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Il Ruolo del Cracking nell’Industria Videoludica Italiana (1980-1990)

La riflessione storico-sociologica sulla prima fase di diffusione di massa del videogioco (1977-1983) ha preso forma a partire dalla ricostruzione dei percorsi che hanno portato un limitato nume- ro di produttori, in schiacciante maggioranza anglosassoni (Do- novan 2010, Kent 2010) e giapponesi (Consalvo 2006, Picard 2013, Kohler 2016), a costruire e dominare un nuovo comparto sovrana- zionale dell’industria culturale. Che si tratti del settore arcade, di quello delle console o di quello del software per home computer, la storia sociale del videogioco è infatti ripercorsa innanzitutto come storia dei grandi produttori di hardware e software: a essere messe a fuoco sono in particolare le culture della produzione, gli assetti produttivi e distributivi, e le strategie di mercato che hanno segnato l’ascesa, e spesso il declino, dei grandi player (Williams 2002, Wolf 2008, Zackariasson, Wilson 2010). Tale linea di ricerca è integrata dall’analisi dell’utenza che ha caratterizzato i contesti nazionali di tali player: in questo caso, si focalizza sulle tipologie socio-anagrafiche delle prime generazioni di giocatori (in parti- colare americani), ma anche sulle forme di fruizione del prodotto videoludico (Herz 1997), e sul rapporto tra videogioco e culture nazionali (Consalvo 2007).

Più di recente, una seconda linea di indagine – che Bjarke Li- boriussen e Paul Martin includono nella nuova fase disciplinare dei Regional Game Studies (2016) – ha iniziato a complessificare tale quadro di riferimento, ricostruendo storiografie alternative a quella anglosassone e giapponese. Si tratta di una serie di studi che estendono l’analisi storico-sociologica alle specificità dei sin- goli contesti nazionali, tanto dal punto di vista delle forme di ri- cezione del prodotto videoludico (cfr. ad esempio Ng 2006, sulla ricezione di alcuni prodotti videoludici giapponesi a Hong Kong), quanto da quello dei suoi assetti produttivi-distributivi (cfr. ad

esempio Cao e Downing 2008, sul ruolo di stato e mercato nel- la costituzione di un comparto produttivo nazionale in Cina). In particolare, sembrano prendere forma quattro principali aree di ricerca: l’analisi dei comparti produttivi locali, con particolare attenzione per i casi che abbiano saputo ritagliarsi un ruolo, per quanto secondario, nell’arena transnazionale; l’analisi delle forme di distribuzione e circolazione locale del prodotto videoludico, sia di tipo formale che informale; l’analisi del rapporto tra videogioco e culture (e industrie culturali) locali; l’analisi delle specificità del- le utenze e delle forme di fruizione e consumo locali. Erdal Yilmaz e Kursat Cagiltay hanno ad esempio tracciato le linee principali della storia dei giochi digitali in Turchia, evidenziando l’originali- tà dei percorsi che hanno ricongiunto il paese al mercato globale del videogioco (2005); Jaroslav Švelch (2013) ha mostrato come in Cecoslovacchia lo sviluppo hobbistico di videogame abbia avuto obiettivi che andavano al di là dell’intrattenimento, spaziando dal- la dimostrazione delle abilità di coding fino all’articolazione di un discorso politico sul regime; infine Ulf Sandqvist (2012) ha rico- struito le traiettorie che hanno portato al prendere forma di un comparto produttivo nazionale in Svezia.

Nonostante questo nuovo interesse per contesti diversi da quello americano e giapponese, il caso italiano resta però quasi del tutto inesplorato (fra le eccezioni Fassone 2016, 2017). Ep- pure, la fase iniziale della diffusione di massa del videogioco in Italia presenta specificità che meriterebbero una ben più siste- matica esplorazione, quali “una marcata deregolamentazione della tutela della proprietà intellettuale, (...) [la] sperimentazio- ne di canali distributivi particolari, come l’edicola, (...) una forte vocazione artigianale, sostanzialmente incapace di evolvere in un vero comparto industriale, (...) una produzione a vocazione localistica che metterà in gioco gli immaginari dell’industria cul- turale nazionale, e in particolare del fumetto” (Tarantino/Tosoni 2017). Nel presente intervento, intendiamo proseguire il lavoro di esplorazione appena citato concentrandoci sul primo di tali aspetti: la centralità di diverse forme di elusione del copyright nella diffusione del videogioco, connessa a una tendenziale as- senza di protezione legislativa del diritto d’autore sul software, che ha caratterizzato il contesto Italiano (e molti contesti euro- pei) fino agli anni ‘90. In particolare, ci focalizzeremo sul cra-

