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Il problema della definizione dei confini 62

Ci si potrebbe chiedere: quale utilità ha la digressione sull’ontologia simbolista (di cui le teorie istituzionaliste sono la più diretta promanazione organizzativa) finora proposta, nel definire un quadro esaustivo sul concetto di confine organizzativo? Facendo nostra la posizione di Gagliardi, riteniamo che “il principale vantaggio derivante dall’utilizzare la prospettiva simbolica nello studio del rapporto tra l’organizzazione e l’ambiente è che esso illumina il carattere ambiguo di tale rapporto118”.

Le teorie simboliste, per le motivazioni che verranno presentate fra poco, disancorano definitivamente l’analisi dei confini organizzativi da criteri di prossimità (non necessariamente geografica, ma anche, ad esempio, informativa) in favore di una visione funzionale del campo organizzativo. L’espressione “funzionale” ricorda in parte quel senso di comunità biologica proprio delle teorie sulle popolazioni organizzative di cui Hannan e Freeman piuttosto che Aldrich sono i massimi esponenti, ma, a differenza di queste, si concentra su gruppi di organizzazioni in cui partner, gruppi di regolamentazione e lobby, associazioni professionali nonché orientamenti valoriali e politici vengono considerati forze rilevanti nel definire la

116 Witkin, R. W., e Berg, P. O., Organizational symboling: toward a theory of action in

organizations. 1st International Conference on Organizational Symbolism and Corporate Culture,

Lund, Svezia, Giugno 1984.

117 Morgan, G., Frost, P. J., Pondy, L. R., Organizational Symbolism, in Pondy, L. R., Frost, P. J.,

Morgan G., Dandrige, T. (a cura di), Organizational Symbolism, JAI Press, Greenwich, 1983, pp. 3- 35.

118 Berg, P. O., Gagliardi P., Immagini dell’impresa: lo studio del rapporto tra l’organizzazione e il

suo smbiente nella prospettiva simbolica, in Gagliardi P. (a cura di), Imprese come culture, ISEDI, Torino, 1986, p. 323.

morfologia del campo stesso. Queste considerazioni mettono seriamente in discussione i principi di delimitazione dell’organizzazione ispirati a criteri di natura legal-societaria: organizzazione è qualcosa di diverso da impresa, perché rispetto a quest’ultima ha confini che si articolano lungo relazioni ben più ampie ed “inaspettate” di quelle “prossime”. Per dirla con DiMaggio: “il campo organizzativo è sorto come unità critica che funge da ponte tra i livelli organizzativi e quelli societari nello studio del mutamento delle società e delle comunità119”, è un concetto che invita gli studiosi a considerare “interni” all’organizzazione tutti quegli elementi che, se pur giuridicamente distinti, riconoscono le stesse istituzioni.

Gli effetti delle istituzioni sulle organizzazioni si riflettono dunque nell’adozione di specifiche strutture che, a loro volta, includono o escludono elementi nel campo organizzativo, secondo logiche che i contributi fenomenologici ed interpretativisti di cui l’approccio simbolico si compone ci aiuteranno a comprendere ora.

Ci accingiamo pertanto a descrivere sinteticamente un ultimo concetto-strumento, quello di “cultura”, che servirà per una piena comprensione delle parole che seguiranno. L’attributo “strumento” viene usato non a caso: per parlare di confini in prospettiva simbolica, si è dovuto infatti mettere in campo un’ampia opera di sistematizzazione della selva di filoni che, entro questa prospettiva, si sono sviluppati negli anni. Il risultato, ci si augura, è che i tanti concetti fin qui riproposti (istituzionalismo, legittimazione, pressioni isomorfiche, cultura e campo organizzativi, costruzione sociale della realtà) possano convivere come tanti “attrezzi” in un unico schema interpretativo.

119 DiMaggio, Structural Analysis of Organizational Fields: A Blockmodel Approach, in B. M. Staw e

L. L. Cummings (a cura di), Research in Organizational Behavior, JAI Press, Greenwich Conn., VIII, 1986, p. 337.

Il simbolo120 è considerato proprio l’elemento principale di una famiglia di concetti che si sono col tempo polarizzati attorno all’espressione cultura, proprio perché la seconda condivide il fattore interpretativo che identifica il primo: secondo Pettigrew la cultura è infatti “il sistema di significati pubblicamente e collettivamente accettati, operante per un gruppo determinato in un momento determinato. Questo sistema di termini, forme, categorie ed immagini serve ad interpretare la situazione delle persone a loro stesse121”.

