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Mortalità materna e prevenzione: carenze e prospettive

di Luisa Laloni Nobiloni

Tra le piaghe più drammatiche e sconcertanti che affliggono la nostra società è senza dubbio da annoverare l'alta percentuale di morti che si verificano tra le donne a causa o in dipendenza della gravidanza, dal parto e dal puer-perio. Il fenomeno non è soltanto italiano; ma mentre in altri Paesi lo hanno da tempo affrontato con volontà responsabile di ridurne la portata, conseguendo risultati positivi, in questo nostro Paese dove la maternità, per atavica demagogia, è sempre stata esaltata fino al mito, notiamo il triste primato della mortalità materna. Ci precedono soltanto la Romania, il Por-togallo e la Jugoslavia.

Nel raffrontare i dati statistici pubblicati dalla Organizzazione Mondiale

della Sanità negli anni 1961-19691 della mortalità materna in Italia con

quella di alcuni altri Paesi europei quali la Germania Federale, la Australia, la Finlandia, la Svizzera, l'Olanda, la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia, si evidenzia che la nostra posizione, nel 1966, era al primo posto con oltre 100 morti della madre su 100.000 nati vivi; e al primo posto era rimasta nel 1969, con 60 morti su 100.000 nati vivi. Il regresso che si è verificato è però da attribuirsi più che a specifiche misure adottate, al pro-gresso della medicina che con la scoperta di nuovi farmaci, ha potuto inter-venire positivamente in questo come in altri settori della salute pubblica. Ancora nel 1970 l'indice di mortalità materna è stato calcolato in Italia in misura del 54,5, contro l'8,5 della Danimarca, il 16,2 del Belgio, il 10 della Svezia, il 14,5 della Gran Bretagna, il 22,3 della Francia. Analiz-zando poi i dati delle singole regioni italiane, si nota che i tassi più alti sono ancora e sempre quelli del meridione. L'indice di mortalità materna in Basilicata era, nel 1971, del 104,15, in Calabria dell'81,67: dati ancor più significativi ove si consideri che soltanti il 38% degli italiani nasce nelle regioni meridionali e insulari.

Da noi il problema della mortalità materna è stato per lunghi anni igno-rato, ed anche in tempi relativamente recenti se ne è parlato solo marginal-mente, come problema collaterale a quello della mortalità perinatale, quasi che il diritto della donna di partorire e di sopravvivere al parto fosse mar-ginale e di secondaria importanza.

Tra le cause ostetriche dirette che più frequentemente provocano il de-cesso della donna per complicazioni della gravidanza, del parto e del puer-perio vi è la tossiemia, cioè lo stato tossico originato dal feto e dagli an-nessi fetali, l'emorragia del terzo trimestre e del parto, l'aborto, la sepsi, la tromboembolia, l'embolia del liquido amniotico, la rottura dell'utero! Vi sono poi altre cause indirette, dovute a disturbi preesistenti, che in conseguenza degli effetti fisiologici della gravidanza si aggravano al punto di determinare la morte: disturbi cardiaci, vascolari, gastro-intestinali, epa-tici, endocrini, metabolici.

In genere le statistiche ufficiali prendono in considerazione le cause cli-niche delle morti ostetriche e degli aborti, trascurando, o relegando in se-condo piano, quelle socio-economiche che non sono certo meno rilevanti Si pensi agli aborti bianchi, a quegli aborti, cioè, non voluti, non procurati, evitabili solo che le condizioni di lavoro della donna madre fossero meno disagiate e pericolose. Sono migliaia le lavoratrici che abortiscono a causa di lavori inadatti, costrette a lungo in posizioni scorrette, ed estenuanti ritmi di lavoro in ambienti malsani. Una statistica dell'INAM sulle assenze di lavoro dovute ad aborto, compilata su circa 200.000 donne, dà il 17% delle assenze nelle lavoratrici dell'industria, il 14% in quelle del com-mercio, il 10% delle lavoratrici del credito. Presso alcune aziende di cera-miche nella zona di Sassuolo, in Emilia, è stata rilevata una percentuale del 20% di donne gravide che non portano a termine la maternità o che partoriscono prematuramente a causa del piombo impiegato nella produ-zione. Le sostanze tossiche adoperate negli stabilimenti possono provocare oltre agli aborti, anche la sterilità, ed influire negativamente sul feto. Se! condo ì dati ISTAT si verificano in Italia tra 1.000.000 e 1 200 000 di aborti spontanei: almeno 500.000 secondo alcune stime sono conseguenza delle condizioni di lavoro.

