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Dalla monetizzazione del rischio alla gestione della salute

di Clelia Boesi

Introduzione

La classe operaia alla fine degli anni '60 per la prima volta conduce una battaglia contro il modo di produrre, il tipo di attività di produzione e contro la divisione ed organizzazione del lavoro, investendo molteplici aspetti dello sfruttamento e dell'alienazione.

Le lotte del movimento dei lavoratori hanno fatto un salto qualitativo, reso possibile anche dall'introduzione nel processo produttivo di tecnologie avanzate che permettono in parte l'eliminazione di lavorazioni nocive e/o rischiose.

Questo per un verso; per l'altro, l'attività rivendicativa e contrattuale non ha posto solamente obiettivi relativi al processo produttivo, bensì ha allargato l'area delle rivendicazioni alle condizioni generali di vita e per un « nuovo modello » di sviluppo.

Con le lotte operaie del '68 e '69, infatti, ha inizio in modo diffuso la presa di cosicenza dell'importanza della tutela della salute in termini di prevenzione, che deve trovare come suo primo obiettivo la fabbrica, ribal-tando il vecchio e mistificatorio rapporto uomo-tecnica-ambiente. Da quel momento in poi, il movimento operaio ha portato avanti con coerenza e chiarezza, anche se con notevoli difficoltà e ristagni oggettivi, la battaglia contro una organizzazione del lavoro alienante, contro i cottimi, e per una nuova struttura sindacale: il Consiglio di Fabbrica, definito struttura sindacale di base del Sindacato. Certo, partendo proprio da tali strutture di base, anche il problema della salute viene inquadrato in una cornice diversa, basata sul superamento della delega, e fondato invece sulla parte-cipazione attiva dei lavoratori alla gestione della loro salute.

La « non delega » e la « validazione consensuale » sono i punti qualificanti di una partecipazione che si prefigga le definizioni di modalità produttive che non comportino più rischi per la salute di coloro che lavorano. In tale ottica, la situazione comporta ormai degli obiettivi concreti di inter-vento che consistono nella conoscenza dei rischi e dei danni legati agli

attuali modi di produzione, e soprattutto rilevati nelle singole realtà pro-duttive e con i gruppi operai omogenei.

È in tale logica e con tali rivendicazioni che il sindacato supera la sua vecchia logica verticistica, passando contemporaneamente da una fase di denuncia ad una fase di controllo della nocività ambientale, in cui è vitale la partecipazione del gruppo operaio interessato.

Superare la delega oggi significa incidere, partendo dalla produzione in fabbrica, con efficienti continui interventi in campo occupazionale, sociale ed umano. E questo è possibile:

1. togliendo agli imprenditori ed ai loro rappresentanti il controllo sugli effetti nocivi del lavoro sull'uomo;

2. impegnandosi in un processo ininterrotto di conoscenza della realtà ambientale, verifica dello stato di efficienza degli strumenti che assolvono al mantenimento del più alto livello di salute (dagli strumenti sindacali a quelli giuridici, al medico di fabbrica, all'organizzazione della sanità; dall'Ispettorato del lavoro, all'ENPI, ai centri di ricerca scientifica,

al-l'INAIL, alle Casse Mutue);

3. ponendo il gruppo operaio interessato ad un processo produttivo di fronte al problema del controllo della nocività del proprio ambiente di lavoro, come protagonista di una contestazione continua, che nulla può sostituire se l'obiettivo è quello di costruire un ambiente di lavoro a misura dell'uomo, sola condizione che garantisca veramente la completa

elimina-zione della nocività.1

In sintesi, la situazione che oggi si è venuta creando è una chiara volontà espressa dai lavoratori di non delegare ad altri tutto ciò che concerne la propria salute.

Parleremo più avanti dell'articolazione e delle condizioni necessarie per realizzare tale controllo da parte della classe operaia.

Certo, dal 1968 si è capito che il diritto alla salute e non la difesa dalla malattia, l'intervento sull'ambiente e la prevenzione, sono i punti fermi fatti propri dal sindacato, sui quali deve appoggiarsi la politica sanitaria. Ed è la prevenzione come rimozione delle cause, la chiave per giungere ad una partecipazione attiva, che consiste nella contestazione di rapporti di produzione e nella gestione in maniera più diretta dei problemi della classe operaia e dei problemi del territorio. Processo che necessariamente deve coinvolgere anche la popolazione, in quanto unitariamente colpita e senza distinzione, dalla nocività del modo di produrre.

