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Importanza di un modello organizzativo di Ernesta Rogers Vacca

Parlare di un'epoca di transizione per quanto riguarda l'organizzazione dei servizi sanitari e di quelli socio-assistenziali in Italia, può apparire come quella tipica forma di understatement anglosassone, per cui si definiscono « incresciose » o « spiacevoli » delle situazioni penose o tragiche. L'attesa della riforma sanitaria dura ormai da anni, malgrado la presenza di un pro-getto di legge completo di iniziativa governativa che stenta a venire alla luce; sembra, al momento in cui si scrive, che realmente manchi poco alla discussione del progetto — ma indubbiamente questa sensazione l'abbia-mo vissuta altre volte. Molto meno discussa e sentita sembra invece la ri-forma dell'assistenza, malgrado alcuni segni favorevoli come lo scioglimento dell'ONMI all'inizio del 1976, il passaggio alle regioni di alcuni frammenti di competenza del Ministero degli Interni, e così via. Ma si tratta ancora di frammenti, e ci sembra che sarebbe veramente grave se si arrivasse a definire la riforma dell'assistenza sanitaria e l'istituzione di un servizio sa-nitario nazionale prima ed indipendentemente da una riforma dell'assistenza.

È vero che in sede regionale sono già in corso vari tentativi di creare delle strutture socio-sanitarie che preludano alle future Unità locali di ser-vizi socio-sanitari. Ma, anzitutto, si tratta di realizzazioni ancora alla fase sperimentale, create con l'intento di stabilire situazioni di fatto da cui non sia possibile domani prescindere; inoltre, non tutte le regioni si sono ancora mosse, e quelle che lo hanno fatto, hanno operato delle scelte abbastanza di-verse, per cui sarà poi difficile arrivare ad un quadro che le comprenda tutte — con eventuali necessità di riordinamenti, modifiche, ecc. e conseguenti perdite di tempo e di denaro.

Ci sembra dunque importante discutere, almeno in linea teorica, il proble-ma di un rapporto, entro le future ULSS, dei servizi sanitari e socio-assi-stenziali, che eviti il grosso rischio di una medicalizzazione anticipata di futuri servizi unitari. Sembra, poi, esistere una certa confusione di termini, fra l'affermazione (teoricamente del tutto valida, quando si dia un significato preciso alle parole) della inscindibilità dei problemi sanitari da quelli sociali,

e le conseguenze organizzative che possono derivarne, dato che si tratta di soluzioni pratiche non univoche e tuttora da discutere nel dettaglio.

Oltre, infatti, alle leggi settoriali emanate da molte regioni (assistenza sco-lastica, assistenza agli anziani, integrazione degli handicappati, assistenza al-l'infanzia, ecc.), esistono documenti programmatici che spiegano in maniera abbastanza esplicita i fondamenti quasi filosofici delle future organizzazioni locali; questi documenti parlano quasi tutti dell'inscindibilità della salute intesa come « stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non con-sistente solo nell'assenza di malattia o di infermità » (definizione dell'OMS), e quindi ad es. della necessità che l'UL sviluppi le sue funzioni anche nel campo dell'assistenza sociale, con organismi dotati di competenza in ambedue i settori. Si parla di un approccio globale che consideri l'uomo come unità psico-fisico-sociale; di un approccio integrato, interdisciplinare o unitario (a seconda dei diversi linguaggi e preferenze). Ma al tempo stesso si parla di autonomia funzionale di ogni servizio, indicando come possibilità l'incarico di coordinamento all'uno o all'altro dei dirigenti del servizio, salvo non pre-ferire il metodo della rotazione annuale o semestrale.

Come giustamente nota un recentissimo rapporto del CENSIS,1 « si può

dire che a questa convinzione si è giunti soprattutto a partire dai temi della riforma sanitaria ». A partire, cioè, da una definizione allargata della salute, dalla considerazione dei fattori sociali a monte dei problemi sanitari, dalla constatazione che molti interventi sanitari erano in effetti sostitutivi e di copertura rispetto a carenze nell'organizzazione di servizi sociali capillarmente diffusi. Minor interesse è stato invece dimostrato per l'organizzazione dei servizi sociali intesi in senso specifico ed autonomo, con alcune interessanti eccezioni. Ci è sembrato quindi utile discutere le implicazioni che certi ap-procci ai problemi sanitari e sociali possono avere da un punto di vista orga-nizzativo. L'integrazione infatti, o l'armonia, raramente sono eventi sponta-nei: vanno ricercate attraverso processi lunghi e faticosi, e non basta collo-care servizi sotto lo stesso tetto — spesso neppure sotto la stessa direzione — per ottenerle.