Mentre le morti provocate da cause indirette difficilmente possono es-sere evitate, o possono esserlo in minima parte, quelle conseguenti alle alle cause dirette possono essere drasticamente ridotte con l'adozione di adeguate misure nel campo tecnico-scientifico, nell'organizzazione sanitaria ed in quella socio-economica e politica. A tale conclusione è pervenuta l'in-dagine ^ condotta negli Ospedali della Lombardia dal Prof. Francesco

Dam-brosio.2 È questa, del prof. Dambrosio, forse la prima voce autorevole che

delle autorità e di apportare un valido contributo alla rimozione di troppo consolidate strutture.

Il prof. Dambrosio, con la sua équipe, ha organizzato e condotto una prima indagine in Lombardia, studiando le cartelle cliniche delle donne gravide, morte in alcuni ospedali della regione negli anni 1966-1973. L'unico efficace strumento di analisi, infatti, era appunto l'esame delle cartelle cliniche, essendo del tutto carente, nell'attuale sistema sanitario nazionale, la collaborazione tra ospedale e medico curante che potrebbe consentire la ricostruzione della storia sanitaria e sociale del malato, ed in particolare della donna gravida. Dalla elaborazione dei dati così raccolti è partita l'in-dagine.

Presi in esame centocinquantaquattro casi di morti materne, i ricercatori ne hanno calcolato l'indice in base al rapporto tra il numero delle morti e il numero dei nati, inclusi anche i nati morti, discostandosi in ciò dalla metodologia internazionale che, per difetto di dati, considera solo il nu-mero dei nati vivi. L'indice così calcolato, è risultato più aderente alla realtà, ed inferiore a quello delle statistiche ufficiali.

Le percentuali di morti materne per cause ostetriche dirette è stato determinato nella misura dell'81,17% e quelle per cause ostetriche asso-ciate, o indirette, del 18,3%. Classificate, secondo una proposta dell'Ame-rican Medicai Association, in evitabili, possibilmente evitabili e inevitabili, nel corso degli otto anni considerati sono risultate evitabili o possibil-mente evitabili l'81,8% delle morti ostetriche dirette e il 17,2% delle morti ostetriche indirette. Complessivamente quindi la morte avrebbe po-tuto essere evitata, o possibilmente evitata, nel 69,3% dei casi.

Analizzando i dati della ricerca si rileva che, tra le varie cause di morti ostetriche dirette, quelle più frequenti e che più pesantemente incidono, sono la tossiemia, le emorragie e l'aborto, in particolare l'aborto clan-destino. Ne deriva la necessità di una più accurata assistenza prenatale e una maggior diffusione della medicina preventiva; di una maggiore e più re-sponsabile efficienza ospedaliera; e, nei casi di aborto, di più tempestivi interventi, ma soprattutto di una efficace campagna pianificatrice delle na-scite e di una adeguata legislazione che disciplini l'interruzione della ma-ternità ed elimini i drammi che derivano dalla clandestinità.

Appaiono indispensabili corsi di aggiornamento per medici specialisti: gi-necologi, anestetisti, cardiologi, neurologi, nonché per le ostetriche. Come pure appare indispensabile una campagna di educazione igienico-sanitaria da condurre a livello sociale, soprattutto per rimuovere vecchie inibizioni, falsi e dannosi pudori, radicate credenze quali per esempio il convincimento che la generalità dei disturbi che accompagnano la gravidanza siano a questa connaturali, quindi inevitabili e come tali sopportati in silenzio, anziché

essere segnalati al medico il quale, nella maggior parte dei casi, dispone dei mezzi per eliminarli.

Ai problemi specifici del settore: tutela della gestante, assistenza della donna in epoca prenatale, del parto e del puerperio, educazione sanitaria-sessuale, controllo delle nascite, aborto, sono connessi altri problemi di ca-rattere sociale, quali gli squilibri regionali e di classe, la scuola, la disciplina legislativa, lo sviluppo urbanistico.

La Costituzione sancisce l'uguaglianza dei cittadini, il dovere dello Stato di proteggere la maternità, l'infanzia e la gioventù e proclama la salute pubblica diritto essenziale dell'individuo e interesse della comunità. C'era quindi da attendersi che una delle prime misure che lo Stato repubblicano avrebbe adottato sarebbe stata la promulgazione di leggi-quadro, sì da con-sentire il rinnovamento del sistema sanitario-assistenziale e permettere alle Regioni di programmare i loro interventi. Non è stato fatto. Le varie pro-poste di riforme dell'assistenza e della sanità (la prima risale al 1959, e fu presentata dalla CGIL e dalla CISL) sono rimaste lettera morta. Le Regioni si sono trovate ad operare prive di una legge nazionale e con limi-tatissimi mezzi finanziari.