Infatti, gli effetti espressi in un certo tipo di società capitalistica quali gli infortuni e tecnopatie sono causati non solo da una situazione indi-viduale del lavoratore, o almeno non in misura determinante. Le cause

di tali eventi le dobbiamo ricercare nelle condizioni socio-ambientali in cui il lavoratore-cittadino è costretto a vivere e a lavorare: condizioni che influiscono negativamente sulla personalità e sul comportamento, e che sono identificabili e prevedibili: case malsane, pendolarismo con lunghe percorrenze per raggiungere il lavoro, cattiva illuminazione, eccessivi rumori, presenza di fumi e altre sostanze nocive, ecc... nel luogo dove il cittadino

vive la maggior parte della sua giornata.2

Tutti fattori che turbano l'equilibrio psico-fisico dell'uomo e sui quali è necessario intervenire per garantire condizioni di lavoro e di vita ottimali di igiene e di sicurezza.

Di questo il movimento operaio si è fatto carico; infatti all'interno di quasi ogni contratto si trovano clausole riguardanti la salute e l'individua-zione della « prevenl'individua-zione » come momento privilegiato.

Il movimento dei lavoratori in questa fase ha preso coscienza del signifi-cato reale della malattia e del rapporto della stessa con lo sfruttamento ed il profitto, che cioè, come notava Marx, « ad ogni accumulazione di capitali corrisponde un accumulazione di miseria, anche se crescono i salari ». Infatti ad ogni aumento della produzione spesso sono legate situazioni ed effetti gravi per i lavoratori; basti pensare al continuo aumento progressivo di ulcere, nevrosi, infarti, ecc.

I sindacati, oltre a medici e altri organi competenti, hanno più volte denunciato l'esistenza sul posto di fattori' che influiscono direttamente sulla salute dei lavoratori. Ma nulla, o poco, si è modificato in proporzione alla gravità dei danni che si producono giorno per giorno. Allora, una appro-fondita conoscenza della propria situazione di lavoro non solo rientra nel quadro di un processo di educazione e sensibilizzazione di ogni lavoratore, ma costituisce anche una solida base di partenza per una valida azione preventiva.

In questo senso la presentazione, anche se schematica, dei fattori nocivi presenti nell'ambiente di lavoro riveste un ruolo non secondario.

Questi, secondo uno schema abbastanza diffuso dei sindacati, possono essere riuniti in quattro gruppi:

Primo gruppo: vi sono compresi quei fattori strettamente legati all'ambiente che di per se stessi non sono nocivi, ma che possono di-ventarlo quando vi sono eccessi o carenze: illuminazione, temperatura, umidità, rumorosità.

Secondo gruppo : riunisce i fattori nocivi connessi alla produzione. L'industria moderna, in tutti i settori, utilizza una quantità enorme di prodotti chimici. Il processo di produzione libera polveri, gas, vapori e fumi. L'uomo che lavora è a contatto diretto con acidi o sostanze chimiche di vario tipo, che assorbe prevalentemente con l'apparato respiratorio e la pelle. Queste sostanze, generalmente tossiche, per non

recare danno all'organismo dovrebbero essere ridotte il più possibile. La loro tossicità è anche in stretta relazione con il periodo di esposi-zione e con l'indice di concentraesposi-zione. Il vapore di un acido che, se inspirato per dieci minuti reca solo leggero fastidio e nessun danno fisiologico, provoca invece infiammazioni croniche e malattie quando vi si è esposti per otto ore al giorno, ogni giorno per anni. Quando la concentrazione di fattori tossici è superiore ai cosiddetti Massimi Accettabili di Concentrazione (MAC) può derivarne una intossicazione grave e tipica della sostanza nociva considerata (per esempio il satur-nismo da piombo, la silicosi dalla inspirazione di polveri silicee, il solfuro-carbonismo, ecc.). D'altra parte anche se la concentrazione è inferiore ai valori MAC, essa provoca a lungo andare malattie gene-riche, ma ovviamente altrettanto dannose.

Terzo gruppo: comprende i fattori nocivi da fatica fisica. Fino ad un certo limite la fatica è normale per l'organismo umano, fatica « fisio-logica » compensata da riposo. Quando questo limite viene superato, la fatica diventa uno stato patologico. In tale caso il periodo di riposo non riesce ad eliminare le tracce di fatica residua, che si accumulano con conseguenze dannose per l'organismo.