È chiaro che i processi in corso attualmente sono sostanzialmente diversi da quelli che verrebbero a presentarsi una volta creata la riforma dell'assi-stenza. Al momento, tutti i tentativi di creazione di strutture locali si scon-trano con la presenza continuata di una miriade di enti; ed il massimo otte-nibile è quello del coordinamento delle attività delle loro branche locali, ferme restando tuttavia le dipendenze di ciascun gruppo di operatori dal proprio ente centrale nazionale. In questa situazione, ovviamente, moltissimo dipende dalla buona volontà e dalla collaborazione, ma non è possibile andare oltre certi limiti, dettati appunto dalle leggi relative alle organizzazioni di carattere nazionale.

Domani, le regioni si troveranno sì davanti a compiti enormi per la ricon-versione delle strutture e la riqualificazione del personale di questi enti; ma sarà allora che le decisioni organizzative prese comincieranno ad avere una importanza sostanziale. Questo articolo è il tentativo di individuare alcuni di questi problemi, partendo da ipotesi circa il significato di unitarietà, che si possono trovare nel dibattito culturale odierno.

I modi della ricerca dell'unitarietà

Prenderemo qui in considerazione tre modi di ricercare una unitarietà, che anche se non vengono espressi esplicitamente in documenti programmatici, vi sono comunque accennati nella scelta delle parole usate per descrivere i futuri servizi; ognuno sembra partire da considerazioni alquanto diverse dei problemi creati dalla attuale confusione.

Il primo modo è quello che sottolinea la complessità dei fenomeni so-ciali, e la necessità quindi di arrivare a comprenderli e valutarli in tutti i loro aspetti: di qui, la necessità del contributo di molte discipline, contributo che una volta « armonizzato », porterà ad un'offerta di soluzioni pratiche corri-spondente per completezza alla complessità dei problemi. L'aspetto di mag-gior rilievo in questo tipo di approccio è quindi da un lato la negazione che una sola o poche discipline possano esser sufficienti a farci comprendere pro-blemi complessi, perché la realtà è in sé complessa; ma mentre ora abbiamo tanti enti o servizi o operatori separati, ciascuno per affrontare una fetta di questa complessità del reale, dovremo invece costantemente riunirli tutti anche al livello più elementare dei servizi. L'unitarietà sarà il risultato dei loro sforzi e contributi specifici. Si accetta dunque l'importanza di contributi diversi qualitativamente, e degli « specialismi » — purché fusi insieme ed « integrati ».

In questo caso l'unitarietà o integrazione coincide con l'approccio inter-disciplinare, ed il problema dell'organizzazione dei servizi diventa il proble-ma di come sono distribuiti i diversi « specialismi »; come sono costituite le équipes e a quali livelli (operativo, specialistico, di programmazione e pia-nificazione). Le due tesi fondamentali in questo senso sono quelle di un ser-vizio medico-sociale unico, le cui sottodivisioni si rifanno non alla distinzione fra sanitario e sociale, ma eventualmente ai campi di intervento misto (pre-venzione per quanto riguarda diversi settori di intervento, trattamento-ria-bilitazione negli stessi); oppure servizi sanitari e sociali paralleli, ma distinti, con meccanismi di reciproca disponibilità e consultazione.

Il secondo modo considera in maniera diversa l'esistenza stessa degli cialismi. Gli inconvenienti derivanti dalla preparazione specifica degli