Sotto la spinta di masse sempre più numerose, che rivendicano il diritto costituzionale di disporre di quelle prestazioni dirette a garantire una più adeguata tutela sociale, anche le forze di governo hanno dovuto finalmente riconoscere l'esigenza e l'urgenza di procedere alle riforme.

Le vecchie norme per la tutela della maternità e dell'infanzia (ONMI), improntate alla politica demografica del regime, non consideravano la madre in quanto donna, ma in quanto portatrice del bambino, e solo come tale ne tutelavano la salute, senza preoccuparsi e senza approfondire se la maternità fosse voluta o subita, senza preoccuparsi o approfondire quali conseguenze la maternità avrebbe potuto avere sulla salute fisica e psichica della donna, una volta portati a termine gravidanza e allattamento. Del tutto insuffi-cienti, poi, erano le norme legislative nei confronti delle madri nubili, che seppure potevano usufruire dei consultori materni ONMI e del ricovero « segreto » in asilo materno, restavano però abbandonate subito dopo il parto. Affidate alla Provincia, quali « madri di illegittimi riconosciuti », rice-vevano un'assistenza irrisoria dal punto di vista economico, e nessun aiuto di carattere personale nelle decisioni riguardanti la loro maternità presente o futura.

Un primo riconoscimento del valore sociale della maternità responsabile si è avuto con la legge che istituisce i consultori, presidi nella lotta alla mortalità materna e perinatale. Con tale legge, n. 45 del 29-7-1975, lo Stato ha finalmente emanato norme in materia delegando le regioni a legi-ferare la disciplina del servizio. È la prima volta in Italia che una legge

af-fronta il problema della procreazione responsabile — in ciò coinvolgendo anche l'uomo — , della sessualità, dell'educazione in tale campo.

Benché fondamentalmente innovatrice, la legge, che, se rettamente attuata dalle regioni, potrebbe portare profondi mutamenti nel costume, nei ruoli nel modo di pensare fin'ora adottato, denuncia tuttavia l'affanno di disco-starsi dalle posizioni tradizionali di un paese in cui, fino a quattro anni addietro, il solo diffondere la conoscenza di pratiche contro la procreazione (la parola aborto veniva pronunciata sottovoce), costituiva reato punibile con la reclusione. Il termine « contraccettivo » o « antifecondativo » non è neppure menzionato, si preferisce ricorrere a un lungo, tortuoso giro di parole: « mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile ».

La formulazione della legge suscita non poche perplessità in ordine alla sua efficacia innovativa, qualora, come si è detto, le regioni non la inter-pretino estensivamente e non adottino strumenti legislativi tali da consentire l'attuazione, in concreto, di quel radicale rinnovamento che il popolo ita-liano ha dimostrato di volere.

In mancanza della legge quadro per la riforma sanitaria, la legge sui con-sultori, apparentemente democratica e innovatrice, si presta, da parte delle regioni meno avanzate o progredite, ad interpretazioni retrive e conservatrici, tali da neutralizzare ogni spinta progressista.

Le regioni dovranno, pur rimanendo nell'ambito dei dettami della legge, interpretarla ed integrarla, là dove essa appare imprecisa, equivoca e la-cunosa. Le leggi regionali, per esempio, dovranno prevedere per la gestante in stato di bisogno, una adeguata assistenza anche economica, per consen-tirle di decidere liberamente se portare avanti la maternità o interromperla; diversamente, una volta di più, si verificherebbe quella differenziazione ese-cranda tra classi abbienti e classi non abbienti; dovrà garantire, la regione, una informazione e una educazione che prenda l'avvio fin dalle prime classi della scuola, disponendo corsi di preparazione specifica per il perso-nale docente; promuovere misure che combattano la piaga della mortalità materna e perinatale, gli aborti bianchi, la sterilità dovuta alle condizioni di lavoro.

La legge affida alle regioni la « programmazione, il funzionamento, la gestione e il controllo dei consultori »; ma consente anche l'istituzione di consultori da parte di istituzioni o enti pubblici o privati, con gestione di-retta o convenzionata; non vi è chi non veda quale insidia si annidi in tale disposizione.

Fatalmente potrebbe verificarsi una proliferazione di enti o istituzioni improvvisate o confessionali, sorte soltanto per ottenere sovvenzioni o per

attuare una strumentalizzazione politica delle masse femminili, e se ne av-vertono già gli allarmanti segni.

