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Il trittico di Francesco Benaglio a San Bernardino:

tegna nel panorama cittadino fu relativamente blanda, se riferita alla compren- sione dell’intimo significato tecnico e spirituale dell’opera, ma certo non inesi- stente, se messa a fuoco in relazione al contesto locale5. È ben vero che il pensie-

ro e lo stile formatisi nei decenni anteriori a Verona minarono gran parte della portata innovativa insita nell’impianto mantegnesco; tuttavia, sarebbe altrettan- to ingiusto misconoscere che lo sforzo dei Veronesi non fu meno serio, soprat- tutto quando si trattò di saggiare nuovi connubi tra le ricerche umanistiche e la perdurante estetica tardogotica.

In quest’ottica può essere utile rileggere la ricerca portata avanti da France- sco Benaglio, che nel 1462 firmava la pala per l’altare maggiore di San Bernardi- no, prima opera documentata della chiesa iniziata dieci anni avanti, e, di più, prima opera cittadina datata a interrogarsi concretamente sul rapporto da in- staurare con l’antico6.

In merito a fatti pratici, le pagine sopravvissute del Quaderno della Fabbrica, che hanno trasmesso alcune fasi della partita doppia dal 1457 al 14667, registra-

no parte delle spese affrontate per la realizzazione del trittico e della cornice, nonché per il trasporto dell’opera, al termine dei lavori. La prima menzione della pala risale appunto al 1462, quando viene annotato il credito a favore di Galeotto del Formento per il «panno camora» dato a Francesco pentoro «per la cortina de l’anchona di S. Bernardin»8. Il 28 settembre 1463, il medesimo depentore riscuote-

va delle somme per «depengere la cassa de l’ancona» e per penzer la cortina della pala – che era di «tela azura de San Galo» – con dei foglietti dorati. Il 9 ottobre, Domenico da Voltolina e un compagno erano ricompensati per il trasferimento della tavola dalla bottega del pittore alla chiesa, mentre in aprile, Ambrogio ma- rangon riceveva il saldo per le porte del coro e della «chassa de lanchona cum li torti de archa»9.

5 La letteratura relativa all’influsso esercitato dalla pala di San Zeno sulla pittura veronese è relativamen-

te ampia, ma valgano soprattutto DEL BRAVO 1962 (b); AGOSTI 2005, p. 410 nota 35. Per un riepilogo delle derivazioni veronesi dal trittico: MAOLI 2000; MAOLI 2001.

6 Su Francesco Benaglio: SANDBERG VALVALÀ 1932-33; LONGHI 1947; ROGNINI 1974 (a); SHAW, BOCCIA

SHAW 1993; BELLOSI 1994, pp. 293-299; MARINELLI 2002; ROSSI 2006; A. ZAMPERINI, in Dizionario anagrafico 2007, p. 281. La dipendenza mantegnesca della pala di San Bernardino è stata rilevata da tutta la letteratura critica, di cui segnaliamo almeno VENTURI 1914, pp. 441-448; DEL BRAVO 1962 (b), pp. 53-55; MARINELLI

1992, p. 631; F. ROSSI, in Mantegna e le arti 2006, pp. 257-259.

7 Le parti del Quaderno di San Bernardino relative alle operazioni di costruzione e decorazione della

chiesa sono state pubblicate da BRENZONI 1932 (a); la trascrizione complessiva del documento è stata fatta da TOFFALI 1971-72.

8 BRENZONI 1932 (a), p. 8 (a. 1462, c. 115).

9 BRENZONI 1932 (a), p. 6 (a. 1463, c. 73; c. 81). Il lacunoso Quaderno, inoltre, menziona colui che aveva

pagato la cortina di sangallo: è stato recentemente appurato trattarsi di un mercante di seta, Federico, resi- dente a San Sebastiano (F. ROSSI, in Mantegna e le arti 2006, p. 257), correggendo in tal modo le asserzioni di

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Quanto alla pala, va da sé che più di un dettaglio iconografico tradisse delle congruenze con la chiesa osservante. Se la presenza dei santi francescani (Ber- nardino, Francesco, Antonio e Ludovico di Tolosa) è del tutto intuibile, se l’in- serimento di Girolamo si giustificava con la devozione dell’ordine nei suoi con- fronti10, la raffigurazione di Pietro e Paolo trovava ragione nel titolo della chiesa,

dedicata – come rammentava l’iscrizione posta in occasione della prima cerimo- nia solenne del 1452 – al santo senese e ai due apostoli11.

