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4.2 Nota metodologica sulle tecniche d’indagine utilizzate 139

4.2.1 Osservazione partecipante 140

La parola osservazione, dal latino observatio-onis, esprime “l’atto di osservare, sia per notare semplicemente (con o senza determinati fini) ciò che si può percepire con l’occhio, talora con l’aiuto di strumenti ottici, sia applicando la mente per formulare

254 Grandori A., Disegni di ricerca in organizzazione, in Costa G., Nacamulli R. C. D. (a cura di),

considerazioni su ciò che si vede, sia infine sottoponendo qualche cosa ad esame, a riflessione, a indagine di varia natura255”.

Pur usando entrambe il lemma “osservazione”, le scienze naturali e quelle sociali partono da concezioni del termine totalmente diverse. Le differenze non stanno nella neutralità del ricercatore (il problema dell’interferenza osservatore-osservato, da cui scaturisce il principio di indeterminatezza, nasce nell’alveo delle scienze naturali), ma nella ripetibilità del fenomeno osservato: già da tempo infatti, a partire dagli esperimenti di Bales del 1951, le scienze sociali hanno dimostrato di poter osservare le interazioni tra individui senza condizionarne l’evoluzione (ad esempio mediante videoregistrazione), ma senza per questo pervenire a nessun tipo di generalizzazione, perché i fenomeni sociali sono sempre diversi tra loro.

Il punto è che quando si studia un’interazione sociale ci si imbatte nella necessità di comprendere gli eventi con una consapevolezza che è propria di che “vive dal di dentro” un certo contesto, al fine di comprendere i vissuti degli attori coinvolti nel fenomeno e catturarne le proprie visioni del mondo e le motivazioni personali. Occorre cioè un grado di partecipazione nel contesto studiato che è necessaria al fine di sviluppare considerazioni davvero cogenti ed innovative.

Parliamo dunque di osservazione partecipante quando elaboriamo una “strategia di ricerca nella quale il ricercatore si inserisce a) in maniera diretta e b) per un periodo di tempo relativamente lungo in un determinato gruppo sociale, c) presso il suo ambiente naturale, d) instaurando un rapporto di interazione personale con i suoi membri e) allo scopo di descrivere le azioni e di comprenderne, mediante un processo di immedesimazione, le motivazioni256”.

Come si intuisce facilmente, il problema della neutralità dell’osservatore è assolutamente superato da questa proposta metodologica in virtù di una comprensione che non deriva automaticamente dall’accuratezza dei protocolli o dalla

255 Enciclopedia Treccani

capacità di isolare gli effetti interattivi tra le variabili analizzate ma che al contrario, e per dirla con Weber, si ha quando si è in grado di vedere il mondo con gli occhi dei soggetti studiati. Il ricercatore non potrà dunque delegare a terzi lo studio del fenomeno (verrebbe meno l’immedesimazione) né evitare di partecipare alla quotidianità del gruppo studiato per un tempo sufficientemente lungo da garantirne una adeguata comprensione.

Nel proprio percorso di studio, il ricercatore deve invece trovare un equilibrio tra quelli che Davis257 ha definito i due opposti del coinvolgimento con gli individui osservati: da un lato il sentirsi “un marziano”, ossia diffidente rispetto alle scene che osserva (per lui solo il frutto di una fuorviante visione del mondo degli individui in analisi) e dall’altro sentirsi un “convertito”, ossia una spugna che ha assorbito ogni aspetto del modo di vedere della comunità in cui si è inserito.

Il principio dell’immedesimazione, punto distintivo dell’osservazione partecipante, affiora nell’insieme di metodologie di analisi agli inizi del ‘900 grazie ai pionieristici studi di Bronislaw Malinowski, antropologo che, durante i suoi studi sulle società primitive delle isole melanesiane, si rese conto di come un indigeno non potesse essere considerato un selvaggio da educare ed occidentalizzare ma un individuo di cui si doveva “afferrare il punto di vista, il suo rapporto con la vita, per rendersi conto della sua visione del suo mondo258”.

