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CAPITOLO 1 LA CARDIOPATIA ISCHEMICA: NOZION

1.6 Diagnostica Strumentale

1.6.3 Imaging cardiaco

Nei pazienti con infarto miocardico l’ecocardiogramma bidimensionale mette costantemente in evidenza zone di alterata cinesi: il rilievo di zone ipocineti-

che o acinetiche permette non solo di confermare la diagnosi d’infarto, ma an-

che di definire la sede in misura molto più precisa di quanto non consenta l’elettrocardiogramma. Oltre all’alterata cinesi, la zona infartuale presenta an- che un minor spessore rispetto alle zone di miocardio non necrotico. La stima della funzione ventricolare sinistra, effettuata con l’ecocardiogramma tramite il calcolo della frazione d’eiezione (EF), si correla bene alla stima di questo valore ottenuta per via angiografica, ed è un utile elemento per formulare un

giudizio prognostico.

Se l’ecocardiografia è affidabile nello scoprire e localizzare un infarto, meno precisa è nel quantizzarne l’estensione, poiché non è in grado di distinguere con esattezza tra tessuto necrotico e tessuto ischemico: entrambi, infatti, si contraggono in modo anomalo e quindi spesso l’ecocardiografia può sovrasti- mare la reale estensione della necrosi. Oltre a questo, l’ecocardiografia non è

in grado di distinguere, se usato da solo, uno STEMI da una pregressa cicatri-

ce miocardica da infarto, perché entrambe le situazioni si presentano con un’alterata cinesi. Per questo l’ecocardiografia si dimostra utile come esame complementare all’ECG e al rilievo dei marker chimici.

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Quando l’ECG non è diagnostico, la precoce osservazione della presenza o as- senza di alterazioni della cinesi parietale all’ecocardiogramma può aiutare a decidere se il paziente debba o no ricevere una terapia di riperfusione; l’esame

è quindi particolarmente utile nella diagnosi precoce, al letto del malato, e per

la diagnosi della maggior parte delle complicanze meccaniche dell’infarto: a-

neurisma, difetto interventricolare, malfunzionamento o rottura di un muscolo

papillare, rottura della parete libera con tamponamento cardiaco. Inoltre è la

tecnica più semplice e affidabile per diagnosticare un versamento pericardico o l’eventuale presenza di trombi ventricolari.

Infine, con l’ecocardiografia si può rilevare un’alterata motilità delle pareti del ventricolo destro, una sua eventuale dilatazione e una riduzione della sua fra-

zione di eiezione; questi sono tutti elementi che consentono di diagnosticare

con sicurezza un infarto ventricolare destro, la cui diagnosi secondo criteri cli-

nici ed elettrocardiografici può essere spesso difficile se non impossibile.

È doveroso citare l’imaging con radioisotopi come la scintigrafia miocardica

con 201tallio o 99mtecnezio. Queste tecniche sono utili per valutare con preci-

sione i parametri morfologici e funzionali di un IMA, ma spesso risultano in-

daginose nella situazione di emergenza imposta dall’infarto; oltre a questo, tali tecniche non riescono a distinguere, come l’ecografia, una lesione cronica miocardica da un infarto in atto, e quindi difettano in specificità per IMA.

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1.7 Complicanze dell’IMA

Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre grandi gruppi:

complicanze aritmiche; complicanze emodinamiche, come la compromissione

della funzione di pompa, le rotture (del setto, del muscolo papillare, della pa-

rete libera), l’infarto del ventricolo destro e l’aneurisma; complicanze ische-

miche per estensione della necrosi, o per l’angina precoce postinfartuale. A

queste se ne aggiungono altre non inquadrabili unitariamente, come i fenome-

ni trombo-embolici, la pericardite epistenocardica e la sindrome di Dressler. È

importante tenere presente che molte di queste complicanze possono coesiste-

re e complicare simultaneamente o in tempi successivi l’evoluzione di un me-

desimo infarto.

1.7.1 Complicanze aritmiche

Nella fase acuta di un infarto possono insorgere pressoché tutte le aritmie; in

questo contesto esse assumono un significato particolarmente grave perché

possono influire negativamente sulla funzione di pompa del cuore, che è già

compromessa e possono portare a un’estensione della necrosi sia attraverso una ridotta perfusione coronarica, sia attraverso l’aumento del consumo di O2; possono infine, anche le meno pericolose, evolvere rapidamente verso le arit-

mie maggiori, come la fibrillazione ventricolare o il blocco atrioventricolare totale e l’asistolia.