Quarto gruppo: La fatica specifica del lavoro industriale moderno però appartiene piuttosto al quarto gruppo di fattori nocivi, ed

esat-tamente agli « effetti stancanti » provocati dalla monotonia, dalla ripe-titività, dal disinteresse. È il prodotto dell'organizzazione scientifica del lavoro, dal taylorismo ai suoi sviluppo attuali. Da una posizione di lavoro innaturale, dal fatto di utilizzare soltanto determinati muscoli, dall'impossibilità di partecipare creativamente al lavoro, cioè da un modo di lavorare innaturale per qualsiasi individuo, deriva uno sforzo di adattamento fisico e soprattutto psichico che provoca malattie spe-cifiche da adattamento: disturbi nevrotici, ulcere gastro-duodenali, coliti, ecc...

Questo gruppo di fattori nocivi è il meno noto, ed i limiti di tol-lerabilità possono essere definiti scientificamente soltanto studiandone

gli effetti sul singolo soggetto.

Partendo dal presupposto che la salute non si deve pagare, è sorta la necessità di adottare una metodologia comune di conoscenza per poter contrattare tutti gli elementi che definiscono l'ambiente di lavoro. Essa deve tenere conto in primo luogo dell'ambiente con riferimento alle tabelle dei MAC. In mancanza di una legislazione nazionale che stabilisca i limiti di sopportabilità delle sostanze tossiche, l'Italia ha accettato i limiti di sop-portabilità definiti dalle tabelle elaborate dall'OIL in sede internazionale.

Certo, tali strumenti sono punti di riferimento utili, ma non un punto di arrivo, in quanto è l'esigenza dei lavoratori esposti al rischio che deve definire il grado di nocività, quindi anche al di sotto dei MAC. Inoltre, nonostante che l'Italia sia giunta ad uno sviluppo industriale elevato, esiste al suo interno una notevole contraddizione: è forse l'unica nazione dove

non esiste una minima base strutturale per attuare la prevenzione, né quindi una risposta alle esigenze elementari della popolazione (mascherata e giu-stificata da zone definite di sottosviluppo, nelle quali però molto spesso troviamo investimenti di grossi capitali) attraverso servizi collettivi; la verifica di ciò sono il colera, gli infortuni, le tecnopatie, le malattie dege-nerative, ecc. A questo va aggiunto che l'attuale tipo di organizzazione scientifica del lavoro tende sempre più alla parcellizzazione non solo in fabbrica, ma anche al suo esterno, attraverso forme di lavoro precario e lavoro « nero », e attraverso l'automazione, producendo un rapporto uomo-tecnica-ambiente sempre più in favore della macchina e del continuo sviluppo di ambienti nocivi all'integrità fisica dei lavoratori; non solo in termini di malattia, infortuni, morte, ma anche per tutto ciò che riguarda lo sviluppo socio-economico del paese.

Dalla monetizzazione all'autogestione

a. Storia del tipo di lotte condotte ante 1969

Se si vuole tornare un po' indietro per inquadrare meglio la maturazione del movimento operaio, si potrà vedere come l'azione sindacale in Italia dal 1945 al 1968 si sia rivolta, nel campo che ci interessa, alla determi-nazione dei livelli monetari per il rischio corso dai lavoratori, non incidendo se non in qualche rara eccezione nel rapporto dello stesso con i ritmi, gli orari, l'organizzazione. Infatti la legge che tutelava in minima parte contro le malattie professionali era la n. 1967 del 15 novembre 1952; e benché nel periodo fra il 1960 ed il 1969 i casi di tecnopatie denunciate fossero notevolmente elevati, la predetta legge ne prevedeva tassativamente 40 tipi. In tale situazione, la pericolosità e la nocività del lavoro venivano fatti risalire molto spesso al particolare sistema produttivo italiano, non alta-mente tecnologizzato. La qualità delle rivendicazioni era espressa da: più alto salario, più alta qualifica (categoria e ruolo sociale), per giungere quindi come diretta conseguenza alla monetizzazione della nocività e del rischio.

