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Integrazione e partecipazione. Il caso degli handicappati

dì Ugo Mancini

Assistenza ed emarginazione: le scuole speciali

Lo sviluppo capitalistico italiano, determinando soprattutto alla fine degli anni '50 una trasmigrazione di massa e un processo di urbanizzazione sviluppatosi in modo disarmonico e deforme, ha causato profonde lacera-zioni nel tessuto sociale. A tale situazione generatrice di grosse tensioni la classe dominante ha risposto dando una maggior rilevanza al settore assistenziale con la funzione di controllo dei conflitti sociali da una parte e come sede di smistamento della forza lavoro dall'altra. Il rapporto di dipendenza, tra apparato produttivo e forza lavoro, ha finito col prevericare tutti gli altri aspetti più propriamente umani, in una logica di rigida separazione del produttivo dall'improduttivo. Le strutture assistenziali in questo contesto si saldano strettamente e funzionalmente con la società nel suo complesso. Il settore assistenziale si caratterizza sempre più come orga-nizzazione del consenso e come sacca di contenimento delle disfunzioni dei vari settori sociali. Tali disfunzioni infatti, creano bisogni che vengono convogliati verso l'assistenza (che rappresenta spesso l'unica alternativa a condizioni sociali ed economiche drammatiche), la quale li gestisce senza soddisfarli nel modo più indolore possibile, garantendo la « pace sociale » in forme più o meno evidenti di controllo della devianza. La conseguenza è l'esclusione del « deviante » dal resto della società. È dal rapporto di dipendenza tra apparato produttivo e forza lavoro, che scaturiscono le discriminazioni fondamentali del processo generale di produzione, e quindi di definizione della « norma ». « Di fatto nel decennio 1959-69 assistiamo all'esplosione di quel processo, iniziato lentamente negli anni precedenti, per cui l'industria utilizza forza lavoro forte e tende ad emarginare quella debole, che, se in un periodo di economia in espansione riesce ad essere assorbita nel ciclo produttivo, in un periodo di economia intensiva viene completamente espulsa e sostituita nel mercato del lavoro »?

È chiaro quindi che situazioni particolari dovute all'età, situazioni per-manenti o transitorie di invalidità non possono che trovare il loro sbocco

forzoso ed unidirezionale nelle istituzioni assistenziali,2 la cui popolazione

strati marginali della popolazione, gli esclusi più o meno temporaneamente dalla produzione ad abitare questi ghetti fatiscenti, dove risulta stridente la contraddizione tra presunta terapeuticità e realtà custodialistica repressiva. E sono appunto i gruppi economicamente, culturalmente e socialmente emar-ginati che vengono tenuti a bada: i disadattati, i deviami e gli handicappati.

« Ogni società sceglie un certo segmento dell'arco del possibile compor-tamento umano, ed intanto essa raggiunge l'integrazione, in quanto le sue istituzioni tendono a favorire le espressioni proprie del segmento scelto ed a proibire espressioni opposte. Per comprendere il comportamento del-l'individuo non basta esaminare il rapporto tra la storia della sua vita e le sue doti naturali, e misurare queste ultime a una normalità fissata arbitrariamente. È necessario anche esaminare il rapporto tra le reazioni a lui congeniali ed il comportamento che le istituzioni della sua cultura hanno eretto a norma. La maggior parte degli individui assume sempre, quali che siano le singolarità delle istituzioni loro proposte, il comporta-mento dettato dalla società cui appartengono. Ogni cultura afferma che questo avviene perché le istituzioni rispecchiano la più sana natura umana. Ma la ragione vera è che la maggior parte degli individui si lasciano plasmare nella forma voluta dalla loro cultura perché sono, in partenza straordinariamente malleabili, e la forza plasmatrice della cultura in cui

sono nati li trova docili ».4

Chi non sa, non può o non vuole adeguarsi alle norme comportamentali fissate dalla sua cultura, ed espresse dalla classe dominante, diventa oggetto o candidato a processi di emarginazione.

La classe dominante infatti ha la possibilità culturale politica ed econo-mica di far apparire come assoluti i principi che tutelano i suoi interessi e di emarginare quindi chi non vi si adegua.

