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Le motivazioni dell’antico a San Lorenzo »

Tuttavia, per tornare a Matteo Canato, quali sono le informazioni sul suo conto che possono spiegare questa volontà di relazione con l’antico? Non molte, in effetti; qualcuna, però, pare particolarmente significativa. Innanzitutto, giova segnalare che lo spirito con cui il vicentino aveva agito doveva essere il medesi- mo che prendeva ad aleggiare negli ambienti colti della città: prova ne sia che sotto la sua tutela erano maturate le inclinazioni letterarie del più famoso umani- sta veronese, quel Giovanni Antonio Mazzola che, eloquentemente, assumerà il nome classicheggiante di Panteo, e che non dimenticherà il periodo giovanile trascorso a San Lorenzo23.

interamente al Canato in ragione delle armi del vicentino lì scolpite (p. 34). Tuttavia, la differenza di impo- stazione rispetto al portale sul corso induce a una maggiore prudenza: mentre SCHWEIKHART (1988 (b), p. 68) ritiene che tutta l’impresa sia attribuibile a Matteo Canato, CUPPINI (1981, p. 309), pur considerando il protiro come parte delle volontà testamentarie del commendatario, preferisce posticiparne l’esecuzione al 1478, sotto il rettorato di Girolamo Maffei.

21 L’arco di Giove Ammone è stato studiato da CAVALIERI MANASSE 1986, coll. 521-564.

22 Le più antiche testimonianze grafiche dell’arco si scaglionano dalla prima versione di Giovanni Caro-

to per le illustrazioni del De origine et amplitudine civitatis Veronae di Torello Saraina (1540), fino a Palladio, e sono illustrate e commentate da TOSI 1980, pp. 50-54. Tuttavia, dell’arco parlava già CORNA, ed. 1973, p. 705.

23 «Me tulit at teneris annis praeclarus alumnus/Alter Matthaeus praesul in urbe probus»: riportato da

CIPOLLA 1892, p. 36. Per il Panteo: PERPOLLI 1915, pp. 40-60; e da ultimo BOTTARI 2006 (in particolare, per i rapporti con Canato, alle pp. 58-61).

MATTEOCANATOASANLORENZO. L’ANTICODELLAPARSEPISCOPI

4.3 Giovanni Caroto, Arco di Giove Ammone 4.1 Portale, Verona, San Lorenzo

Certamente, però, anche dall’atto testamentario giunto a nostra conoscenza il prelato esce con l’aura di un mecenate piuttosto attivo, e soprattutto partico- larmente attento a creare una nuova immagine per la sua chiesa: innanzitutto, aveva voluto che il suo sepolcro fosse posto davanti all’altare maggiore24; quindi,

aveva deciso un lascito per una copertura a volta in pietre quadrate e di colore bianco, che doveva partire dalla cuba dell’altare maggiore e proseguire fino alla facciata occidentale25. Dal che si intuisce non solamente che il vescovo intendeva

eliminare le crociere arcaiche del soffitto, ma che pure, nella determinazione del colore da utilizzare, aveva in mente un preciso riferimento al candore del mar- mo, materiale pregiatissimo che per tutto il Medioevo (lo testimoniano almeno le cattedrali di Pisa e Modena)26 aveva esercitato un richiamo irresistibile per il suo

aggancio con il mondo classico. Oltre a ciò, il commendatario aveva fatto abbat- tere le transenne che dividevano la parte plebana dall’area presbiteriale, con il proposito di dare maggiore ariosità a una struttura romanica che all’epoca dove- va essere percepita come angusta; assieme, aveva fatto adeguatamente sistemare alcuni altari laterali, onde migliorare l’arredo interno, mentre all’esterno aveva provveduto a innalzare il campanile, progettando, poi, l’esecuzione del protiro per l’entrata laterale. Che, infine, Canato dovesse essere consapevole della porta- ta dei suoi interventi (effettivamente realizzati o solamente previsti), è testimo- niato dalle parole commemorative incise sulla lastra originariamente davanti alla porta laterale, ove il religioso aveva voluto scrivere il termine REDINTEGRANDUM, conscio che le operazioni da lui patrocinate avevano inteso ripristinare lo splen- dore perduto della chiesa27.