La disponibilità di una microteoria interpretativa focalizzata sui processi di attribuzione di senso ispira la ridefinizione delle organizzazioni concepite come culture, ossia, per dirla à la Schein, come “l’insieme di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi, e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi”122.

La cultura è dunque l’essenza dell’organizzazione: si costruisce di assunti di base, valori e rappresentazioni collettive del mondo che orientano le scelte delle organizzazioni e, al contempo, offrono loro un criterio di distinzione dal contesto. Quest’ultimo, nella postura ontologica in parola, non è oggettivo, ma solo oggettivato, costruito mediante rappresentazioni mentali che condizionano l’azione umana. Il processo di interiorizzazione dei miti è essenziale per dare significato ad un’azione organizzativa che, evidentemente, ha senso solo nel suo contesto di riferimento.

120 Scrive Cohen: “i simboli sono oggetti, atti, rapporti o formazioni linguistiche che rappresentano

ambiguamente una molteplicità di significati, evocano emozioni e spingono gli uomini ad agire”. Cohen, A., Two dimensional man: an essay on the anthropology of power and symbolism in complex society. Routledge & Kegan Paul, London, 1974, p. 23.

121 Pettigrew, A. M., On studying organizational cultures, Administrative Science Quarterly, 24,

1979, pp. 570-581.

122 Schein, E. H., Coming to a New Awareness of Organizational Culture, Sloan Management

È quando iniziamo ad avere una “visione delle organizzazioni come forme espressive e come manifestazioni di funzioni mentali superiori come il linguaggio e la creazione di significato” che avvertiamo l’esigenza di “analizzare anche gli aspetti ideativi e simbolici, perché la cultura non è qualcosa che l’organizzazione ha, ma qualcosa che l’organizzazione è”.

Dal momento che l’ambiente non è dato, esso può essere dunque scelto dall’organizzazione modificando la propria realtà interna, modificando cioè il tipo ed il grado di interiorizzazione delle istituzioni (culturali) disponibili: in questo modo l’organizzazione si sposterà in campi simbolici differenti, e così facendo avrà a disposizione spazi d’azione nuovi, a loro volta rappresentazioni di differenti elementi culturali.

I confini dell’organizzazione diventano pertanto una “questione di definizione, rappresentano cioè qualcosa che viene gestito attraverso l’assegnazione di significati a diversi aspetti della interrelazione con l’ambiente in un determinato momento storico. Circoscrivere il territorio di un’organizzazione implica fondamentalmente attribuire un certo significato ala sua stessa esistenza ed identità, definendone perciò la missione, la sfera d’azione e la posizione relativa in un contesto particolare123”. La concezione dei confini si sposta dunque sul piano dei significati e delle rappresentazioni simboliche e da queste ultime non può prescindere: se uno scambio con il contesto avviene non è certo di beni o servizi, ma di ciò che essi significano e di come vengono interpretati all’interno dell’organizzazione. In questo passaggio l’approccio interpretazionista sembra risolvere con una certa efficacia una problematica importante: dal momento che “i simboli sono oggetti, atti, relazioni o formazioni linguistiche che rappresentano in modo ambiguo una molteplicità di significati, evocano emozioni e spingono gli uomini all’azione124”, essi si trovano in

123 Gagliardi P., Teoria dell’organizzazione e analisi culturale, in Gagliardi P. (a cura di), Imprese

come culture, p. 25.

124 Cohen, A., Two dimensional man: an essay on the anthropology of power and symbolism in

un rapporto ambiguo con i fatti a cui sono legati. Questa ambiguità di fondo può essere risolta (dando effettivamente luogo allo scambio) solo nel momento in cui avviene un processo di raccordo tra sistemi di senso: due o più organizzazioni che interpretano lo stesso fatto in maniera coerente dichiarano implicitamente di accettare le stesse istituzioni allineando campi simbolici interni ed esterni.