« ...l'assistenza pubblica ai bisognosi racchiude in sé un rilevante interesse generale in quanto i servizi e le attività assistenziali concorrono a difendere

il tessuto sociale da elementi passivi e parassiti ».5

Queste brevi note introduttive non sono finalizzate ad un'analisi socio-logica sull'emarginazione, ma rappresentano un quadro di riferimento per un'analisi sulle scuole speciali, nel cui ambito si è svolta da parte di chi scrive un'esperienza diretta di destituzionalizzazione in un centro di riabi-litazione romano, al cui interno funzionava una scuola speciale.

La scuola speciale, proprio perché apparentemente si basa su di un dato oggettivo, l'handicap fisico e psichico, ha trovato sempre ampie giustifi-cazioni scientifiche al processo di emarginazione a cui sottopone i suoi utenti.

Un processo giustificato da un'apparente sequenza logica: prima si riabi-lita l'handicappato per mezzo di interventi specialistici, poi lo si reinse-risce nella comunità. Di fatto, la scuola speciale non è che il primo di

una lunga serie di passaggi istituzionali. Le sue caratteristiche fondamentali sono le stesse di quelle istituzioni assistenziali che così di frequente si prestano alle vibrate denuncie contro disfunzioni ed abusi visti comunque come migliorabili ed eliminabili con la qualificazione della spesa, il coor-dinamento dei servizi, l'utilizzazione del personale ed attrezzature speciali. Così impostando il problema si sposta l'attenzione dal nodo centrale, rap-presentato dalla forma e dalle funzioni che lo sviluppo capitalistico ha

determinato nel settore assistenziale.6

Queste istituzioni diventano il luogo dove si svolge la totalità o quasi degli aspetti della vita quotidiana, impedendo quindi la totale o quasi

libertà spaziale.7 Le possibilità di relazioni sociali sono nulle o quasi,

l'iden-tico, quotidiano svolgimento delle attività porta ad avere rapporti con le stesse persone in una situazione in cui le stimolazioni determinate da una fitta rete di relazioni sociali tra diversi vengono sostituite dalla sommatoria degli handicaps. L'uguaglianza è solo apparente dato che tutti sono trattati allo stesso modo, e tutti fanno le stesse cose, finendo per disconoscere gli specifici bisogni di ogni individuo. Le componenti strutturali dell'istitu-zione impongono i ritmi e le regole di tutte le attività, scrupolosamente controllate dal tecnico (quando c'è), che ne studia ed organizza le modalità di attuazione imponendole in modo autoritario.

In Italia nel 1960-61 c'erano 329 scuole speciali per bambini con handicap con 2.539 classi per 28.024 alunni. Nel 1965-66 le scuole diventano 672 con 5.184 classi per 54.630 bambini. Nel 1968-69 le scuole sono 880 con

7.120 classi per 66.404 bambini.8 Se dalle cifre e dalle classificazioni (spesso

poco attendibili per difetto le prime, incapaci di spiegare la realtà com-plessiva del bambino le seconde) estraiamo il gruppo dei bambini con handicap che nelle classificazioni ufficiali vengono definiti « anormali psichici » vediamo che in nove anni (dal 1960 al '69) tale gruppo rispetto al totale risulta sensibilmente aumentato dal 39% al 55%. Per capire meglio il fenomeno è utile prendere i dati relativi alla provincia di Milano e alla Lombardia. Nella prima infatti gli « anormali psichici » rappresentano il 71% del totale (sempre dei bambini con handicap) mentre nella seconda il 69%. Aggiungendo a questi dati il proliferare in genere delle scuole speciali nelle aree metropolitane, caratterizzate da forti correnti immigra-torie, se ne traggono alcune conclusioni.

Risulta evidente l'esistenza di una stretta relazione tra disturbo psichico e condizioni ambientali. Lo sradicamento forzato dal proprio ambito natu-rale, l'inserimento in un ambiente spesso ostile, i pregiudizi culturali, il sopraffollamento, la mancanza di servizi, hanno peggiorato considerevol-mente le condizioni di vita abbassando la soglia della salute, in particolare di quella psichica.

Le difficoltà di inserimento culturale (linguaggio, costumi ecc.) e le con-dizioni di miseria diventano forme di insufficienza mentale, di anomalia psichica, di turbe caratteriali.