Con la scomparsa delle società primitive, il campo di applicazione della metodologia in parola si è andata spostando sulle società moderne, integrando e sviluppando le intuizioni originarie di Malinowski (senza tuttavia modificarne gli aspetti fondamentali) ed arrivando a costruire un corpus di tecniche “etnografiche” facente uso anche di interviste in profondità (strutturate o semi-strutturate) e di analisi documentale.

257 Davis, F., The Martian and the Covert: Ontological Polarities in Social Research, Urban Lifle, 3,

1973, p. 338.

258 Malinowski, B., Argonauts of the Western Pacific,, Routledge & Kegan, London, 1922; trad. it.

Nella visione contemporanea, dunque, un’azione di ricerca di tipo qualitativo si risolve in un’analisi che prende forma integrando tre strumenti fondamentali: osservazione degli usi e dei costumi mediante immedesimazione, studio dei documenti prodotti e ascolto delle motivazioni e dei punti di vista degli attori esaminati.

A differenza delle tecniche quantitative, per l’analisi qualitativa non esiste uno specifico protocollo di indagine, né alcuna definizione metodologica generale che dovrebbe esaurire l’insieme degli iter etichettati come “osservazione partecipante”. Ogni indagine è invece “un flusso irregolare di decisioni, sollecitate dalla mutevole configurazione degli eventi che si succedono sul campo259”, in cui il ruolo del ricercatore, e la sua capacità di interagire con il campo di indagine, diventano essenziali per produrre una conoscenza rilevante sul fenomeno osservato.

Date le sue caratteristiche, l’osservazione partecipante si rivela particolarmente utile quando, per dirla con Jorgensen260, si sa poco di un certo fenomeno (ad esempio, perché molto recente), quando esistono delle forti differenze tra il punto di vista dall’interno e quello dall’esterno (ad esempio perché la lettura del fenomeno è fortemente condizionata dalla provenienza di chi vi partecipa) oppure, al contrario, quando il ricercatore vuole interpretare una realtà della quale egli stesso ha fatto parte261.

Visto il fortissimo focus su quegli elementi della quotidianità che condizionano il fluire dell’azione di una comunità organizzativa, e nel solco della migliore tradizione etnografica, l’osservazione partecipante si è pertanto rivelata negli anni una tecnica di successo nello studio di “culture inesplorate” (studi di comunità) oppure di aspetti

259 Cardano, M., La ricerca etnografica, in Ricolfi, L. (a cura di), La ricerca qualitativa, La Nuova

Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 50.

260 Jorgensen, D. L., Participant Observation, Newbury Park, Sage, 1989, p. 12.

261 Questo tipo di ricerca, che in questo caso diviene autobiografica, si è affacciata solo di recente

sulla scena metodologica internazionale, ma ha comunque dato prova di poter dare contributi significativi come quelli di Scott, Becker o Irwin.

(ossia strati, minoranze e gruppi) presenti in una comunità conosciuta (studi di subculture).

Ora che si sono illustrate le caratteristiche fondanti della tecnica in parola ci si chiede: ogni evento è importante o bisogna selezionare elementi specifici?

Accogliendo la proposta di Blumer262, ogni ricerca, pur squisitamente qualitativa, parte sempre da dei presupposti, da un background di esperienze pregresse che ne hanno generato l’avvio. C’è, in questo alveo di presupposti, la lente con la quale il ricercatore mette a fuoco porzioni del campo di analisi, trascurandone altre. Questa opera di selezione non è un problema. Essa è funzionale all’oggetto studiato e, essendo propria di ogni ricercatore, ne rende originale il prodotto intellettuale: “il ricercatore seleziona gli oggetti di osservazione, decide che cosa chiedere e forgia i suoi interessi nel corso della ricerca stessa. Tutto ciò è in aspro contrasto con i numerosi metodi di ricerca guidati dalla teoria o basati su test delle ipotesi nei quali gli oggetti di osservazione ed i tipi di analisi sono attentamente e chiaramente definiti ancora prima che uno inizi a raccogliere i dati263”.