Per quanto riguarda il personale di consulenza, la legge, si limita a di-sporre che questo dovrà aver conseguito un titolo specifico in medicina, o in psicologia, o in pedagogia ed assistenza sociale; non fa cenno a corsi di preparazione e di aggiornamento o di qualificazione, dando per scontata una competenza specifica in materia, che, di fatto, non esiste.

La qualificazione del personale medico, nonché quello degli operatori sociali è invece cosa essenziale e indispensabile non solo per quanto riguarda l'assi-stenza in se stessa, ma anche per quanto riguarda la prevenzione, che dovrà essere incentivata, stimolando una positiva presa di coscienza. Dovrà esser quindi la regione, nelle sue norme di attuazione, a prevedere per il perso-nale — che dovrà essere costituito in équipe socio-sanitaria — il possesso di qualifiche, l'obbligo di frequenza a corsi di formazione da istituire nelle strutture pubbliche quali le università, la conoscenza dei problemi della sessualità, della riproduzione, della contraccezione. Le leggi regionali do-vranno affrontare anche il problema dei giovani e prevedere il diritto dei minorenni al libero accesso ai consultori, dibattendo le motivazioni biolo-giche e sociali che stanno alla base della loro vita sessuale, dei rapporti sessuali prematrimoniali e della necessità di far uso della contraccezione.

Una grossa lacuna della legge riguarda l'argomento della gestione sociale dei consultori, argomento di cui peraltro si era ampiamente discusso in fase di elaborazione. La sua esclusione lascia quanto mai perplessi. La gestione sociale è strumento di azione promozionale e di partecipazione perché deve coinvolgere in una responsabilità diretta la comunità locale in tutte le sue articolazioni. È chiaramente auspicabile che nel comitato di gestione, nel quale devono essere presenti le aggregazioni democratiche del quartiere, il personale che opera nel consultorio e le rappresentanze della popolazione che fruisce del servizio, siano rappresentate anche le forze femminili del territorio.

È essenziale, e giusto, che la maggioranza del comitato di gestione sia costituito dalle donne utenti. È stata infatti determinante l'azione politica delle donne per la conquista del consultorio, come determinante dovrà essere la loro azione per garantire i contenuti sociali e culturali oltre che sanitari e assistenziali.

Il consultorio nella sua attuazione, per raggiungere le finalità per le quali è stato istituito, dovrà operativamente dilatarsi sul territorio fino ad assi-curare dovunque la sua presenza-funzione non generica, ma articolata per livelli; non dovrà essere un presidio passivo e isolato, dovrà operare nelle scuole per l'educazione sessuale, tra la popolazione per la sua funzione di

filtro e di promozione, nelle fabbriche per l'eliminazione delle cause degli aborti bianchi, negli ospedali per i collegamenti con i reparti di cure inten-sive neonatali e con i reparti di ostetricia per le gravidanze a rischio.

Il consultorio quindi dovrà collocarsi nell'ambito della comunità, svilup-pando una azione medica, sociale e politica.

Il problema della mortalità materna è certo un problema di assistenza specializzata e di intervento precoce in ambiente adatto; ma è anche e soprat-tutto un problema di educazione, di formazione e di informazione. La gra-vidanza e il parto non sono malattie, ma una modalità della vita femminile, che non può essere manipolata senza la partecipazione della donna. Il rap-porto tra questa e il tecnico deve essere un raprap-porto dialettico di espressione di bisogni, da un lato, e di interpretazione delle possibilità di risposta dal-l'altro, sì da pervenire ad una presa di coscienza alternativa e dell'assistita e del tecnico stesso. Alcuni messaggi dei movimenti femministi indicano giusta-mente la necessità e il diritto da parte della donna di riappropriarsi del proprio corpo, non intendendo con ciò soltanto la riconquista di una libertà, ma anche l'assunzione di una diretta responsabilità, e il rifiuto di delegare al tecnico specialista la gestione della propria maternità.

Il fenomeno della mortalità materna è certamente riducibile nelle sue dimensioni, ed in misura essenziale. Occorre inquadrarlo nell'ambito sociale oltre che in quello sanitario. L'intervento sociale dovrà concretizzarsi in una efficace campagna di informazione e di divulgazione del problema a livello individuale e di massa, capace di mettere in moto un meccanismo che porti al superamento di una concezione arcaica della funzione della donna nella società ed ad una convivenza sostanzialmente diversa da quella che cono-sciamo e che determina malessere e disagio.

Note

1 World Health Statistic Report, n. 7, voi. 26, 1973, tab. 2.1 e 2.2.

2 FRANCESCO DAMBROSIO, « Risultati di un'indagine condotta negli Ospedali in Lombardia per gli anni 1966-73 », Milano, marzo 1975.

Importanza di un modello organizzativo