La scuola speciale in queste condizioni finisce per unirsi alle classi diffe-renziali come sede naturale della formazione di manodopera non qualificata e/o come prima tappa di un lungo processo di istituzionalizzazione che si conclude troppo spesso nei carceri, nei manicomi o negli istituti-ghetto. Il problema dei soggetti con handicap comunque, in questi ultimi anni, è stato affrontato in modo nuovo rispetto alla tradizionale delega data alle strutture speciali. Il dibattito sempre più ampio che ha coinvolto ope-ratori del settore, e forze politiche e sociali sulle istituzioni di « ricovero », di « recupero », di « riabilitazione » (dove il « ricovero », il « recupero », la « riabilitazione » altro non sono che gli assi portanti, le giustificazioni ideologiche alla continua proliferazione di tali istituti) ha portato a mettere in crisi tali strutture, sia sotto l'aspetto assistenziale che politico.

All'interno di un processo generale di crisi economica dei gruppi sociali e politici dominanti il tentativo di accentuare il momento del controllo (attraverso queste istituzioni) su quello del consenso, si scontra con la sempre più frequente denuncia della presunta terapeuticità di queste strut-ture « speciali », che si mostrano con sempre maggior chiarezza nella loro realtà custodialistica-repressiva.

Ma la denuncia di per sé non rappresenta ancora un salto di qualità. L'alternativa esclusione-reinserimento è limitante rispetto a quella più gene-rale malattia-salute.

Le lotte esplose nel '68 hanno portato nel campo della salute ad unificare i legami tra condizione specifica, quella di malato, e condizione generale di uomo con il suo « bisogno di salute » e con la sua dipendenza dai fattori sociali ed economici. La salute è diventata un fatto globale e senza essere la proposta di un domani-senza-malattia (tipica dell'ideologia ricor-rente messa in circolo dalle case farmaceutiche) si riconosce in una oppo-sizione e lotta ad un tipo di società che produce fattori di nocività, che tende a possedere la vita dell'uomo, a definirne i bisogni ed a « razionaliz-zare » le risposte assistenziali. Per gli operatori dei servizi sociali, che si fanno carico di questa realtà, il territorio è diventato il riferimento geo-grafico-politico, i bisogni della comunità, il soggetto del loro intervento.

L'esperienza di deistituzionalizzazione

Quella a cui ci riferiamo, anche se nei limiti della sua difficile generalizza-zione, è una esperienza che, per iniziativa dei suoi operatori, ha portato un centro di recupero privato a negarsi come tale ed a dar vita ad un

processo che vede: 1) nella integrazione dei bambini nella scuola pubblica; 2) nella pubblicizzazione delle strutture assistenziali; 3) nel decentramento del servizio di riabilitazione; 4) nella conseguente trasformazione delle strut-ture in un'ottica di adeguamento ai bisogni del territorio, e 5) nella « ge-stione sociale » di queste, l'asse portante della sua politica.

Perché un'esperienza difficilmente generalizzabile ?

Il superamento all'interno del Centro dell'alibi tecnicistico, la volontà amministrativa di uscire dal meccanismo delle rette, la consapevolezza poli-tica e professionale del personale, unita da un sostegno e da una fattiva partecipazione dei genitori, ci sembrano nel campo delle istituzioni private, elementi difficilmente riproducibili, in un processo di continua aggregazione degli specifici interessi e nella comune elaborazione di un piano program-matico. Ciò non toglie che lo svolgersi dell'esperienza possa costituire in qualche modo uno stimolo ad un confronto con altre esperienze analoghe nel campo della lotta conro l'emarginazione.

Il Centro

L'esperienza di chi scrive si è svolta in un Centro di Recupero privato a « degenza diurna » per bambini con handicap, per lo più spastici, in cui oltre alle attività di fisioterapia e logoterapia, funzionava una scuola spe-ciale materna, con circa 70 bambini, ed una elementare con 9 classi per 67 bambini dai 6 ai 13 anni.

Il Centro era stato costruito all'inizio degli anni '60 per iniziativa di famiglie facoltose che avevano voluto rispondere alle pressanti richieste di assistenza determinate dall'epidemia di poliomielite del 1959. Nel 1967, dopo la diminuzione dei casi di poliomielite, il Centro intraprendeva anche l'assistenza di bambini affetti da esiti di paralisi cerebrale infantile; i bambini spastici venivano accolti il più precocemente possibile, cosi che veniva creato un Nido per bambini da 0 a 3 anni ed una scuola materna.