Nell’insieme, tuttavia, quello che balza immediatamente all’evidenza è che il trittico di San Bernardino può essere considerato l’opera davvero più “mante- gnesca” del panorama veronese12. A partire dalla cornice classicheggiante e tri-

partita: sui pilastri, la decorazione è costituita da tralci che risalgono da un vaso; lateralmente, sono cespi di foglie annodati lungo una fune, mentre sulle lesene centrali si snoda un tralcio leggermente più sciolto; sull’architrave campeggiano dei bucrani, collegati da una ghirlanda. All’interno, in una loggia che dà su un paesaggio roccioso, circondati dai santi, la Vergine e il Bambino siedono su un trono dai braccioli all’antica e dallo schienale modellato come la fronte di un’ara, da cui scende un tappeto orientale. Nello sfondo si intravedono due piccole sce- ne, l’Adorazione dei Magi a sinistra e la Resurrezione a destra, mentre sulle co- lonne spiccano dei medaglioni, ove sono riconoscibili – procedendo da sinistra per chi guarda – un Amorino sul dorso di un toro, due figure affrontate (l’una seduta, l’altra stante), una Nereide trasportata da un Tritone, un uomo nudo di spalle davanti a un cavallo, ancora una Nereide questa volta seduta su un capro- ne marino, un Tritone armato di lancia e infine, quella che potrebbe essere una Nereide dalle gambe accavallate.

La ripresa del trittico di Mantegna, insomma, è decisamente puntale, tanto nella composizione quanto in molti elementi esornativi: oltre alla generale am- bientazione della Sacra Conversazione in una struttura che si apre sul fondo, anche la cornice lignea si pone a continuazione della loggia interna; le colonne dipinte ospitano dei tondi figurati con soggetti antichi; il trono è parimenti ispi- rato a motivi archeologici.

A dispetto delle analogie formali, è altrettanto indubbio che la reinterpreta- zione complessiva debba essere intesa quale discrimine di questa operazione,

BRENZONI 1958 (b), che chiamava in causa, a seguito di un’errata lettura dello stesso documento, Francesco Della Seta di San Paolo.

10 Per la devozione francescana a Girolamo il riferimento va a BISOGNI 1985, pp. 234-236; la diffusione in

Veneto delle compagnie degli Osservanti dedicate al santo è segnalata da PACINI 1989.

11 HAECECCLESIADEDICATA / FUIT S. BERNARDINO/ SANCTISQUEAPOSTOLIS PETROET PAULO/ ANNODOMINI/

MCCCCLII/ HUJUSECCLESIE/ CONSECRATIO/ CELEBRATUR/ XIDIEFEBRARII: BIANCOLINI 1752, p. 337. La lapide andò perduta in seguito ai bombardamenti del 1945: DIANIN 1981, p. 95.

12 In questo senso, il termine “mantegnesco” non deve essere inteso in contraddizione con la matrice

filologica pierfrancescana e squarcionesca (BELLOSI 1994, p. 291; ROSSI 2006) nell’opera di Benaglio ma fa semplicemente riferimento alla derivazione formale dal trittico di San Zeno.

che si pone in un difficile equilibrio tra due culture: l’ariosità dell’impaginazione realizzata da Mantegna diviene nella pala di San Bernardino una condizione sof- focante, in cui i piani sono compressi l’uno con l’altro; le scene accessorie che il pittore padovano aveva destinato alle predelle, affinché non distraessero dal tema principale, sono collocate sullo sfondo secondo una successione tipica della nar- razione medievale. Senza contare che – per quel che importa al nostro studio – proprio molte delle componenti all’antica introdotte per rispettare il modello di San Zeno vengono riprese da fonti più corsive: illuminante in tal senso si rivela la decorazione delle lesene della cornice, composta da blocchi vegetali semplificati, come se il marangone incaricato dell’esecuzione si fosse trovato un poco a disa- gio affrontando questo motivo forse per la prima volta; gli stessi tondi dipinti non sembrano esibire la cultura archeologica di Mantegna: laddove il padovano citava i Dioscuri o una decursio13, Benaglio tende prevalentemente a rifarsi a temi