Le extrasistoli ventricolari compaiono probabilmente nel 100% dei casi d’infarto: quando hanno alcune caratteristiche particolari (frequenza superiore a 10/min, bigeminismo e trigeminismo, presenza di coppie, precocità con fe-

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nomeno R/T, cioè l’extrasistole insorge in corrispondenza dell’onda T del complesso precedente, multifocalità) possono evolvere rapidamente verso la

tachicardia ventricolare e verso la fibrillazione ventricolare.

La tachicardia ventricolare insorge quando tre o più extrasistoli ventricolari si

presentano in rapida successione; possono presentarsi come brevi salve di e-

xtrasistoli, oppure essere persistenti. Nel caso delle brevi salve, spesso non si

hanno conseguenze emodinamiche ma il rischio di fibrillazione ventricolare è

molto elevato. Nel caso di tachicardia ventricolare persistente (frequenza tra

150 e 200/min) si verifica una riduzione marcata della portata cardiaca cui si

associa ipotensione, ipoperfusione coronarica, con aggravamento del fenome-

no ischemico. Si instaura un circolo vizioso che rapidamente aggrava il quadro

clinico; in alcuni casi l’esordio della tachicardia ventricolare si accompagna a

sincope per la brusca riduzione della portata a livello cerebrale. Una forma

particolare di tachicardia ventricolare è il cosiddetto ritmo idioventricolare ac-

celerato: in questo caso la frequenza della tachicardia è molto più bassa (90-

100/min) e le conseguenze emodinamiche sono minori, il rischio di evoluzione

verso la fibrillazione è molto modesto; spesso quest’aritmia insorge alla pre-

senza di una bradicardia sinusale.

Nella fibrillazione ventricolare i ventricoli si contraggono con una frequenza

tra 400 e 600/min, in modo desincronizzato; il cuore è praticamente fermo e si

instaura il quadro dell’arresto circolatorio, con danno cerebrale irreversibile

nel giro di pochi minuti. La fibrillazione ventricolare è suddivisa dal punto di

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nel primo caso essa insorge in pazienti per il resto non complicati e con una

buona situazione emodinamica; la seconda complica i quadri di grave deficit

emodinamico e spesso ne rappresenta l’episodio terminale.

È di fondamentale importanza ricordare che la quasi totalità delle morti preo-

spedaliere in caso d’infarto sono dovute a fibrillazione ventricolare primitiva;

essa, quindi, non è legata alla gravità della necrosi dal punto di vista emodi-

namico. Tuttavia, poiché la maggior latenza nei tempi di ricovero di un infarto

è legata al ritardo con cui il paziente avverte il medico, o comunque richiede un’assistenza, la soluzione di questo problema si basa fondamentalmente su una corretta educazione sanitaria che informi la gente sui sintomi d’allarme di un attacco coronarico.

Le aritmie sopraventricolari, come la comparsa di flutter o fibrillazione atriale,

complicano il 5-10% degli infarti miocardici. La loro insorgenza è spesso e-

spressione di una compromissione funzionale del ventricolo sinistro con au-

mento della pressione telediastolica e conseguente dilatazione dell’atrio sini-

stro; probabilmente è proprio la dilatazione atriale il meccanismo più comune d’innesco di queste aritmie. Pur essendo molto meno gravi delle aritmie ven- tricolari maggiori, esse richiedono una diagnosi precoce e un trattamento im- mediato per due ragioni: l’elevata frequenza ventricolare, che caratterizza que- ste aritmie nella maggior parte dei casi, comporta un aumento del consumo

miocardico di O2 e quindi tende ad aggravare l’ischemia e può comportare

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questi casi con funzione ventricolare sinistra già depressa) comporta una ridu-

zione della portata cardiaca e quindi peggiora il quadro emodinamico.

La bradicardia sinusale complica più frequentemente le fasi iniziali di un in-

farto inferiore ed è causata da un ipertono vagale. La sua importanza è legata

al fatto che può ridurre (se di grado elevato) la portata cardiaca; inoltre spesso

la fibrillazione ventricolare insorge improvvisamente proprio in presenza di

bradicardia spiccata.