Questa struttura viveva grazie ad una convenzione col Ministero della Sanità, il quale prevedeva il pagamento di una retta variabile dalle 4.500 alle 6.500 a presenza giornaliera dei bambini. Già dal '70 si cominciò, soprattutto per l'iniziativa della équipe medico-psico-pedagogica e dei maestri,

ad affrontare i problemi relativi alla personalità del bambino con handicap,9

in chiave sperimentale e con il fine precipuo di mettere in luce i rapporti tra personalità ed ambiente.

Dall'esigenza di confrontarsi con il proprio quotidiano intendere e costruire il rapporto con il bambino derivava la necessità di evidenziare le interazioni esistenti tra il proprio modo di reagire, le spiegazioni più o meno fondate scientificamente date del suo handicap e il modo in cui lo si presentava e lo si metteva in relazione con gli altri.

Le personalità del bambino quindi non veniva considerata in relazione unica e strettissima con la propria limitazione, cioè in un rapporto di causa-effetto tra handicap e personalità, ma come evoluzione di un processo in cui diverse variabili interagiscono fra loro. Dal « dato » biologico e quindi dalla sua conseguente limitazione funzionale, alla sua vita materiale, alla collocazione sociale, al vissuto psicologico, alle condizioni esperienziali, con il tipo e la qualità di interazioni e comunicazioni con gli altri e con l'ambiente.

Si era usciti quindi attraverso un lungo processo da quella impostazione che vede il bambino oggettivato nel suo handicap, da un approccio avallato a tutt'oggi dalla « scienza medica », di astrazione di certi aspetti della realtà del bambino e di utilizzazione di questi in modo settoriale, costruendo tipologie compartimentali che oltre a non dare utili indicazioni sul piano diagnostico terapeutico e psico pedagogico, altro non fanno che stigmatizzare l'esclusione liberando chi entra in relazione con il bambino dalla « sensa-zione confusa » del rapporto esistente tra quel comportamento e la rete di relazioni che rappresentano il vissuto del bambino.

Il lavoro in équipe

Si trattava a questo punto di individuare i limiti strutturali e culturali che si opponevano a questa impostazione.

L'organizzazione interna del lavoro, i criteri di reclutamento e la forma-zione professionale degli operatori, l'atteggiamento delle famiglie, la gestione amministrativa non certo ultima per importanza, rappresentavano i nodi interni da risolvere. L'organizzazione parcellizzata del lavoro, la sua divi-sione per settori (medico, pedagogico, fisioterapico, ausiliario) con le sue stratificazioni, venne affrontata cercando dove era possibile di portare ad unità le funzioni, di valutare la qualità dell'intervento e dell'esperienza del lavoro prestato, rendere più elastiche le stesse fasi in cui era regolata la vita dei bambini.

La struttura architettonica del Centro era stata pensata eliminando ove possibile qualsiasi barriera architettonica e definendo spazialmente i vari momenti che caratterizzano la giornata del bambino.

A questa si era adeguata, all'interno di una visione complessiva che tendeva a regolamentare ogni momento della presenza del bambino nel Centro, la organizzazione temporale delle varie funzioni. Momenti precisi e definiti che a loro volta corrispondevano ad una organizzazione del lavoro caratterizzata da interventi settoriali, che tendevano a separare gli interventi educativi, fisioterapici e ausiliarii.

Se si pensa alla realtà di alcuni bambini il cui rapporto col mondo esterno passava attraverso le funzioni fisiologiche fondamentali, si vede

come il ruolo dell'assistente assume una rilevanza superiore a quella rico-nosciuta alla stessa mansione. Se si pensa alla fisioterapia come ad un intervento tecnico non disgiungibile dalle motivazioni del bambino verso questa, si rileva che organizzare ad orari fissi questa attività togliendo il bambino alle attività di classe, finisce per essere vissuta spesso da questo come un intervento arbitrario e gratuito. Il riportare ad unità i tre momenti educativo, fisioterapico e ausiliario significava stimolare la motivazione verso la fisioterapia, non separando questa dalle attività di classe, e realizzare un miglior rapporto tra maestra e bambino, utilizzando le esperienze e il contributo delle assistenti nell'attività di classe.