S. Tosoni, M. Tarantino, A. Pachetti - “I nomi sui giochi” 85 cking: l’insieme di pratiche tese a rimuovere i dispositivi di prote- zione introdotti a livello hardware o software dal produttore per impedire la copia di un programma informatico (Reunanen 2014, p. 1). Includiamo nel cracking anche l’alterazione dell’aspetto o di alcune dinamiche di funzionamento di un videogioco al fine di occultarne l’origine (dalla sostituzione del titolo anche nelle schermate in game e dai ritocchi alla grafica, fino a operazioni più complesse come il disassemblaggio di un videogioco in livelli autonomi distribuiti singolarmente). Tali operazioni sono infatti funzionali alla distribuzione commerciale del software in regime di elusione del copyright, al pari della rimozione tecnica dei si- stemi di protezione. Ai fini di questa esplorazione, escludiamo invece dal cracking vero e proprio le pratiche di pura esecuzione di strategie di rimozione delle protezioni elaborate da terzi. È il caso ad esempio dell’esecuzione da parte degli utenti di listati volti alla rimozione della protezione di un gioco pubblicati da riviste specializzate: un fenomeno descritto da Lekkas (2014) per il contesto greco e che, come vedremo, interessa anche il nostro paese. Ai fini di questo capitolo, il cracker vero e proprio è iden- tificabile unicamente nell’autore di quei listati.

L’esplorazione che proponiamo intende anche contribuire a un recente filone di studi che mira ad approfondire la comples- sità e ambiguità del ruolo della pirateria in mercati residuali: se da una parte infatti la pirateria contribuisce in modo rilevante a determinare la marginalità di tali mercati, dall’altra costituisce spesso il canale pressoché unico per il reperimento di prodotti non altrimenti distribuiti (cfr. in particolare Alberts/Oldenziel 2014). Inoltre, e spesso in continuità con la cosiddetta “demo- scene” (Reunanen, Wasiak/Botz 2015), il coinvolgimento nelle pratiche di pirataggio del software rappresenta per molti coder una rilevante palestra per l’appropriazione e lo scambio di com- petenze tecniche altrimenti difficilmente acquisibili. Nell’ambi- to di tale filone di studi, la letteratura del cracking insiste nel delineare un suo processo di evoluzione e strutturazione tipica- mente subculturale, che vede i praticanti riuniti in comunità che emergono a partire dall’hobbismo informatico e dai computer club. Con il passaggio all’home computing, il fenomeno si de- clina in “scene” nazionali e transnazionali, analoghe a quelle di altre sottoculture: i cracker si costituiscono in gruppi o crews,

dotati di proprie firme iconiche e testuali in competizione per visibilità e prestigio. In tal senso, Reunanen, Wasiak e Botz (2015) hanno esaminato in particolare le pratiche di intestazione della “sprotezione” di giochi attraverso l’introduzione di grafiche in apertura dei giochi stessi, note come “demo” – una pratica che secondo gli autori darà vita a sua volta in una scena subculturale autonoma, la citata demoscene, a seguito di una repressione più marcata del cracking messa in atto da alcuni Paesi. In questo sen- so, il cracking viene concettualmente sussunto all’interno della più ampia scena transnazionale dell’hacking e interpretato come una delle sue declinazioni, incluse narrative romantiche delle ra- gioni dell’agire legate a caratteri di gratuità e bene comune. Una volta sprotetto, infatti, il software può essere copiato in linea di principio infinite volte, e reso così disponibile anche in contesti per cui l’accesso risulterebbe problematico per ragioni di costi o di mancata distribuzione, come ad esempio la Grecia degli anni ‘80 (Lekkas 2014) o i Paesi del blocco sovietico (Jaki 2014, Wa- siak 2014). Tali ricostruzioni, sebbene accurate da un punto di vista storico (lo strutturarsi di una scena subculturale transna- zionale legata al cracking risulta storicamente incontrovertibi- le; più difficile stabilire la sua incidenza sul totale delle pratiche di cracking videoludico), tendono a trascurare la disamina degli aspetti economici e giuridici legati a queste pratiche. In questo senso, il presente capitolo intende utilizzare il caso italiano per esplorare criticamente alcuni degli assunti di questa letteratura.