La comparsa di blocchi atrioventricolari, da un punto di vista elettrofisiologi-

co, ma anche da un punto di vista clinico pratico, è utile che sia distinta in base

al fatto che essi si verifichino per interessamento delle strutture del tessuto di

conduzione sopra il fascio di His (blocchi soprahissiani) o per alterazioni a li-

vello del fascio di His e della sua suddivisione nelle branche (blocchi hissiani

o sottohissiani). I blocchi soprahissiani complicano più spesso un infarto infe-

riore, ma raramente sono espressione di una lesione necrotica interessante di-

rettamente il tessuto di conduzione; più spesso essi sono dovuti a ischemia o a

edema perinfartuale e pertanto sono transitori. All’ECG si presentano come

blocchi di I grado che possono evolvere verso un blocco di II grado tipo Mo-

bitz 1 (con fenomeno di Luciani-Wenckebach) e quindi verso un blocco di

grado elevato, sino al blocco atrioventricolare totale. Abitualmente, la progres-

sione verso i gradi maggiori di blocco è lenta, i complessi ventricolari sono so-

litamente stretti. I blocchi sottohissiani si manifestano inizialmente con un blocco di conduzione intraventricolare, che all’ECG si manifesta come blocco di branca. Gli aspetti elettrocardiografici più frequenti sono l’emiblocco ante-

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riore sinistro, il blocco di branca sinistro, l’associazione di emiblocco anteriore

sinistro con blocco di branca destra e infine l’associazione di blocco di branca

destra con emiblocco posteriore sinistro. Il P-Q può essere normale oppure

può essere presente un blocco A-V di I grado. Questi quadri sono espressione

di un interessamento diretto del tessuto di conduzione da parte della necrosi; si

associano a infarto anteriore e sono più comuni negli infarti particolarmente

estesi. La loro pericolosità sta nel fatto che possono improvvisamente evolvere

in modo brusco verso il blocco totale o addirittura verso l’asistolia. La progno-

si è sfavorevole sia per la concomitante estensione della necrosi sia per il ri-

schio d’improvvisa comparsa del blocco A-V totale.

1.7.2 Complicanze emodinamiche

Shock cardiogeno e scompenso sono le complicanze più gravi, caratterizzate

dalla prognosi peggiore e da limitate possibilità terapeutiche; entrambe conse-

guono a una grave depressione della funzione di pompa del ventricolo sinistro.

Esistono vari gradi di passaggio dal quadro dello scompenso a quello dello

shock, secondo che prevalga un aumento della pressione tele diastolica del

ventricolo sinistro o una riduzione della portata cardiaca; nei casi più gravi so-

no presenti entrambi i fenomeni.Clinicamente, l’aumento della pressione tele- diastolica del ventricolo sinistro si manifesta con un aumento della pressione a

livello dei capillari polmonari. Quando questa pressione supera il valore di 15

mmHg, può iniziare la congestione vascolare polmonare (rilevabile al Rx tora-

ce); quando supera i 20 mmHg, può iniziare la trasudazione negli alveoli e

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quadro di edema polmonare acuto. Viceversa, la riduzione della portata car-

diaca è caratterizzata clinicamente da ipotensione (PA sistolica inferiore a 90

mmHg) con segni d’ipoperfusione periferica quali: oliguria, confusione men-

tale, cute ipotermica. Queste manifestazioni cliniche di shock conclamato non si manifestano abitualmente sino a che l’indice cardiaco (cioè la portata car- diaca per m2 di superficie corporea) non scende sotto il valore di 2,2

l/min/m2. Un quadro particolare di shock, con prognosi molto più favorevole

rispetto a quella dello shock cardiogeno, è lo shock indotto da ipovolemia.