La determinazione dei livelli monetari del rischio da lavoro (detta anche più semplicemente « monetizzazione del rischio » o « monetizzazione della salute ») ha sempre voluto significare la stipulazione di un contratto fra imprenditori e lavoratori, per cui ogni lavoratore esposto ad un rischio professionale riconosciuto è un avente diritto ad una indennità: cioè viene pagato per avere la vita accorciata. Tutto ciò ha limitato il campo delle rivendicazioni, che si sono fermate alla richiesta di una maggiore indennità del rischio ed un miglior funzionamento dell'apparato assistenziale e medico messo a disposizione dall'azienda e dallo Stato.

A questo punto ci sembra importante vedere come dal dopo guerra ad oggi si è venuta maturando la posizione del Sindacato sul tema della prevenzione e della salute dei lavoratori.

Dopo la seconda guerra mondiale i grossi problemi presenti nel nostro paese fecero sì che lo spazio dedicato all'ambiente di lavoro fosse ben poco; infatti nei primi due congressi sindacali fu affrontato in termini molto generici. Il movimento operaio e sindacale riuscì però ad imporre all'Assemblea Costituente la costituzione di una Commissione apposita per 10 studio dei problemi inerenti al lavoro. I risultati di tale studio furono molto importanti, in quanto per la prima volta si prevedeva che i rappre-sentanti dei lavoratori potessero intervenire per salvaguardare la propria integrità psico-fisica.

Certo, tali conquiste misero in crisi il vecchio rapporto malattia-lavoro e proposero la nuova interrelazione malattia-organizzazione sociale del lavoro.

Dalla stessa commissione uscì poi la proposta di adottare in ogni fabbrica 11 libretto sanitario individuale, che doveva essere compilato dal medico di fabbrica, il quale aveva il compito di individuare le cause della malattia relativa ai processi lavorativi ed extra-lavorativi. Fu questa una proposta che oltre ad essere un nuovo strumento informativo avrebbe dovuto respon-sabilizzare maggiormente il medico di fabbrica.

In quegli anni la politica sindacale fu, senza dubbio, molto debole sia per la carenza organizzativa nei luoghi di lavoro, sia per le rivendicazioni, che si limitavano a richiedere la monetizzazione del rischio; a rafforzare

l'Ispettorato del lavoro,3 riconoscendo giuridicamente i comitati dei delegati

alla sicurezza e all'igiene del lavoro (eletti dalla base dei lavoratori di ogni singola unità produttiva) già esistenti in molte aziende; a delegare

all'ENPI4 e all'Ispettorato del Lavoro l'elaborazione di norme

antifortu-nistiche; a rivendicare un miglior adeguamento delle leggi relative alla sicurezza del lavoro.

Solo in occasione del IV Congresso della CGIL del 1956 si riesce a recepire una protesta fatta direttamente dai lavoratori di base, inerente alla situazione esistente nelle singole aziende e alla richiesta di una con-trattazione specifica per ogni unità produttiva, che comprendesse tutti i più svariati problemi della stessa.

Gli strumenti proposti per tale contrattazione furono i delegati alla sicu-rezza, in quanto espressione della base, e l'ENPI per le elaborazioni tecnico-scientifiche.

Solo nel 1964 poi, al Convegno dell'INCA,5 si arriva a definire il concetto

che le rappresentanze sindacali avrebbero potuto essere e quindi entrare in conflitto con l'ENPI e con i tecnici padronali, e procedere direttamente a rilevazioni sistematiche sulla nocività.

Il Parlamento dal canto suo, nel 1963 con la legge n. 15 del 19 gennaio, a seguito dei due progetti di legge, presentati da Venegoni del PCI e da Repossi della DC, delega il Governo ad impegnarsi per migliorare e rendere più organiche tutte le leggi in materia di assicurazione degli infortuni e malattie professionali.

In tale prospettiva la CGIL e l'INCA esplicitarono alcune riserve che non furono per la maggior parte recepite dal TU del 1965 (DPR 30 giugno 1965, n. 1124). Alcune di tali riserve erano: la richiesta di un'assicurazione obbligatoria per tutti quelli che dal lavoro traggono un reddito; l'estensione, e quindi la tutela, a tutte le categorie di lavoratori esposti ad un rischio; l'eliminazione per il settore agricolo e industriale di ogni elencazione tassa-tiva limitante il numero delle malattie professionali e delle lavorazioni rischiose. Gli adempimenti delle due deleghe, artt. 30 e 31 della legge n. 15 del 19 gennaio 1963, sulla quale si sarebbe dovuto formare il Testo

Unico, erano molto limitate.6 Tali limiti, per altro, erano stati fatti presenti

anche dalla Commissione dei 18 senatori e deputati che aveva il compito di fornire al Governo il suo parere in relazione al futuro Testo Unificato.