Nonostante il carattere emergente di questa tecnica di ricerca, non mancano una serie di aree di osservazione “idealtipiche”.

La prima area di osservazione è quella relativa al contesto fisico, ossia agli elementi “visibili” entro cui si svolge il fenomeno sotto analisi. C’è in questa indicazione fondamentale la credenza secondo la quale i simboli di cui si adorna un contesto esprimano le caratteristiche profonde degli attorni che ne animano le dinamiche sociali. Un’accurata descrizione (quanto più scevra possibile da giudizi di valore, evidentemente poco utili alla comprensione del contesto) della scena di osservazione è un elemento chiave in ogni analisi etnografica.

262 Blumer, H., An appraisal of Thomas and Znaniecki’s “The Polish Peasant in Europe and

America”, Social Science Research Council, Bulletin 44, New York, 1939; trad. it. Symbolic Interationism. Perspective and Method, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, 1969.

Ogni spazio fisico costituisce una sorta di contenitore di azioni sociali che definiscono un contesto sociale. Quest’ultimo è l’ambiente umano, ossia il sistema di abitudini che, come l’abbigliamento e gli spostamenti, danno la misura delle metriche demografiche fondamentali della popolazione organizzativa studiata (ruolo, grado di autorità, rilevanza nella gerarchia, grado di condivisione della mission dell’azienda ecc.).

Una volta compreso lo scenario entro cui si svolge l’azione osservata, bisogna studiare quale azione è in corso di svolgimento: si tratta di rivelare una storia che sta andando in scena sul luogo di analisi per effetto delle interazioni fra gli attori.

In primo luogo ci sono le interazioni formali, ossia tutti quei vincoli allo svolgimento dell’azione individuale che sono condivisi in virtù di un qualsiasi modello organizzativo di base (si pensi alle riunioni, ai periodi di riposo, alle barriere gerarchiche, ai meccanismi di generazione e condivisione di conoscenza, al grado di burocratizzazione dell’azienda). In secondo luogo intervengono le interazioni informali, ossia tutti quei piccolissimi assunti che sono così intrinsecamente incastonati con la realtà sociale da essere quasi invisibili, ma da esercitare un’influenza fortissima sull’azione complessivamente studiata. Questi elementi, proprio per la loro volatilità e l’elevata idiosincrasia con il contesto studiato (un contesto che, il più delle volte, non si conosce) è spesso il fattore che “ordina”, dà un senso, ad attività altrimenti difficili da interpretare, perché in qualche modo apparentemente scollegate.

È attraverso la decifrazione di questi frammenti ordinatori che il ricercatore diventa in grado di scremare, elemento dopo elemento, il set di circostanze davvero determinanti nell’interpretazione del proprio caso di studio.

Da ultimo è fondamentale capire come gli attori “leggono” gli accadimenti di cui sono partecipi: dalla loro interpretazione della realtà, infatti, emerge uno spunto per

l’azione in grado di condizionare l’evoluzione dei successivi processi organizzativi264.

Nella propria partecipazione al contesto osservato, il ricercatore ha la possibilità di far emergere, mediante il dialogo, i punti di vista degli attori, costruendo un’immagine complessiva dell’oggetto di indagine: una meccanica dei processi che, legando antecedenti e susseguenti, hanno costruito lo scenario così come si è presentato agli occhi dello studioso.

Chiarite le linee guida che dovrebbero indirizzare un’osservazione partecipante, diviene legittimo chiedersi come negoziare l’accesso del ricercatore al campo di studi. Nelle scienze sociali, infatti, è ben nota quella sorta di paradosso (il termine è di Labov) per il quale il ricercatore aspira ad osservare come si comportano gli individui quando non sono osservati (sottende a questo desiderio, evidentemente, l’assunto per il quale un comportamento muta la propria spontaneità in funzione del contesto di esercizio).

Il ricercatore si trova pertanto di fronte ad un bivio: mentire, ossia mostrare un’aspirazione genuina a far parte della comunità organizzativa sotto indagine (osservazione dissimulata) oppure palesare i propri obiettivi e vivere il contesto con la sua vera identità.