spe-cialisti o rappresentanti delle varie discipline vengono sottolineati in modo particolare. L'innegabile constatazione di fatto, e cioè che c'è stata una pro-liferazione di un numero enorme di figure professionali, spesso difficilmente differenziabili, e, ancora di più, la constatazione che l'esistenza di varie figure professionali, anziché portare ad una interdisciplinarietà, porta invece ad una rigidità nella configurazione dei ruoli e delle funzioni, ha condotto alla tesi dell'operatore unico. In questa situazione, il problema considerato come essenziale, ed a monte della contestazione della configurazione attuale, non è tanto quello della complessità del reale. È piuttosto quello di una messa in discussione del ruolo del « tecnico », che finora, nascondendosi dietro una cosiddetta « oggettività » o « neutralità » delle proprie conoscenze, è stato in realtà un difensore a spada tratta dell'importanza delle proprie conoscenze; queste non dovevano e non potevano essere diffuse e comunicate senza mi-nacciare il potere di chi le deteneva. Utopico quindi parlare di approccio interdisciplinare, quando non si faccia il discorso del potere che deriva di-versamente a ciascun tecnico a seconda della cosiddetta « disciplina » che ciascuna professione è riuscita a legittimare come tale. In effetti, i professio-nisti di alto status (psichiatri, medici) si sono sentiti isolati o rinchiusi in questo loro sapere, e desiderano ora « uscire nella realtà » e riappropriarsi di un contatto diretto, finora appannaggio solo delle professioni di status minore; viceversa, queste ultime considerano con interesse la possibilità di abbattere queste separazioni rigide di ruolo, e di vedere rivalutate le loro prestazioni, che possono essere assai più pertinenti al benessere dell'utente (vedi ad es. l'importanza dell'assistente nelle cure da prestare a bambini per cui il linguaggio del corpo è l'unico mezzo rimasto di comunicazione con l'esterno). L'unitarietà, secondo questa tesi, dipende dunque da una totale rimessa in comune delle ipotesi su cui si basano le operazioni pratiche, e da una notevole (o totale) interscambiabilità di ruoli. Non sarà più possibile parcellizzare la realtà secondo la disciplina di provenienza, ed il gruppo la-vorerà come un sol uomo, perché in certo senso sarà « un sol uomo ».

La terza strada all'unitarietà parte da considerazioni che non sono del tutto estranee alle prime due, ma l'attenzione è concentrata assai di più sulla realtà assistenziale attuale, che non sulla realtà in senso del tutto generale. L'accento è posto sulla negazione dell'assistenza settoriale, come chiave per un approccio che, più che integrato, è definito globale. L'assurdità del sistema attuale, risultato di anni di legislazioni sovrapposte come gli strati di depositi lasciati da successive alluvioni, per cui l'utenza è suddivisa in categorie rigide, che devono beneficiare dell'assistenza di enti diversi (l'orfano generico a di-versità dall'orfano di guerra, il bambino legittimo dall'illegittimo, il lavora-tore metalmeccanico da quello agricolo, e così via) porta alla perdita del

rapporto con la persona; l'utente non è mai tutto presente con tutti i suoi bisogni, ma solo per quella parte che rientra nella definizione data a priori delle risposte possibili a bisogni prioristicamente classificati. Di qui, sorge la necessità di considerare una utenza generale sulla base di servizi genera-lizzati ed aperti a tutti, senza distinzione di categorie. La conseguenza più deleteria dell'attuale non-sistema o confusione, è quella della « ghettizzazio-ne » o « emarginazioghettizzazio-ne »; ogni utente è incasellato in quella parte del suo bisogno con la quale viene fatto totalmente coincidere, e l'handicappato re-sterà sempre tale, fuori dei contatti con quelli che handicappati non sono (e così il malato mentale, l'anziano, ecc.). L'integrazione consiste invece nella creazione di servizi cui tutti possano accedere, sulla base di bisogni fonda-mentali riconosciuti comuni: il minimo vitale garantito, la socializzazione, ecc. L'organizzazione più importante dei servizi, secondo questo filone, è dunque quella dei servizi di base: alloggi, istruzione, mezzi di socializzazione (dalla scuola materna e asilo nido al centro sociale che accolga giovani, anziani, malati di mente o handicappati). L'esistenza di gruppi o famiglie o persone che non siano in grado di utilizzare queste strutture, che non siano portatori di problemi comuni a tutti, viene riconosciuta, ma con una certa resistenza; demandata, volta a volta o a servizi di secondo grado rispetto a quelli di base, o addirittura negata, una volta che nella dimensione « comunitaria » del territorio i loro problemi possano essere sostenuti dagli altri (utenti e operatori insieme).

Il recupero del " sociale " ed il territorio

Negli ultimi due filoni (con il loro accento da un lato sugli operatori e dal-l'altro sull'utenza) la distinzione fra aspetti sanitari e sociali dei servizi è abbastanza diversa che nel primo. Mentre infatti nell'approccio interdisci-plinare semplice, resta un'accettazione della divisione del lavoro, e del con-tributo specifico delle varie discipline, perché la realtà è così complessa che un suo approfondimento richiede in realtà metodologie diverse, negli altri due casi il problema della distinzione fra sanitario e sociale è posto in modo più problematico.