Più globalmente ancora, quale poteva essere il senso dell’operazione prefi- gurata a San Lorenzo? Ricapitoliamo i dati a disposizione. Matteo Canato era suffraganeo del vescovo veneziano Ermolao Barbaro; il quale era stato prescelto nel 1453 come primate di Verona, scavalcando la candidatura del concittadino Gregorio Correr, a sua volta sostenuto dalle autorità locali. I rapporti tra il ve- scovo e l’abate di San Zeno dovettero mantenersi entro i limiti di una cordiale amicizia (interrotta nel 1464 dalla morte di Correr), ma non è impossibile che da tale stato di cose non fosse nata una sorta di competizione destinata a trasmetter- si alla cerchia dello stesso Barbaro.

24 A dire il vero, nonostante nel testamento Canato parli di un suo monumento noviter constructo, pare

che egli fosse stato deposto davanti all’entrata laterale, da dove la sua lapide sepolcrale venne levata nel 1850: CIPOLLA 1892, pp. 27 nota 3, 175. Il testamento (ASVr, T, m. 68, n. 73, 1476) è pubblicato integral- mente alle pp. 173-183.

25 CIPOLLA 1892, p. 26.

26 Per cui basti GREENHALGH 1984, pp. 129-132, 134-138.

27 DEO MAXIMO OPTIMOQUE/ET DIVO LAURENZIO/SACRUM/R. P. MATTHEUS VERON/PONT TYROPOLITANUS/

V AERE PROPRIO REDIN/TEGRANDUMCURAVIT/IDQUOQUEMORIENS/T F I: l’iscrizione è riportata in BIANCOLINI

MATTEOCANATOASANLORENZO. L’ANTICODELLAPARSEPISCOPI

Evidentemente, allora, l’operazione di Matteo Canato può essere letta non soltanto come un’iniziativa autonoma, bensì come parte di un processo più va- sto. Di fatto, non è difficile pensare che, attraverso l’operato del suffraganeo, Ermolao Barbaro avocasse alla sua parte un ruolo importante nella comprensio- ne del patrimonio classico cittadino, a cui dovette aggiungere un plusvalore di- mostrativo contro le pretese delle autorità comunali che tanti problemi gli aveva- no creato28: giacché il riordino di San Lorenzo, oltre a risolvere problemi pratici

di manutenzione e di ammodernamento, permetteva, grazie all’esibizione di co- noscenze antiquarie, di rispondere a quell’isola “all’antica” che si era venuta formando tra San Zeno e San Bernardino, dove Correr era stato capace di attrar- re a sé, per quanto inutilmente, le simpatie delle autorità civiche.

Sebbene fosse stato meno zelante dell’abate nell’insinuarsi entro le pratiche degli umanisti, sebbene al suo intervento diretto possano essere imputate com- missioni meno eclatanti, quali la copia miniata del De Bello Turcorum, realizzata tra il 1460 e il 147129, Ermolao – che le testimonianze indicano come piuttosto

sobrio in fatto di gusti artistici – ebbe il merito non soltanto di aver curato le residenze vescovili extra moenia30, ma soprattutto di aver protetto un ristretto

quanto agguerrito gruppo di intellettuali veronesi: come segretario avrà al suo fianco il già menzionato Panteo; suo tesoriere sarà Antonio Beccaria, ecclesiasti- co di alta influenza negli ambienti veronesi, legato agli agostiniani di San Leo- nardo (ai quali lascerà la sua biblioteca) e agli olivetani di Santa Maria in Organo (dove vorrà la sua sepoltura)31; a lui indirizzerà alcuni componimenti poetici

Leonardo Montagna32; suoi cari amici saranno i membri della famiglia Banda,

impegnati nelle cariche civiche come negli studi liberali33.