Ancora una volta, visto il basso grado di prescrittività dell’osservazione partecipante, gli orientamenti personali del ricercatore fungeranno da discriminante nella scelta tra il dilemma palesamento-dissimulazione. Invero c’è da dire che la letteratura non si è

264 Dicono Hammersley e Atkinson: “ogni atto umano ha una sua dimensione espressiva.

L’organizzazione dell’ambiente, gli abiti, i gesti, i modi di comportamento in generale, sono portatori di messaggi. Indicano il genere, lo status sociale, il ruolo occupazionale e persino la personalità degli attori sociali. Tuttavia è la forza espressiva del linguaggio che costituisce la più importante fonte di conoscenza. […] Nella vita di tutti i giorni la gente formula di continuo resoconti linguistici della propria visione del mondo: per esempio conversando attorno alle proprie aspirazioni, raccontano in certe occasioni quello che è successo [...] chiedendo scusa e presentando delle giustificazioni.” Hammersley, M., Atkinson, P., Ethnography: Principles in Practice, Tavistock, London, 1983, p. 107.

espressa chiaramente ed esplicitamente a favore del secondo approccio, come invece potrebbe lasciar credere una lettura heisenbergiana sul rapporto rilevatore-rilevato. Resta a questo punto un ultimo scoglio da superare per avviare un processo di ricerca basato su un’osservazione partecipante: come convincere gli individui osservati a lasciare entrare il ricercatore nel loro contesto fisico e sociale?

Non di rado capita infatti, come nota Gobo265, che le organizzazioni, per motivi di segretezza legale o societaria, o più semplicemente per il timore di veder pubblicate informazioni che le riguardano ma sulle quali non hanno il controllo, tendano a filtrare l’accesso del ricercatore sul campo di analisi. La letteratura parla di veri e propri “guardiani” (gatekeepers) che, per ruolo o attitudine, non accettano l’ingresso sulla scena di un “estraneo” e con quali il ricercatore deve negoziare l’accesso. Occorre dunque conquistare la fiducia di un mediatore culturale, un’autorità per la comunità di interesse che “funga da ponte” e “garantisca” per il ricercatore. Il mediatore culturale sarà il continuo riferimento principale per tutta la durata dell’osservazione, e verrà affiancato nel tempo da una serie di informatori con cui il ricercatore riuscirà a stabilire un rapporto privilegiato (talvolta anche di amicizia) in grado di spingere diversi attori chiave a testimoniare aspetti del contesto che altrimenti sarebbero inaccessibili al ricercatore.

Gli informatori possono avere un ruolo formale nell’organizzazione (informatori istituzionali) oppure possono essere soggetti che, per situazioni contingenti, hanno un punto di osservazione privilegiato rispetto alla scena di interesse (informatori non istituzionali). Sia che si ricorra ad informatori istituzionali, sia che si opti per informatori non istituzionali, è bene “consolidare la relazione con un osservatore solo dopo aver soggiornato qualche tempo nella società ospite […] e di sottoporre la

265 Gobo, G., Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Carocci,

persona dell’informatore […] a severo scrutinio prima di iniziare la collaborazione266”.

Quando si è conquistata la fiducia della collettività studiata, e si dispone di una serie consistente ed articolata di osservazioni (eventualmente integrate anche con le interviste ed i documenti di cui si parlerà nei prossimi paragrafi), è possibile effettuare quel delicatissimo “passaggio dai costrutti di prim’ordine, il linguaggio dei nativi, ai costrutti del second’ordine, il linguaggio, le categorie concettuali della teoria267” che, se praticato con cura, dà il più grande valore aggiunto (in termini di profondità esplicativa) alla tecnica di indagine di tipo etnografico.