La perforazione del setto interventricolare avviene quando la necrosi interessa

il setto interventricolare, con una rottura nella sua porzione muscolare. Il qua-

dro emodinamico è caratterizzato da un brusco aumento della portata a livello

del circolo polmonare per la presenza di shunt sinistro - destro acuto; la porta-

ta sistemica si riduce e il ventricolo sinistro è sottoposto a un improvviso so-

vraccarico di volume. Ne consegue rapidamente un quadro di scompenso e/o

di shock. Clinicamente la diagnosi può essere posta in base alla comparsa di

un soffio olosistolico abitualmente d’intensità elevata, massimo al mesocardio

e a volte irradiato anche verso destra, associato a un fremito; il secondo tono

può apparire ampiamente sdoppiato. La diagnosi può essere confermata con l’ausilio del cateterismo cardiaco destro, dell’ecocardiografia bidimensionale e dell’angiocardiografia radioisotopica.

Una rottura del muscolo papillare avviene quando lo interessa direttamente

con due evenienze possibili: il malfunzionamento del muscolo, con conse-

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gurgito mitralico massivo. La prima evenienza è abbastanza comune ed è dia-

gnosticabile clinicamente per la comparsa di un soffio meso-telesistolico alla

punta; il grado di compromissione emodinamica è in funzione dell’entità del

rigurgito, ma il fenomeno può essere transitorio; la seconda evenienza è per

rara e si diagnostica per la comparsa di un soffio olosistolico alla punta, che si

associa a un quadro di scompenso acuto dovuto all’improvviso sovraccarico di

volume del ventricolo sinistro.

Temibile complicanza degli infarti transmurali è la rottura della parete libera.

Circa il 5% degli infarti transmurali si complica con la formazione di una

breccia a livello della parete libera del ventricolo sinistro. La complicanza è

più frequente nelle persone anziane e nel sesso femminile; essa abitualmente

compare tra la 3ª e la 10ª giornata dall’infarto. I segni clinici sono quelli del

tamponamento cardiaco acuto. Un caratteristico aspetto è quello della disso- ciazione elettromeccanica: mentre il polso è completamente assente, l’attività elettrica del cuore si mantiene e all’ECG si rileva la persistenza di complessi

ventricolari; questa complicanza è rapidamente mortale.

L’infarto ventricolare destr colpisce circa un terzo degli infarti inferiori; questa localizzazione passa spesso inosservata per la scarsità dei segni clinici ed elet-

trocardiografici; se l’interessamento del ventricolo destro è esteso, si possono

manifestare segni di scompenso destro (congestione giugulare ed epatica) con

o senza ipotensione. L’ecocardiografia bidimensionale e la ventricolografia

radioisotopica hanno permesso di formulare questa diagnosi con molta mag-

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Un aneurisma ventricolare può comparire in circa il 12-15% dei pazienti so-

pravvissuti a un infarto. Esso è rappresentato da una zona della parete ventri-

colare che non solo rimane acinetica, ma diviene discinetica, cioè si estroflette

durante la sistole. Le zone più frequentemente interessate sono la punta e la

parete anteriore del ventricolo sinistro. Le conseguenze di un aneurisma ven-

tricolare possono essere di tre tipi: a) la sua presenza compromette la regolare

dinamica di contrazione e riduce ulteriormente l’EF; ne può conseguire un

quadro di scompenso; b) in presenza di un aneurisma sono più frequenti le a-

ritmie ventricolari, ad esempio la tachicardia ventricolare, persistenti dopo la fase acuta; c) all’interno dell’aneurisma si formano più facilmente trombi mu- rali che possono dare origine a episodi embolici sistemici. All’obiettività si ri-

leva un itto sollevante o un evidente impulso sistolico precordiale; quasi sem-

pre è presente un terzo tono. All’ECG un segno comune è la persistenza di un

sopraslivellamento del tratto ST nella sede della necrosi, anche a distanza di

tempo dalla fase acuta. L’ecocardiografia e la ventricolografia radioisotopica

consentono la conferma della diagnosi di aneurisma, la valutazione della sua

estensione e la sua localizzazione; con l’ecocardiografia è possibile anche evi-

denziare la presenza di trombi al livello della parete discinesica, e valutarne l’estensione.

1.7.3 Complicanze ischemiche

La maggior parte dei pazienti non lamenta dolori anginosi nell’immediato pe-

riodo postinfartuale. Tuttavia, alcuni di essi possono presentare dolori sponta-

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sti sintomi può essere premonitrice di una recidiva e di un’estensione dell’area

infartuata.