Questo, infine, spiegherebbe anche perchè non fosse né irrilevante né occa- sionale che i primi e più importanti exploits in fatto di recupero dell’antico (a San Bernardino come a San Lorenzo) si fossero manifestati sotto la pressione di esigenze politiche ben precise. Un contesto simile, inoltre, permette sia di giusti- ficare la rivitalizzazione di strumenti prestigiosi – come la cultura classica –, fun- zionali per chi li usava a sostenere il valore delle proprie posizioni, sia il fatto che

28 Sulle dispute tra Ermolao Barbaro e le autorità civili, precedute dalla cattiva accoglienza riservata al

presule al suo ingresso in città: SORANZO 1915, pp. 63, 188; BRUGNOLI 1965, pp. 362; MARCHI 1973, pp. 311- 318; BOTTARI 2006, pp. 60-69. La questione aveva coinvolto anche Canato: quando il vescovo fu costretto dal Comune a rinunciare alla gestione dei benefici ecclesiastici, il vicentino non risparmiò pesanti accuse a Pao- lo Filippo Spolverini, uno dei rappresentanti civici, definito «inimicus Dei et excommunicatus et hereticus» (MARCHI 1973, p. 315).

29 CASTIGLIONI 1986, pp. 62, 96, n. 34.

30 Per la residenza di Monteforte d’Alpone: SCHWEIKHART 1988 (b), p. 84; BRUGNOLI 2002, pp. 20-36. 31 Beccaria nel 1458 veniva nominato tesoriere della Cattedrale. Su di lui rimangono fondamentali PERPOLLI

1915, pp. 44-45; MARCHI 1966-67 (b), pp. 57-95; MARCHI 1966 (b), pp. 452-458; AVESANI 1984, pp. 79-83; BOTTARI 2006, pp. 70-75.

32 BIADEGO 1893, p. 18; AVESANI 1984, pp.145-173. 33 BRENZONI 1958 (a), pp. 279-287.

tale ripresa avvenisse sotto la guida di quelle personalità che – trovandosi a occu- pare dei posti chiave – furono obbligate a elaborare adeguati messaggi di propa- ganda; e che per la loro formazione “forestiera”, maturata in ambienti umanistici più maturi, ritennero spontaneo affidarsi all’antico. Veneziano era Gregorio Correr, al quale era legata con un sottile filo rosso la commissione di San Bernar- dino; veneziano era Ermolao Barbaro, al quale era connesso Matteo Canato. Vi- cini agli ambienti padovani, poi, erano molti dei personaggi a vario titolo coin- volti in queste imprese: lo era l’antiquario Feliciano, a cui vanno addebitati pro- ficui legami professionali e personali, in primis con Mantegna e con il dotto Gio- vanni Marcanova34; forse lo era in qualche modo lo stesso Francesco Benaglio,

per il quale è stata molte volte ipotizzata un’influenza patavina, seppur declinata in una chiave squarcionesca35.

Che, ad ogni buon conto, anche le classi locali fossero pronte a recepire il valore dell’antico, venne testimoniato non solamente dalla sentita partecipazio- ne dell’élite veronese alla nascita, allo sviluppo e alla decorazione di luoghi come il convento di San Bernardino, ma soprattutto da quegli episodi, di poco succes- sivi, che saranno analizzati tra breve.

34 Su Giovanni Marcanova: CHIARLO 1984, pp. 284-286; DE MARIA 1988, pp. 22-24. Del resto, il cosid-

detto codice Marcanova nella seconda metà del Quattrocento era a Padova: CHIARLO 1984, p. 293.

35 Che Francesco Benaglio, nella sua vicenda personale, avesse avuto dei legami con la città euganea è

stato sottolineato per vari motivi, che includono una sua eventuale fuga a Padova per sfuggire alle ire di Cristoforo Sagramoso, oltraggiato dalle immagini irriverenti che il pittore aveva dipinto sul suo palazzo (SI-

MEONI 1903), un’architettura di matrice patavina sullo sfondo della Madonna con Bambino del Museo Jac- quemart-André (MARINELLI 1990, p. 649) e la ripresa del fregio fitomorfo del San Cristoforo condotto al martirio (ROSSI 2006, p. 107). D’altro canto, non pare casuale che proprio a lui i frati di San Bernardino avessero commesso l’esecuzione di quella che doveva essere una “copia” del trittico Correr.