L’esplorazione che proponiamo si fonda su una combinazione di fonti secondarie e primarie. Per quanto riguarda le fonti secon- darie, si è operata un’analisi delle riviste del settore pubblicate du- rante il periodo in esame (N=60). Congiuntamente, si è proceduto all’analisi di interviste a operatori del settore e a cracker attivi tra anni ‘80 e ‘90 (N=16) pubblicate in anni recenti. Sono stati inoltre consultati database di file ROM per emulatori di giochi arcade, che riportano informazioni sulle versioni bootleg utili alla rico- struzione del cracking arcade. Dal punto di vista delle fonti prima- rie, il lavoro è stato integrato da interviste in profondità a testimo- ni privilegiati operanti a diverso titolo nell’ambito del cracking e della distribuzione di videogiochi: nello specifico, tre cracker attivi negli anni ‘80 e un negoziante/distributore.

S. Tosoni, M. Tarantino, A. Pachetti - “I nomi sui giochi” 87 Il Cracking videoludico in Italia: 1980-1990

La storia del cracking può essere periodizzata in fasi scandite dal susseguirsi delle piattaforme hardware su cui la pratica princi- palmente si esercita. Le sue origini sono in genere ricondotte alla prima diffusione di software per il mercato domestico: per quanto riguarda il caso americano, ad esempio, la comunità cracker appa- re aver preso forma inizialmente attorno a Apple II, arrivando ad avere già una rivista dedicata nei primissimi anni ‘80 (Hardcore Computing). In Italia il fenomeno ottiene visibilità solo più tardi, attorno ai prodotti dell’americana Commodore (Vic 20, e soprat- tutto Commodore 64) e dell’inglese Sinclair (ZX81 e Spectrum). In realtà, nonostante la figura del cracker sia ancora socialmen- te sconosciuta, pratiche di cracking si registrano già molto prima della fase dell’home computing, ove la letteratura l’ha finora cir- coscritta: esse costituiscono una parte rilevante del business del videogioco arcade, ossia operato a gettone.

La storia del cracking negli anni della prima diffusione di massa del videogioco in Italia appare dunque periodizzata in tre fasi: alla fase degli arcade, che risultano centrali per il cracking fino almeno al 1983, ne segue una seconda che vede la centralità degli home computer a 8 bit (C64 e Spectrum, con netta predominanza del Commodore nella seconda metà degli anni ‘80). Anche questa fase presenta in Italia una segnata specificità rispetto ad altri contesti: l’enorme diffusione della pirateria videoludica rende infatti dispo- nibile sul mercato una grande quantità di software a prezzi irrisori. Ne deriva una coda lunghissima del successo commerciale delle macchine a 8 bit, che si estende per l’intero arco degli anni ‘80 – quando ormai, a livello internazionale, esse stavano esaurendo il loro ciclo di vita. Come conseguenza, la terza fase, quella degli home computer a 16 bit (in sostanza legata al Commodore Amiga e, in misura assai minore, all’Atari ST) risulta in Italia piuttosto breve, schiacciata tra tale coda lunga e l’avvento delle console a 32 bit (quali la Sony Playstation) e dei personal computer compatibili con il sistema operativo MS-DOS, che domineranno la scena a par- tire dalla metà degli anni ‘90. La scansione di tali fasi non è ovvia- mente da considerarsi mai netta: ciò che si registra è piuttosto uno spostamento graduale e progressivo del core business dei circuiti pirata, di cui le pratiche di cracking risultano parte integrante.

La fase arcade

In Italia, tali circuiti risultano già compiutamente strutturati e organizzati fin dalla fine degli anni Settanta, quando si registra il boom del mercato arcade. Come conseguenza, nel nostro paese la dialettica fra protezione e cracking si manifesta in forme compiute ancor prima della diffusione degli home computer. In questi casi la protezione è tesa a impedire il cosiddetto dumping (ossia la lettura e il riversamento) del codice binario del gioco, immagazzinato dal produttore in appositi componenti della circuiteria, tipicamente memorie ROM. Tramite il dumping, il codice di un arcade può es- sere infatti ricaricato su altri componenti, modificato e rivenduto o noleggiato agli esercenti di sale gioco a costi inferiori rispetto a quelli di mercato. Per limitare tale pratica le case produttrici iniziano con gli anni ‘80 ad articolare differenti strategie, quali il controllo durante l’esecuzione del gioco della presenza di compo- nenti specifici sulla scheda madre (quali il chip Slapstic prodotto da Atari fra il 1984 e il 1990, o microprocessori dedicati progettati per eseguire alcune specifiche funzioni) o la crittazione del codice stesso, con le relative chiavi di decrittazione immagazzinate in al- tri componenti della scheda madre. In questo contesto, il cracker (ma tale termine non è ancora d’uso corrente nel nostro paese) emerge come figura in grado, attraverso strategie software e har- dware basate sul reverse engineering, di sproteggere il gioco con- sentendone la copia. Allo stesso tempo, avendo accesso al codice macchina, il cracker di giochi arcade può operarvi delle modifiche, creando così bootleg1, ossia versioni alternative, e ovviamente non