Il primo tema fondamentale è quello del recupero del « sociale » da parte delle professioni sanitarie. Il medico rifiuta di occuparsi della cura dell'organo malato, rifiuta la perdita del rapporto col malato come persona, rifiuta la considerazione della malattia come « entità » separata dalle condizioni « so-ciali » che l'hanno premessa o creata. La presenza di condizioni sanitarie ti-piche di un sottosviluppo (come la presenza endemica di tifo, salmonelle, ecc.) non è un problema soltanto medico, ma implica interventi a monte (rete di fognature e di acqua' potabile, educazione sanitaria di base). La presenza di malattie legate a certi modi di vivere tipici delle società industriali

(ma-lattie cardio-vascolari, ma(ma-lattie psicosomatiche, ma(ma-lattie da inquinamento) sono da ritrovarsi a monte nelle condizioni di vita e di lavoro (lavoro nocivo, lavoro parcellizzato e scarsamente interessante, pendolarismo, ecc.).

I medici non vogliono dunque più continuare soltanto a curare, vogliono partecipare (condurre ?) la lotta per la prevenzione. Ed è al momento ventivo che viene data la maggiore importanza; e date le considerazioni pre-cedenti, è evidente che il momento preventivo sta nel « sociale » e non nel tradizionale « sanitario ». (A dire il vero, sorge anche il dubbio se questa insistenza sulla « prevenzione » non derivi anche da un fatto molto pratico: e cioè che questa è la sola area in cui le regioni possono già da oggi legitti-mamente operare. È ovvio, invece, che per quanto riguarda la parte tratta-mento e riabilitazione, finché non siano aboliti gli esistenti enti sanitari, e sia avviata la riorganizzazione in base alla riforma sanitaria, non si può fare molto, e forse anche per questo, cura e trattamento passano inevitabilmente in secondo piano).

Comunque, in questa battaglia dei medici/psichiatri per un recupero dei problemi sociali che sono a monte dei problemi sanitari, esiste certamente un assunto non del tutto esplicitato, e cioè che saranno gli stessi medici — e gli stessi servizi sanitari — impegnati in prima linea in questa lotta. In altri termini, la competenza del medico si estende ai problemi sociali di cui sopra.

Se invece osserviamo le cose dal punto di vista dei servizi sociali, una osservazione da fare è che non esiste una classe di professionisti che parli in loro nome, allo stesso modo e con lo stesso status della classe medica. Le persone che finora hanno gestito i servizi sociali sono un gruppo eterogeneo di funzionari comunali o provinciali, alcuni (pochi) assistenti sociali, ammi-nistratori di varia provenienza professionale, ed un largo numero di perso-nale religioso o appartenente ad enti con impostazione confessioperso-nale. Non c'è stata quindi una grossa battaglia impegnata dall'altra parte, per accennare almeno alla tesi dell'esistenza di problemi sociali non collegati necessaria-mente con (e neppure a monte dei) problemi sanitari, e quindi in certo senso autonomi rispetto alla componente sanitaria. Questo in parte ha delle radici storiche, perché la sanitarizzazione di alcuni servizi fondamentali era già un dato di fatto: l'ONMI è sempre stata sotto l'egida della protezione della sanità. Per molto tempo, anzi, i servizi sociali sono stati considerati servizi ausiliari rispetto a servizi primari, quali i servizi sanitari, quelli scolastici, quelli giudiziari, ecc.

L'altro tema fondamentale è quello delle idee ed attività connesse al fatto che i futuri servizi sanitari e sociali verranno ad operare in uno specifico ter-ritorio, cioè in un ambito geografico definito, il che dovrebbe riferirsi