di prestigio iconografico “minore”, come potevano essere l’Amorino sul dorso del toro, o le Nereidi e i Tritoni: nel senso che tali motivi erano una presenza costante, quasi anodina, su numerosi sarcofagi14; i quali, a loro volta – come ben

si comprende – erano reperti facilmente rinvenibili in loco, senza bisogno di sco- modare taccuini o memorie di viaggi nella città eterna. Ancora, si osservi come nel fregio della loggia interna venga proposto un tema modulare in cui un tralcio è inframmezzato da elementi fitomorfi: assai credibile che si tratti di un omaggio alla scienza antiquaria del collega padovano, dato che tale brano compare nella facciata del palazzo sullo sfondo al Martirio di san Cristoforo nella cappella Ove- tari; vero è, però, che, tra molte citazioni mantegnesche, Benaglio aveva optato in favore di una tra le più elementari e più facilmente riproducibili.

Eppure, come si diceva poc’anzi, qualche merito della pala esiste. Dal punto di vista dell’invenzione, non si può tacere la straordinaria originalità di accorgi- menti, come quello esibito nella prospettiva perfetta e materica dell’aureola di

13 Le derivazioni dall’antico per il trittico di San Zeno sono offerte da TAMASSIA 1955-56, pp. 233-235. 14 In effetti, la caratteristica dei primi prestiti antiquari è quella di fondarsi sul recupero di soggetti in

prevalenza tratti dal repertorio funerario: GENTILI 1982, p. 38; e come rilevano le sculture dell’Amadeo: SCHOFIELD, BURNETT 1999, p. 64. In generale: RAGUSA 1951. Sul valore iconografico del thiasos si veda CU-

MONT 1942, p. 66. Attualmente, non tutti gli studiosi sono concordi nel riconoscere la preminenza del signi- ficato funerario, dato che il tema potrebbe essere collegato ad altre interpretazioni, alcune riferibili al tema nuziale: SICHTERMANN 1970; MAATZ 1971. Ovvero, collegarsi a una valenza politica “marinara”: LUCHS 2007. Ad ogni modo, per il Rinascimento, CLARK (1955) ritiene che originariamente il valore della Nereide (“deco- rosa” o “abbandonata”) avesse un puro senso estetico, legato alla rappresentazione del nudo (p. 214). Sul- l’argomento segnaliamo anche il più recente FREEMAN 1990. Secondo BIALOSTOCKI (1967) il tema marino poteva essere ricercato per vari motivi, che includevano la ricerca del pathosformel attraverso la rivitalizza- zione di forme dinamiche, il semplice recupero di un motivo all’antica e un significato effettivamente fune- rario e salvifico (p. 72). A nostro avviso, per quanto riguarda la ripresa a San Bernardino, la diffusione di questi temi sui sarcofaghi inizialmente può aver corroborato l’idea che essi avessero una pertinenza funera- ria. Solo successivamente, come rivelano i fregi a thiasoi marini in alcuni palazzi privati di cui si parlerà in seguito, prevalsero anche le prime due motivazioni identificate da Bialostocki.

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San Bernardino; o come quello per cui i piedi del santo, inginocchiato nella tavo- la centrale davanti al trono, debordano nello scomparto laterale, costituendo, oltre che un brillante guizzo prospettico in sintonia mentale con le ricerche man- tegnesche, anche un legame compositivo di cui si sarebbe ricordato Bartolomeo Montagna per la Maddalena nella pala del Noli me tangere di Berlino, realizzata verso il 1492 per la chiesa vicentina (e francescana) di San Lorenzo15.

Del pari, persino la scelta di altri elementi classici – seppure da ritenersi sot- toposta alla guida degli iconografi francescani – indica piuttosto una voluta rein- terpretazione, e non un semplicistico fraintendimento. Lo prova, ad esempio, la serie dei bucrani sull’architrave in sostituzione del motivo floreale di San Zeno, che addirittura, a livello iconologico, viene a offrire un’aderenza meglio calibrata con le implicazioni teologiche insite nella pala: poiché si trattava di un notissimo simbolo funerario e sacrificale (visibile tanto nelle steli e nei cippi, quanto in più grandiosi complessi, come la tomba di Cecilia Metella, o il mausoleo di Augu- sto), esso consentiva di rammentare la morte a cui il Bambino Gesù sarebbe stato destinato16. I Francescani erano particolarmente sensibili a tale tema, soprattutto