A buon diritto, si può asserire che le iniziative di Matteo Canato funsero da volano per imprese più consapevoli e di più ampia estensione. Di fatto, qualora volessimo approfondire la conoscenza dell’ambiente della cattedrale, non sor- prenderebbe trovarvi, a partire da questo frangente, un fervore di commissioni che si assestano senza indugio e con entusiasmo entro i binari di un recupero dell’antico, esibito come attestazione di cultura, di spiritualità e, naturalmente, di ricchezza e potere. Per il quale, tuttavia, vanno chiarite alcune peculiarità, dal momento che, pur svelandosi tutti all’interno del ceto ecclesiastico, tali interven- ti dipesero da motivazioni divergenti da quelle che nutrirono Matteo Canato, connotandosi anzi quasi come una reazione, piuttosto che un seguito, alle deci- sioni del gruppo episcopale.

A partire dalla metà del settimo decennio molti canonici si rivelarono parti- colarmente interessati a predisporre in duomo la loro sepoltura. Non si trattava – come aveva fatto lo stesso Canato – di costruire un monumentum, termine che sovente indicava una tomba terragna decorata da una lastra, sulla quale si staglia- va il nome del defunto o della famiglia, accanto alle insegne gentilizie1. I canonici

più ambiziosi destinarono ingenti risorse a cappelle vere e proprie, nelle quali prevalse un modello uniforme: una struttura absidata era incorniciata verso la navata da un arco e terminava a sua volta con una guglia, a cui si attaccavano le lesene, scolpite a tralci vegetali o a candelabre; sulle imposte dell’arco erano po- sizionate, da ciascun lato, le statue dei santi titolari o di altri personaggi sacri, mentre sulla cima della guglia si trovava una terza statua, rappresentante, di volta in volta, Dio Padre, la Trinità, Cristo risorto o un profeta. Infine, la porzione di parete esterna veniva decorata con complessi architettonici dipinti, ispirati a edi- fici classicheggianti. Le cappelle, in tal modo, assumevano l’aspetto di un organi- smo in cui comparivano architettura, scultura e pittura: ne discendeva un’inte- grazione di tutte le tecniche, che permetteva alla scultura e all’architettura di sfruttare gli effetti della policromia, delegando alla pittura il compito di cimen- tarsi nella mimesi di statue ed edifici.

Le cappelle della cattedrale. L’antico dei canonici

Una siffatta omogeneità strutturale e iconografica può essere spiegata pre- supponendo, da un lato, l’assenza di architetti veri e propri, dotati di una solida preparazione teorica e inventiva (cosa che del resto i documenti confermano, nel loro silenzio quasi assoluto sull’esistenza in città di professionisti acclarati)2; dal-

l’altro, ipotizzando che tale carenza venisse supplita dalla volontà dei commit- tenti, i quali, appartenenti a un medesimo alveo culturale, esprimevano esigenze e gusti assai simili. Ovviamente, ai canonici non mancavano le occasioni di con- tatto: Giacomo Abazia e Giovanni Maffei erano presenti, nel 1455 e nel 1457, ad alcune collationes3; nel 1458, all’atto di costituzione di due benefici, compariva-

no i canonici Bartolomeo Cartolari, Bartolomeo da Legnago e Giacomo Abazia4;

nel 1484, al testamento di Filippino Emilei, erano registrati Paolo Dionisi e Gi- rolamo Maffei (quest’ultimo nominato commissario)5; nel giugno dello stesso

anno, a una locazione della pieve di Illasi, presenziavano Filippino Emilei e an- cora Girolamo Maffei6; nel 1493, al testamento di Giovanni Emilei, nipote del

canonico, compariva nuovamente il Maffei7; nel 1497, al testamento del canoni-

co Prando Calcasoli sarà presente Giovanni Abazia, nipote del canonico Giaco- mo e canonico lui stesso8.

E non mancavano nemmeno richieste ancor più idonee a motivare l’unifor- mità delle cappelle: allorquando Bartolomeo da Legnago, nel 1471, predispone- va che venisse eretta una cappella dedicata a Sant’Antonio da Vienna (l’attuale cappella Calcasoli, dal nome del nipote Bernardino che ne curò l’esecuzione), esigeva che essa fosse fatta «ad similitudinem capellam institutam per quondam venerabilem dominum Bartholomeum de Cartulariis olim canonici Verone, in muro altero dicte ecclesie majoris»9.