sempli-cernente alla suddivisione dei territori regionali in ULSS, e sottozone di queste (distretti, quartieri ecc.). In realtà, l'espressione della «territorialità » va diventando sempre più pregnante di una quantità di sensi aggiunti, spesso con colorazione retorica, che vale la pena di definire. Nel territorio si trova anzitutto la popolazione di utenti potenziali dei servizi, e, a seconda dell'ac-cento posto, si ritengono essenziali i servizi di base, cioè quelli utilizzabili da tutti e corrispondenti a bisogni generali, oppure una rete di servizi suffi-ciente a coprire tutti i bisogni possibili di quella popolazione in modo com-pleto, così da evitare al massimo la frattura con il proprio ambiente naturale. In genere, chi parla molto di « territorialità » tende a riferirsi alla seconda ipotesi, e considerare quindi come servizi di base anche servizi di uso non generale (ad es. case-famiglia o famiglie affidatane per bambini e giovani privi di normali cure familiari); mentre per i primi, l'accento sarebbe posto piut-tosto su certe « infrastrutture sociali » (come asili nido, centri sociali per anziani, per handicappati, ecc.).

Accanto a queste infrastrutture, c'è la popolazione non più nella sua veste di potenziale utente, ma di potenziale coadiutore dei servizi: è questa che « si prende in carico » i propri anziani, i propri giovani delinquenti, i propri handicappati, ecc. È al livello del territorio che si attuano la partecipazione, la gestione sociale, il controllo collettivo, ed altre utili e desiderabili manife-stazioni di socialità.

L'unitarietà dei servizi è collegata al territorio nel senso che presumibil-mente la popolazione che abita nella stessa zona ha lo stesso tipo di problemi generali che possono influire sulla situazione socio-sanitaria (tipo di occupa-zioni, tipi di inquinamenti, carenze di infrastrutture civili — acqua, fogne, scuole — cultura particolare, ecc.). È quindi necessario non solo che i servizi sociali e sanitari siano collegati in senso generale (perché il sanitario è anche sociale), ma specificamente che siano collegati in quel preciso territorio dove è possibile identificare la famosa « problematica a monte » con una certa maggiore facilità.

Mentre questo è abbastanza chiaro per quanto concerne certi tipi di azione preventiva, i discorsi sulla territorialità tendono tuttavia ad introdurre un altro fattore, quello dell'accessibilità legata alla vicinanza geografica, ed in-sieme a questo, una definizione un po' diversa di cosa dobbiamo intendere per servizi sociali, e specialmente servizi sociali di base, o generalizzabili rispetto a servizi diretti a gruppi di cittadini portatori di bisogni particolari e caratteristici, non necessariamente comuni a tutti.

La confusione è in parte terminologica, da quando si è cominciato a parlare ad esempio dei trasporti o della educazione come problemi sociali e si sono quindi detti sodalizi servizi pubblici corrispondenti (ferrovie, autobus, scuole di vario grado). Ma in un campo meno generico, sembra piuttosto

guardare quelle che si potrebbero chiamare con termine generico le « ri-sorse », o gli strumenti per un'azione di intervento sanitario e sociale. Ci siamo infatti trovati per lunghi anni davanti ad una gamma di « risorse » estremamente ristretta, che condizionava quindi le scelte possibili di inter-vento a due o tre possibilità; ed in genere queste scelte si dicotomizzavano semplicemente con un « dentro » o un « fuori » delle strutture di carattere residenziale (istituti per minori, per anziani, per handicappati, ecc.). La lotta per la deistituzionalizzazione ha portato principalmente sulla necessità di allargare la gamma delle risorse a disposizione: servizi domiciliari (sia in-fermieristici che di aiuto domestico); centri a tempo parziale (diurni o not-turni); centri residenziali piccoli e aperti (comunità-alloggio, case-famiglia, pensionati), affidamenti familiari (sia per bambini piccoli, che adolescenti che, eventualmente, anziani o malati mentali).

Queste nuove risorse a disposizione dell'utenza, e da utilizzare nel contesto di un intervento professionale, sono state anch'esse descritte come servizi sociali. E in realtà, si possono benissimo descrivere come tali; il problema attuale non è certo quello di metterle in discussione, ma di assicurarne l'esi-stenza, la capillarità e la qualità.

Il problema che tocca da vicino, tuttavia, il rapporto fra servizi sociali e sanitari è quello dell'organizzazione generale di queste risorse; chi debba essere responsabile per crearle, mantenerle funzionanti; e mediante quali mec-canismi queste risorse debbano essere messe a disposizione di chi ne ha bisogno.

Questa organizzazione generale è evidentemente un problema di carattere amministrativo-politico e definisce la fisionomia delle future ULSS in termini di modelli organizzativi. Come nota il gruppo di studio organizzato dall'AAI