autorizzate, del gioco stesso. Fra le pratiche di cui si ha traccia ab- biamo la modifica del titolo, la rimozione delle informazioni di copyright, la traduzione, ma anche l’adattamento ad hardware diversi dall’originale (in modo da consentire all’esercente di far gi- rare un gioco su un cabinato già in suo possesso) e modifiche alla struttura e al funzionamento del gioco orientate ad aumentarne la desiderabilità (come nel caso dell’aumento del numero di livelli). 1 Del celebre Pac-Man – prodotto dalla giapponese Namco nel 1982 – si re-

gistrano ad esempio almeno sei bootleg illegali con modifiche sostanziali. Questi vanno da Joyman, che modifica l’aspetto del protagonista, dei nemici e del labirinto, a Pacman (Galaxian Hardware), modificato per girare sui ca- binati del più vecchio gioco Galaxian, prodotto sempre da Namco nel 1980.

S. Tosoni, M. Tarantino, A. Pachetti - “I nomi sui giochi” 89 Il contesto in cui in Italia tali pratiche si esercitano è princi- palmente quello dell’ampia filiera produttiva dedicata all’assem- blaggio dei cabinati che è andata rapidamente prendendo forma a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta. Già nel 1981, infatti, le “fabbriche che costruiscono videogiochi” (Corso /Lucrezi 1982) in Italia sono oltre 70, con “un fatturato di circa 90 miliardi di cui 60 per l’esportazione”. Tale sforzo produttivo risponde all’esigenza di grandi e piccoli distributori di abbattere gli alti costi di importa- zione degli ingombranti cabinati da America e Giappone. Questi sono piuttosto assemblati in situ, una volta che le schede che con- tengono il software di gioco vero e proprio sono state acquistate sul mercato o prodotte su licenza. La debole tutela del copyright che caratterizza in questa fase il nostro paese (la Legge 633 allora in vigore risaliva al 1941), e il sostanziale disinteresse dei grandi produttori stranieri a fare valere in sede legale i propri diritti, apre però, all’interno della galassia di imprese dedite all’assemblaggio, un ampio spazio a operazioni di intervento sul software a parti- re dalla rimozione dei sistemi di copia. Si tratta tanto di pratiche non autorizzate come la traduzione linguistica non ufficiale del prodotto o il suo adattamento a dispositivi hardware differenti dall’originale, quanto di forme di pirateria vera propria: è il caso in particolare della copia su memorie EPROM (‘Erasable Program- mable Read-Only Memory’, ossia memorie non-volatili riscrivibili elettricamente) del software contenuto nelle schede gioco e della sua redistribuzione, o della sua modifica – al fine di discostarsi dall’originale – per la produzione di bootleg veri e propri. Le copie contraffatte sono poi montate sui cabinati e vendute o noleggia- te a bar e sale gioco a prezzi più contenuti rispetto agli originali. Nonostante non sia possibile stimare con precisione il peso di tali pratiche sul complessivo mercato italiano arcade, gli operatori del settore concordano nell’indicarne l’assoluta rilevanza – se non la preponderanza – fino alla prima metà degli anni ‘80. Di fatto, il mercato rimarrà non normato fino al 1983, anno in cui ha avvio la sua progressiva normalizzazione.