In questa sede ciò che a. noi interessa analizzare dal TU del '65 è il problema della prevenzione, affrontato solo dagli artt. 53, 173, 290: l'art. 53 dà indicazioni circa le modalità per la denuncia degli infortuni sui luoghi di lavoro e impone al datore di lavoro di indicare oltre alle cause e le circostanze dell'evento « eventuali deficienze di misure di igiene e preven-zione »; l'art. 173 rimanda l'attuapreven-zione delle disposizioni di prevenpreven-zione e assistenza tecnica e profilattica relative a determinate lavorazioni a rego-lamenti speciali da emanarsi; l'art. 290 rinvia anch'esso a regorego-lamenti speciali le misure prevenzionistiche nel settore dell'agricoltura per quanto riguarda le malattie professionali.

In conclusione, molti problemi per quanto riguarda l'infortunistica e le malattie professionali sono stati rimandati a regolamenti speciali mai ema-nati: quindi possiamo dire che la attuazione del TU non è stata niente di più di un lavoro di raccolta e coordinamento delle molte norme dei diversi testi.

Solo dopo il 1969 i problemi relativi all'ambiente di lavoro sono divenuti per i lavoratori oggetto di contrattazione specifica, con la quale l'autonomia operaia ha cercato di iniziare a rivendicare 1'« autogestione della propria salute ».

In tale direzione, anche per i limiti storici della stessa maturazione del movimento operaio, il sindacato non ha precorso i tempi; per tale motivo ci si può riferire solo alla proposizione del CNEL del 1968, quando i contratti venivano ancora stipulati con clausole che miravano a stabilire al massimo un prezzo in denaro per il rischio sopportato.

Nel 1965 il CNEL, proprio durante una fase di dure lotte operaie, decide di commissionare uno studio sull'organizzazione prevenzionistica e la legislazione della stessa, allo scopo di riordinare l'assetto legislativo. L'indagine terminò il 20 novembre 1967 e l'Assemblea del CNEL approvò diversi documenti con le seguenti proposte:

a. Delega al Governo per la Costituzione di un Comitato dei Ministri

per la prevenzione, dotato in tale campo di poteri regolamentari.

b. Riordinamento e ristrutturazione dell'ENPI.

c. Istituzione di un servizio di medicina del lavoro e di Comitati aziendali per la prevenzione.

Il CNEL fece anche delle proposte normative generali e di riordinamento, ma solo il 19 dicembre 1969 tali proposte si concretarono in un progetto di legge relativo a nuove norme per la sicurezza ed igiene del lavoro.

Gli anni successivi vedono il movimento sindacale in una fase più avanzata di maturazione ed organizzazione, intesa come volontà da parte dei lavoratori di gestione, anzi di autogestione, della propria salute. Si tratta adesso dell'espressione diretta dell'autonomia operaia, che vuole inci-dere anche a livello politico più generale, non solo nel limitato anche se importante campo della fabbrica: l'intervento sulla previdenza sociale per quanto riguarda il problema delle remunerazioni differenziate, cioè delle pensioni, servono da esempio e da verifica.

Tale atteggiamento però, non si scosta ancora molto nella pratica dalle tradizionali lotte contrattuali; infatti l'impegno del sindacato in direzione extra-aziendale in genere si è rivolto:

a) nelle singole aziende, ai problemi occupazionali per settori e rare

volte ad ambiti territoriali più o meno ampi;

b) ai problemi dell'ambiente, in modo particolare quelli che si

rife-riscono ai diritti dei lavoratori delle aree metropolitane, quali: casa, ser-vizi, ecc. che incidono direttamente nelle spese dei bilanci familiari;

c) ai molteplici problemi quotidiani vissuti dai lavoratori, quali la medicina preventiva, le infrastrutture sociali, i trasporti.

I contratti degli anni '60 si sono articolati all'interno di tali proposte e richieste; e questo fino a giungere all'autunno caldo del 1969, quando, come si è detto, la classe operaia ribalta completamente il vecchio rap-porto uomo-tecnica-ambiente sostenendo che l'ambiente è la vera causa di malattia, morte ed infortunio, denunciando globalmente i metodi di preven-zione e gli strumenti usati fino ad allora e chiaramente non gestiti dai lavoratori.

Con questo non vogliamo dire che precedentemente al '69 non vi siano