quando – secondo il pensiero di san Bonaventura – esso permetteva di inferirne il ruolo della Vergine quale mediatrix in favore dell’umanità17. Del resto, un con-

fronto con situazioni iconografiche affini induce a confermare tale interpretazio- ne: si può annoverare, a titolo di chiarimento, il disegno di Marco Zoppo del British Museum, dove, alla base del piedistallo su cui posa il Bambino sostenuto dalla Madre, sono esibiti dei bucrani quale evocazione sacrificale (secondo un concetto che diventa più netto in un altro disegno del medesimo pittore, raffigu- rante Cristo morto sorretto dagli Angeli)18; oppure – per concentrarci su lavori

per i francescani osservanti – si consideri la pala con la Vergine in trono di Anto- nio di Negroponte, presso la chiesa veneziana di San Francesco della Vigna (ese- guita verso il 1455-60), dove, ai piedi del seggio, due crani bovini ribadiscono la medesima premonizione19; e infine, a conferma di un’intenzione che doveva es-

15 Per la pala di Montagna: PUPPI 1962, p. 50, 98.

16 Il motivo era ritenuto talmente pertinente al mausoleo di Augusto (con conseguente marcata connota-

zione funeraria) da figurare nella ripresa fatta dal Filarete in uno dei riquadri della porta di San Pietro: PARLATO 1988 (a), pp. 117-118. Anche in ambito profano, del resto, il bucranio assunse la medesima funzio- ne, per la quale si veda l’allegoria belliniana della Nuda con lo specchio, interpretata come Vanitas da CIERI

VIA 1981, p. 128. A Verona, il bucranio godette di grande risonanza nel Cinquecento, dal momento che esso, presente nella porta dei Leoni (come testimonia un disegno del Serlio) e nel teatro romano (stante la ricostru- zione di Palladio), venne ampiamente utilizzato da Michele Sanmicheli, che ne fece uso nei fregi di palazzo Pompei e di porta Nuova: LEMERLE 1996, pp. 87-89. Esso era tuttavia diffuso anche nella decorazione sepolcra- le, fonte che appare essere stata più facilmente esplorabile: CAVALIERI MANASSE 1971, pp. 290-292.

17 La partecipazione di Maria alla Passione e, di conseguenza, alla Redenzione erano argomenti partico-

larmente cari ai Francescani; osservazioni iconografiche pertinenti – con relativi riferimenti testuali e icono- grafici – sono esposte da HUMFREY 1978; SCHMIDT ARCANGELI 1986.

18 RUHMER 1966, pp. 60-61, 73, nn. 7, 63. 19 Sulla pala: CHASTEL 1993, pp. 140-141.

sere piuttosto sentita, vale la pena di segnalare che una variazione del tema (con un serpente che esce dai fori auricolari del teschio, a rammentare la transitorietà dell’esistenza) compare sulle lesene del portale d’ingresso a San Bernardino e a San Giobbe di Venezia, pure quest’ultima importante chiesa osservante20.

Così come – per tornare al trittico di Benaglio – un sottinteso antiquario dovette essere posto in gioco nella definizione della cornice lignea, anch’essa pensata a guisa di tempio, ma pure rielaborata secondo una tipizzazione diffe- rente da quella mantegnesca: il timpano triangolare, in effetti, non si definisce soltanto quale semplice alternativa allo schema curvilineo di San Zeno, ma piut- tosto, con il suo frontone e la sua facciata polistila, sembra porsi in un’orbita molto prossima a quelle architetture classiche che sempre più spesso venivano divulgate e studiate presso conoscitori e appassionati. A Verona, ad esempio, potevano essere stati abbastanza familiari i disegni del fronte occidentale del Partenone, portati da Ciriaco d’Ancona, l’antiquario che era stato in affettuosi contatti con Martino e Giacomo Rizzoni21.