Al di là delle scelte di palesamento o dissimulazione dell’azione di ricerca, e del grado di conversione cui lo studioso si sottopone, non ci si può infatti dimenticare che il focus esterno è una variabile fondamentale nelle analisi effettuate. In altre parole, ogni osservazione, per quanto spontanea e genuina, ha sempre l’obiettivo di far emergere dinamiche che debbono essere lette con una lente e delle metriche riconosciute in letteratura ma fatta con “gli strumenti interpretativi che [nel mondo delle persone studiate] il ricercatore vi ha trovato268”.

Ancora una volta si nota quanto il successo di questa tecnica di ricerca sia strettamente legato alle capacità dell’osservatore di selezionare gli elementi più rilevanti ai fini dell’analisi, di riportare le categorie dei nativi a quelle della letteratura, di mantenere un elevato rigore ed un sufficiente “distacco” lungo tutto il processo di ricerca.

A chiusura di questo breve excursus sui tratti salienti dell’osservazione partecipante (rispetto all’evoluzione del caso di studio presentato di seguito) non resta che

266 Cardano, M., La ricerca etnografica, in 1997, in Ricolfi, L. (a cura di), La ricerca qualitativa, La

Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 71.

267 Cardano, M., La ricerca etnografica, in 1997, in Ricolfi, L. (a cura di), La ricerca qualitativa, La

Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997, p. 80.

268 Van Maanen, J., Dabbs, J. M., Faulkner, R. R., Varieties of Qualitative Research, Sage, Beverly

definire le fasi che, se pur in maniera elastica e nel rispetto di un approccio emergente, vengono considerate nella letteratura prevalente “atte” a favorire il successo di questa tecnica di ricerca. Tali fasi sono sinteticamente riportate in Figura 14.

Figura 14 Le 4 fasi della ricerca per osservazione partecipante

Fase Descrizione

Descrizione La realtà sociale è complessa e non si possono ricercare spiegazioni di tipo causale. In questa fase il ricercatore propone una visione densa, ossia arricchita dei significati e delle interpretazioni attribuite dal contesto studiato. In questa fase confluiscono tutti i materiali (osservazioni, ma anche stralci documentali o interviste) che si è avuto modo di raccogliere e selezionare durante la permanenza269.

Classificazione Nonostante la sua variabilità, il contesto fisico ed umano presenterà delle ricorrenze che, opportunamente individuate, assurgeranno a similitudini fra comportamenti e schemi cognitivi degli attori esaminati. Tali classi (o categorie) saranno di aiuto già durante l’osservazione per filtrare gli elementi meno rilevanti del contesto ma anche in fase descrittiva per far emergere quei momenti fondamentali (o shock) che vanno a costituire le “sequenze temporali” fondamentali nella comprensione del fenomeno studiato. La classificazione in sequenze è utile perché fa emergere gli aspetti nascosti che si celano nella manifestazione delle stesse.

Tipizzazione Una volta che si hanno a disposizione delle sequenze tipizzate (o tipologie) è possibile proporre delle valutazioni di somiglianza/diversità tra le osservazioni fatte al fine di indentificare i fattori fondamentali che ne condizionano il grado di analogia. Si tratta di ricondurre le classificazioni operate sulle sequenze descritte a “tipi ideali” (in senso weberiano) familiari alla letteratura.

Costruzione di un

paradigma Parlando del tratto saliente dell’osservazione partecipante, Spradley sottolinea come il ricercatore “esamina i minuti dettagli della cultura che sta studiando, ma nello stesso tempo cerca di tracciare le linee generali del panorama culturale […] i principi che danno un senso al tutto270”. È questa la fase in cui le dinamiche

infinitesimali sotto osservazione prendono un posto nel set di conoscenze scientifiche pregresse, ossia avviano o arricchiscono un filone, un tema dibattuto in letteratura e ne acquisisce (a volte integrandole) le principali categorie analitiche.

Fonte: nostra elaborazione

269 L’espressione “descrizione densa” (thick description) è stata proposta per la prima volta da Geertz

per mettere in luce come il significato di una descrizione non sia mai univoco, perché è “il racconto di una trama complessa, che offre diversi livelli di lettura: un racconto, per l’appunto, denso”. Geertz, C., The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973; trad. it., L’interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 42.