Promuovere una prassi di lavoro in équipe sembrò quindi la soluzione più soddisfacente per favorire e valorizzare il contributo di tutti gli opera-tori attraverso il continuo confronto con gli altri componenti il gruppo. Si vennero peraltro a creare delle aspettative relative alla organizzazione del lavoro, anche in conseguenza del nuovo clima di trasformazione isti-tuzionale. Infatti il vecchio Consiglio di Amministrazione formato per lo più dai soci fondatori si era dimesso, sulla base della propria incapacità a continuare la politica di pareggio del bilancio. A queste dimissioni si erano aggiunte quelle della direttrice, della vice-direttrice e dell'economa. Si trat-tava di sostituire da una parte il Consiglio d'Amministrazione e dall'altra la direzione amministrativa. Per quanto si riferisce al Consiglio d'Ammini-strazione, esso venne formato dai genitori dei bambini, che in prima persona si assunsero l'onere della gestione accettando tutti i problemi inerenti ad una gestione in deficit.

Per la direzione, si decise di sostituire questa struttura gerarchica con una struttura collegiale, di cui facevano parte due coordinatori, uno per il settore elementare, uno per il settore materno, un economo, il direttore sanitario e i due neuropsichiatri del centro.

Le aspettative create da questi cambiamenti furono forse eccessive in un primo periodo, portando in certo senso un equivoco sulle funzioni del lavoro di équipe, facendo ritenere ad alcuni operatori che fosse possi-bile a breve termine superare la gerarchia tra le professioni e la divisione stessa delle mansioni attraverso una sorta di intercambiabilità dei ruoli.

I problemi connessi a questo capovolgimento andavano ben oltre le capa-cità formative, organizzative e politiche del Centro; anche su questo pesa-vano le divisioni istituzionali in cui si svolgeva la vita del Centro, e ben presto quello che in modo più o meno consapevole emerse fu proprio il fatto che il lavoro in équipe non era riuscito ad eliminare la divisione dei ruoli e quindi la gerarchia tra professioni. L'équipe comunque in posi-tivo esprimeva la necessità di collegare le informazioni provenienti da com-petenze diverse, anche se non sanciva certo la intercambiabilità dei ruoli,

neppure per quelli che mantenevano una quotidiana continuità di lavoro con i bambini. Alcuni punti fermi emergevano comunque dal tentativo... « di ricognizione di ciò che costituisce un limite " tecnico naturale " invali-cabile e ciò che è dovuto a forme specifiche dei rapporti sociali di

produ-zione »: 10 a) si era creato un punto di riferimento essenziale attorno al

quale far coagulare le differenti iniziative individuali; b) la formazione degli operatori si poneva non più come risultato della frequenza ad uno dei tanti corsi di pseudo-specializzazione del settore, ma come intreccio strettissimo tra acquisizioni teoriche, esperienza pratica e organizzazione del servizio (questo visto non solo nei limiti angusti rappresentati dallo spazio fisico del centro ma come proiezione all'esterno di un modello che doveva coin-volgere ampi strati del settore assistenziale romano); c) si era avviato un importante processo di ridefinizione del modo di concepire il ruolo dei diversi operatori, con la conseguente demistificazione dell'ideologia del tecnico come operatore settoriale.

Con questo non si vuole negare né la presenza di pressioni corporative di alcune categorie né gli alti costi personali ed organizzativi pagati per gli inevitabili vuoti di competenza derivanti dal tentativo di ridefinire l'organizzazione del lavoro, Da ultimo il problema di fondo, mai espressa-mente dichiarato ma sempre presente soprattutto nel dibattito assembleare (l'assemblea era diventata il momento di verifica e di rielaborazione delle decisioni), rappresentato dalle relazioni di potere tra consiglio dei delegati, direzione e consiglio di amministrazione.

Il processo di trasformazione non avveniva certo in virtù di un piano programmato in tutti i suoi aspetti. C'erano indubbiamente alcune indica-zioni generali emerse da altre esperienze di deistituzionalizzazione, ma l'adattamento alla situazione specifica era il risultato di una sorta di speri-mentazione collettiva non priva di tensioni.

La dialettica tra direzione e consiglio dei delegati (composto dai rappre-sentanti dei lavoratori del Centro) era certo all'interno di un progetto comune, ma la necessità di conquistare e definire i rispettivi ambiti spesso portava a contrapposizioni determinate più dalla necessità di mantenere il