La menzione di tale rapporto può essere di qualche interesse qualora si os- servi che le relazioni di questa famiglia veronese con San Bernardino non dove- vano essere occasionali: una prova della devozione al santo senese è offerta da un monogramma bernardiniano murato nella villa Rizzoni di Quinzano, poco fuori Verona, mentre Camillo, figlio di Martino, nel testamento del 1489 offriva un cospicuo lascito monetario alla biblioteca del convento22. Senza voler procedere

oltre, è evidente come non fosse difficile conoscere analoghe facciate, tra le quali una delle più famose era sicuramente quella del Pantheon: gli accostamenti non dovevano sorprendere, dal momento che non soltanto l’immagine templare si confaceva al simbolismo mariano, ma pure questi edifici erano stati trasformati in chiese spesso dedicate alla Vergine, così da rendere meno dissonante un ri- chiamo iconografico come quello tradotto a San Bernardino23.

Tutto questo per dire che, se davvero Benaglio (e con lui, l’intagliatore) si trovò ingaggiato in un confronto con le innovazioni di Mantegna – dopo appena tre anni dalla loro entrata in scena – senza la predisposizione e il bagaglio forma- tivo di quest’ultimo, fu però in grado di piegarsi con dignitosa intelligenza al vincolo posto dalla pala Correr, adattandosi addirittura ad alcune invenzioni

20 Il parallelismo iconografico era stato notato da DIANIN 1981, p. 91 nota 18. Sul portale veneziano:

BASSO 2007.

21 Sui rapporti dei fratelli Martino e Giacomo Rizzoni con Ciriaco d’Ancona, alla luce della corrispon-

denza epistolare redatta tra il 1442 e il 1443: MARCHI 1968, pp. 317-329; AVESANI 1984, pp. 55-56. Intorno alla metà degli anni Venti, lo stesso Giacomo era stato in Grecia per due anni, dove aveva avuto modo di frequentare e scambiare opinioni con Ciriaco: MARCHI 1968, p. 318.

22 Per il testamento di Camillo: MARCHI 1964, p. 68. Sul monogramma bernardiniano di villa Rizzoni:

MARCHI 1968, p. 328.

23 Petrarca si riferiva al Pantheon chiamandolo «Santa Maria Rotonda» e attribuendo la sua sopravviven-

za giustappunto alla dedicazione mariana: FORTINI BROWN 1996, p. 85.

L’ANTICODIMANTEGNA. CORRER, SANBERNARDINOEFRANCESCOBENAGLIO

3.1 Francesco Benaglio, Trittico di San Ber- nardino, Verona, San Bernardino

3.2 Ciriaco d’Ancona, Fronte occidentale del Partenone

3.3 Antonio da Negroponte, Madonna con Bam- bino, Venezia, San Francesco della Vigna

3.4 Antonio da Negroponte, Madonna con Bam- bino, Venezia, San Francesco della Vigna, det- taglio con bucefalo

originali. Casomai, fu inevitabile che il mondo culturale del pittore padovano venisse filtrato secondo schemi che appaiono significativi delle capacità veronesi di relazionarsi con l’antico: giacché, da un lato essi rivelavano un quadro menta- le che stentava a liberarsi dalla zavorra di una sensibilità arcaizzante quanto con- solidata, e che faticava sia a pensare la cultura classica quale riflesso di un mondo diverso, sia ad accogliere in toto il valore dell’estetica di Mantegna; ma, dall’altro lato, è pur vero che tali schemi si erano dimostrati sufficientemente elastici nel filtrare molti suggerimenti giunti dall’esperienza di San Zeno, contribuendo a definire il primo momento in cui l’ambiente veronese aveva trovato l’occasione per rispondere alle nuove sollecitazioni dell’antico.

In fondo, se a monte dell’operazione benagliesca era possibile rintracciare una sintassi ancora vicina alle imprese della prima metà del secolo, nella misura in cui vi si poteva leggere un composto di elementi moderni e di forme artistiche in debito con altro patrimonio, è altrettanto essenziale non dimenticare che ora- mai, anche grazie ai pensieri mantegneschi, le proporzioni di tali ingredienti ve- nivano necessariamente a invertirsi, sicché pure a San Bernardino la preponde- ranza del momento classico appariva oramai palese e ineludibile, tanto a livello iconografico quanto formale. Ed è comunque inconfutabile che, nel panorama veronese, il lavoro di Benaglio si presentasse come un illuminante e pionieristico progetto di assimilazione dell’antico, senza dubbio criticabile per molte carenze estetiche e inventive, certo giudicabile con maggiore indulgenza per il confronto che veniva a sostenere con il prototipo mantegnesco.