rende la sovranità di uno Stato piena, vale a dire la disponibilità di adeguate forze mate­ riali proprie. Fu proprio la consapevolezza di questa realtà che indus­ se nel 1923 l’austriaco Coudenhove-Kalergi a porre nel 1923 in Pan-

Europa la questione in questi termini: «Oggi l’Europa non è più il centro della terra [...]. Può l’Europa nella sua frammentazione politi­ ca ed economica mantenere la sua pace e la sua indipendenza di fron­ te alle crescenti potenze mondiali extra-europee o essa è costretta, per conservare la propria esistenza, ad organizzarsi in federazione di Stati?»8.

Una mina era il fatto che la pace europea nei termini stabiliti dai Clemenceau e dai Lloyd George, in quanto pace cartaginese, fosse basata sulla forza. Essa poteva durare solo nella misura in cui inglesi e francesi avessero la volontà e la capacità di mantenere la Germania, divenuta fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento il cuore economico, industriale, dell’Europa in una condizione di minorità. La pace carta­ ginese aveva seminato in Germania denti di drago. E fu la cieca boria dei francesi, sostenuta dagli inglesi, a fornire l’inchiostro alla penna dell’Attila moderno, il quale nel Mein Kampf additò ai tedeschi il compito di «sottostare a qualunque privazione» pur di arrivare alla

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