L’angina precoce postinfartuale ha assunto negli ultimi anni particolare rile-

vanza in rapporto all’effettuazione in fase acuta della terapia trombolitica. Se

con la trombolisi si ottiene un’efficace riperfusione, ne consegue una limita- zione dell’area necrotica, ma simultaneamente viene a crearsi una zona di miocardio “a rischio” costituita dalla zona di miocardio che è stato salvato dal-

la trombolisi, ma che è esposto al danno ischemico. Questo rischio è legato sia

alla possibile riocclusione trombotica della coronaria, sia alla persistenza di

una grave stenosi residua, su cui il trombo occlusivo si era precedentemente

formato. Per questi motivi, anche se non si manifestano sintomi di angina, è

importante valutare, abitualmente prima della dimissione, la presenza di un’eventuale ischemia residua. Ciò si attua eseguendo un test da sforzo sotto- massimale, se necessario associato alla scintigrafia miocardica con 201Tl; tutti i

pazienti con ischemia residua, sia essa spontanea o indotta dal test da sforzo,

hanno indicazione a coronarografia per valutare l’eventuale necessità di una

rivascolarizzazione miocardica con by-pass o angioplastica coronarica.

1.7.4 Altre complicanze

In caso d’infarto miocardico transmurale è possibile rilevare, dal punto di vista

anatomopatologico, la presenza di una pericardite localizzata alla regione che

sovrasta la necrosi miocardica; tale patologia è detta pericardite epistenocardi-

ca, e si presenta nel 50% dei casi di IMA. Questa complicanza si verifica abi-

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al 16% dei pazienti con infarto miocardico si rilevano sfregamenti pericardici,

ma questa percentuale tuttavia sottostima la reale incidenza della pericardite,

perché spesso gli sfregamenti sono fugaci e quindi sfuggono all’osservazione.

Oltre agli sfregamenti, la caratteristica clinica più importante è il dolore tora-

cico, che spesso pone un problema di diagnosi differenziale con un dolore i-

schemico, specie se non si rilevano sfregamenti; tuttavia, le caratteristiche del

dolore pericardico (che aumenta con l’inspirazione, si riduce con l’assunzione

della posizione seduta e abitualmente ha localizzazione e proiezioni diverse di

quello ischemico) consentono la differenziazione. L’ECG può mostrare una

ripresa della lesione subepicardica e/o un’accentuazione dell’ischemia; nel ca-

so di una reazione pericarditica localizzata, Rx torace ed ecocardiogramma

non sono diagnostici, ma lo diventano, specie il secondo, alla presenza di un

versamento pericardico diffuso.

La sindrome di Dressler, o pericardite postinfartuale, che è in sostanza un caso

particolare di pericardite postpericardiotomica, è caratterizzata da febbre e da

dolore pleuropericardico; si ritiene che la sua genesi sia dovuta a un meccani-

smo autoimmune. Essa insorge da 1 a 6, talora a 12 settimane dopo un infarto.

Il quadro clinico è dominato dalla febbre, che può raggiungere anche i 40 °C, e

dal dolore con le caratteristiche della pericardite ed eventualmente della pleu-

rite; la presenza di sfregamenti pericardici è costante, ma spesso fugace e per questo essi possono sfuggire all’esame obiettivo. L’ECG può mostrare i segni distintivi della pericardite; in questo caso essi sono più facilmente riconoscibi-

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della necrosi sono stabilizzati; l’Rx torace e l’ecocardiogramma possono di-

mostrare un versamento pleurico e pericardico.

L’infarto miocardico è una situazione favorevole all’insorgenza di embolia polmonare e sistemica. L’embolia è più frequente negli infarti estesi, compli-

cati da shock e scompenso; l’embolia polmonare è un reperto relativamente

frequente in sede autoptica; a livello clinico, la sua insorgenza sfugge spesso all’osservazione se l’embolia è di modesta entità. L’embolia sistemica può conseguire alla formazione di trombi murali a livello del ventricolo sinistro;

essa è più frequente nell’infarto anteriore e della punta, specie in presenza di

aneurisma. Con l’ecocardiografia, trombi murali sono stati rilevati in oltre un

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CAPITOLO 2 – LA TERAPIA RIPERFUSIVA DELL’IMA: REVISIO-

NE DELLA LETTERATURA ED APPROCCIO PRATICO