A cambiare radicalmente lo scenario è una sentenza del 1983 del Tribunale di Torino, che opponeva Atari, con il suo distributore ufficiale F.lli Bertolino SRL, all’azienda Sidam. Già in precedenza, nel 1982, il Tribunale di Milano aveva analizzato la fattispecie di concorrenza sleale per imitazione servile in ambito videoludico:

tuttavia in quella circostanza al videogioco non era stata ritenuta applicabile la tutela del copyright per le opere d’ingegno a caratte- re creativo. Tale parere viene ribaltato dal Tribunale di Torino, nel- la cui sentenza i prodotti di Sidam Asterock (1979) [Fig. 11], Missile Storm (1980) e Magic Worm (1980) furono effettivamente ricono- sciuti come bootleg di Asteroids (1979), Missile Command (1980) e Centipede (1980) di Atari. La sentenza attribuirà al videogioco un carattere assimilabile a quello di opera cinematografica esten- dendo così a esso le medesime forme di tutela legislativa – e darà luogo a una progressiva normalizzazione del mercato coin-op: la stessa Sidam, con il nome di Sipem, prenderà a distribuire giochi su regolare licenza. (Tarantino e Tosoni 2017).

La fase home

Il progressivo enforcing della tutela del copyright andrà così re- stringendo – anche se mai chiudendo del tutto – lo spazio per la rimozione della protezione e la copia del software videoludico da cabinato. Tale processo non segna però la perdita di centralità delle pratiche di cracking nella diffusione del videogioco in Italia: ciò cui si assiste è semmai uno spostamento dell’area centrale di intervento agli home computer a 8 bit, il cui successo commerciale in Italia ha un boom proprio in questi anni. Tale successo sarà a lungo so- stenuto proprio dall’ampia disponibilità di videogame a prezzo ri- dottissimo o nullo. È anzi proprio in questi anni che la figura del cracker viene riconosciuta, in Italia, come figura sociale autonoma, e distinta dalla più generale figura del pirata cui, nella fase arcade, si assimilava indistintamente tanto chi si occupavano di eliminare le protezioni della copia, quanto chi rivestiva altri ruoli nelle eco- nomie del software non originale, come la gestione dei contatti, la distribuzione e vendita. Tale riconoscimento si registra tanto nella stampa tecnica specializzata quanto in quella più divulgativa sui vi- deogiochi. Entrambe, infatti, prendono una posizione netta contro la pirateria ma risultano più oscillanti nell’inquadrare la figura del cracker. Da una parte, tale figura è stigmatizzata come elemento car- dine nelle economie illegali di distribuzione del videogioco (e, più in generale, del software). Dall’altra se ne valorizza il ruolo di “libero ricercatore”, votato a conseguire – e socializzare – una conoscenza

S. Tosoni, M. Tarantino, A. Pachetti - “I nomi sui giochi” 91 profonda del funzionamento della macchina e competenze tecni- che avanzate. Per quanto riguarda la stampa specializzata, costitui- sce un buon esempio la rivista Commodore Computer Club, che nel corso degli anni matura una sua identità originale come punto di riferimento per la comunità dei programmatori del Commodore 64 (e non dei semplici fruitori di videogiochi). Se da una parte infatti la rivista stigmatizza con articoli puntuali e specifici chi sprotegge il software per fini commerciali, dall’altra offre approfondimenti su come è possibile effettuare il cracking dei videogiochi, nonostante la segnalazione che le informazioni fornite siano da ritenersi “pura- mente didattiche”. Per quanto riguarda le riviste di videogiochi, ne è invece esempio il vivace dibattito ospitato nel 1987 sulle pagine della posta dei lettori della rivista Zzap!, ove si registrano per altro alcune tra le prime occorrenze del termine cracking e suoi derivati (anche in forme errate, come “crakkare”, oppure “crachers”), che sostitui- scono progressivamente i neologismi italiani, come “sproteggere” e “sprotettori”, fino ad allora in uso per indicare la pratica.

In realtà, l’atteggiamento ambiguo delle riviste rispecchia la na- tura dualistica del fenomeno del cracking in questi anni, che appa- re fluttuare di continuo tra il desiderio “accademico” di compren- dere il funzionamento della protezione dei programmi, e obiettivi assai più prosaici, di natura prettamente economica:

Io ero sostanzialmente un appassionato di computer, mi affascinava- no le tecniche di programmazione: volevo capire come funzionava il codice, volevo modificarlo, e questo spesso implicava sproteggerlo. Anche il modo in cui funzionano i sistemi di protezione mi affasci- nava. Ad un certo punto ho trovato il modo di farmi pagare, e bene, per fare quello che mi piaceva.

[cracker, 47]

In Italia, esso importa anche alcune delle marche subculturali che già caratterizzano il fenomeno in contesti europei, con i quali i cra- cker nostrani hanno relazioni di scambio. Wasiak (2012) segnala ad esempio come la subcultura del cracking in Europa sia iniziata nel 1983 in Germania Ovest attraverso la creazione di due gruppi: Ger-