Vista in quest’ottica, la questione pare relativamente semplice: scambi ed interdipendenze avvengono con un ambiente che è essenzialmente contesto culturale, ossia un insieme di valori e credenze incorporati o meglio “espressi” da istituzioni. In questo scenario assumono rilevanza prioritaria il significato e le interpretazioni date ai fatti, simboli di “qualcos’altro”. Organizzazioni che interpretano in maniera simile gli stessi fatti procederanno ad un processo di raccordo dei rispettivi sistemi di senso, aprendosi al contempo alla possibilità di una interazione e condividendo i medesimi campi simbolici.

Il salto rispetto alla descrizione dell’organizzazione delle transazioni fatta da Williamson (cap. 1 di questo lavoro) è grande, perché quest’ultimo, parlando di mercato o gerarchia non aveva posto la questione simbolico-interpretativa. Sotto questo punto di vista emerge invece una continuità con il lavoro di Weick125, il quale aveva messo a fuoco chiaramente la necessità di concepire il contesto (e di riflesso i confini dell’organizzazione) partendo dall’analisi del proprio grado di accoppiamento126 con l’organizzazione stessa. Certo, Weick nel proprio lavoro non fa mai esplicito riferimento al concetto di cultura, perché preferisce limitarsi ai processi di attribuzione dei significati, processi che secondo lui sono gli unici a definire l’identità organizzativa.

125 Weick, K. E., Educational organizations as loosely coupled systems. Administrative Science

Quarterly , 21, 1-19, 1976.

126 Un accoppiamento debole indica una situazione in cui più elementi non riconoscono di appartenere

allo stesso contesto, perché ritengono di partecipare a diversi processi di sensemaking. Tale senso di appartenenza è inversamente correlato all’identità organizzativa, ossia a quanto forte è la percezione di un gruppo di essere unico, coeso, stretto attorno ad una missione comune (riecheggiano in questo caso le indicazioni date da Selznick sul ruolo chiave della leadership).

Già nel 1969, lo psicologo sociale americano aveva infatti dato un nome ai processi di significazione vedendo nel sensemaking quell’ordinamento delle esperienze necessario affinché le nostre vite acquisiscano un senso. Effettivamente il

sensemaking emerge perché le organizzazioni esistono essenzialmente nelle menti

dei loro membri, attori costantemente impegnati nell’aggiornare i propri schemi interpretativi, le mappe mentali attraverso le quali si muovono in un mondo continuamente costruito, demolito e ricostruito dalle mappe stesse, le uniche fonti di creazione del mondo fatto così come noi lo concepiamo127.

La teoria di Weick riprende le considerazioni di Berger e Luckmann sulla costruzione sociale (e collettiva) della realtà, mettendo in luce chiaramente che l’ambiente (o contesto) di un’organizzazione non può esistere fino a che quest’ultima non decide di curarsene, non decide di compiere un’operazione di sistematizzazione delle proprie rappresentazioni del mondo. È così che le organizzazioni, i network, i rapporti di potere-dipendenza diventano oggettivi e reali, in una parola, vengono reificate. Nonostante sia difficile sostenere che Weick sia un neoistituzionalista “tout-court”, non si può negare che la sua teoria su sensemaking ed enactment, metta in luce il paradosso di fronte al quale gli attori si trovano a dover reagire ad mondo sociale da loro stessi costruito.

In una situazione in cui il sensemaking agisce nell’interpretazione del contesto, e retroagisce nell’analizzare gli esiti dell’enactment avviato come riflesso di una mappatura mentale della realtà, il nostro mondo diventa un mondo “come se”, un mondo nel quale qualsiasi struttura, qualsiasi confine vengono considerati come se fossero oggettivamente esistenti, e come tali gestiti. In realtà, i concetti stessi di oggettivo e di oggettività, ormai è chiaro, sono oggettivazioni date dalla nostra interpretazione, costruita collettivamente, del mondo.

Considerare i confini per quello che sono, ossia aree di cogenza fra campi simbolici differenti, aiuta a coglierne il carattere ambiguo, e mette in luce l’importanza per le organizzazioni di “lavorare” sui processi di sensemaking collettivo, di quella

“etichettatura” dei fatti da cui dipendono tutti i fenomeni di definizione delle identità e dei confini ad esse associati.