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Ruolo professionale e ruolo sociale del medico: uno studio sui medici di Catania

dì Vittorio Oracolo

I medici di Catania

Questo saggio vuole presentare i risultati di una inchiesta nata come parte integrante di una tesi di laurea, vertente su « Ruolo professionale e ruolo sociale del medico ».

L'inchiesta è stata condotta a Catania nei mesi di dicembre 1973 e gennaio 1974, ma i dati rilevati si riferiscono al dicembre 1970, data del-l'ultimo aggiornamento dell'Albo professionale.

In quell'anno a Catania città, dove risiedeva il 43,2% della popolazione dell'intera provincia, esercitavano il 67,4% dei medici iscritti all'Albo provinciale (1.450 su 2.150); nel resto della provincia (527.000 abitanti, 56,8% del totale) risultavano presenti 700 medici, il 32,6% del totale. II rapporto « abitanti per medico » che se ne deriva è, per il capoluogo, di 281 abitanti per medico, mentre il .resto della provincia dispone di un medico per 753 abitanti.

Viene del resto rilevata in ogni provincia italiana la massiccia tendenza dei medici, a causa delle loro esigenze di vita personale, ad esercitare nei

capoluoghi di provincia, piuttosto che nei restanti comuni1. Il fenomeno

turba l'equilibrio tra i grandi centri urbani ed i loro entroterra a favore dei primi, in quanto si producono vistose correnti di « emigrazione profes-sionale » a livello provinciale o regionale, col conseguente impoverimento di servizi essenziali in vaste aree già deprivilegiate, cui fa da contraltare un vero sovraffollamento, nell'area metropolitana, di medici, molti dei quali provenienti dalla provincia. Infatti, i 1.412 medici, iscritti all'Albo nel 1970 ed esercitanti a Catania alla fine del 1973, si suddividono così per luogo di nascita:

Tab. 1. Luogo di nascita dei medici di Catania Modal. luogo di nascita

A Catania città

B città di Palermo e Messina C provincia di Catania D altre province siciliane E fuori Sicilia 5 5 6 2 9 288 3 9 5 1 4 4 n. 2 0 , 4 % 2 7 , 9 % 10,2% 3 9 , 4 % % 2,1% Totale 1 . 4 1 2 100,0%

Le modalità C e D2 ci indicano quanti sono interessati al fenomeno del-l'inurbamento: essi sono almeno (v. tab. 1) 683, pari al 48,3% del totale, e superano di molto il numero dei medici nati a Catania. E si può in ogni caso desumere dalla tabella che il 60% dei nostri medici viene da fuori Catania: e questa tendenza è costante nel tempo.

Un altro dato che assume rilevanza nell'universo, è il fattore età. Risul-tano 1.039, il 73,6% del totale, i medici che, nella nostra stratificazione, definiamo « anziani » e « di mezza età », ovvero quanti accusano un'età

superiore ai 38 anni, ed insieme risultano laureati prima del 19613.

Tra l'altro, difficilmente un medico inzia la sua pratica professionale prima dei 28 anni. Notevole poi, a Catania, la « longevità » professionale: tra gli « anziani », sono in buon numero quelli che superano la settantina. Per tutti questi motivi, in ogni caso, resta il dato sociologico di un'età media molto alta; il che di per sé comporta la tendenza (che verificheremo) ad atteggiamenti negativi verso « il nuovo ed il diverso », alla cautela, al conservatorismo.

Altra caratteristica dei medici catanesi, la limitatissima presenza delle donne nella professione. Le donne che esercitano la medicina a Catania sono 79, il 5,6% del totale. Il valore nazionale, per quel periodo, è del 13% di donne sul totale dei medici. Per di più, se la percentuale di dottoresse sul totale è esigua, la percentuale di donne che hanno conseguito una specializzazione è irrisoria: sono 21, cioè il 26,5% delle donne, ed il 3,1% degli specialisti. Gli specializzati di sesso maschile, invece, sono 649: il 96,9% degli specializzati, ed il 48,6% dei medici di sesso maschile.

A Catania quindi, la professione medica è un monopolio maschile, che diventa pressoché assoluto a livello di specializzazione. E non si deve dimen-ticare che i valori riguardanti la provincia indicano una presenza femminile nella professione medica ancora più ridotta.

Abbiamo comunque visto come i medici di Catania che hanno conseguito una specializzazione sono 670, ossia il 47,4%. Alla base di questa corsa di massa alla specializzazione, più della ricerca di una migliore posizione retri-butiva, ritroviamo il desiderio di affermazione personale, di maggiore pre-stigio, di un più elevato status sociale; la necessità di distinguersi, di caratterizzarsi (soprattutto in una situazione, come quella catanese, di elevata offerta di prestazioni mediche); infine, il bisogno emotivo di spogliarsi della qualifica, sentita come riduttiva, di « generico », considerato sempre più come semplice tramite burocratico tra paziente e mutua.

Ecco dunque profilarsi quello che, secondo le nostre ipotesi, è il cataliz-zatore del ruolo sia sociale che professionale del medico oggi in Italia: la mutua, vista sia come struttura organizzativa vigente, sia come l'espressione

sperimentale di una retrostante esigenza di emancipazione popolare, la « medicina sociale ».

La ricerca condotta si vuole quindi definire come una prima raccolta di dati ed indicazioni attorno a questo discorso.

La verifica delle ipotesi, minime, di lavoro, è condotta attraverso un questionario, somministrato ad un campione casuale di 44 medici, pari al 3,11% dei 1.412 medici esercitanti nel comune di Catania alla fine del 1973. Per il carattere di fondo della ricerca che abbiamo detto, rite-niamo sufficiente ai nostri scopi definire il campione adoperato, a causa delle sue dimensioni ridotte, come « indicativo » (non ancora « rappresen-tativo ») delle tendenze dell'universo di estrazione.

Il rapporto medico-mutua

Il sistema dell'assistenza sanitaria realizzata attraverso l'intervento organiz-zativo e finanziario dello Stato, è oggi il « modo d'essere » della medicina più diffuso in Europa.

Al di là dei diversi modi organizzativi nei vari paesi, il modello infor-matore è unico: la « medicina sociale », ovvero la concezione del diritto di tutti i cittadini ad una assistenza sanitaria gratuita, di alto livello quali-tativo, organizzata con capillare efficienza, sotto la specie della profilassi e sotto quella della prevenzione di massa.

In Italia, la storia della medicina sociale è, in questi anni, ancora ferma alla fase della « mutua », con attribuzione solo parziale dell'onere a carico dello Stato, con suddivisione dei cittadini in miriadi di « categorie assisten-ziali », con retribuzione di tipo quantitativo delle prestazioni mediche. Questo sistema oggi mostra la corda, e diventa sempre più improrogabile il suo superamento e sostituzione con un sistema di assistenza sanitaria più aderente ai princìpi della medicina sociale, più vicino alle reali esigenze della società italiana. La fase della mutua deve essere chiusa: della medicina sociale, la mutua è stata semplicemente la prima tappa, di innegabile importanza storica.

Se andiamo per un attimo al momento della nascita della mutua, troviamo che essa ha numerose, e composte, « matrici » sociali: i progressi della scienza, la pressione delle organizzazioni dei lavoratori, gli interessi degli im-prenditori, la nuova politica statale di intervento nell'organizzazione del sociale.

Mancano giusto i medici. Da sempre organizzati in una corporazione gelosa ed altera, da sempre protagonisti assoluti ed intransigenti della medicina, per la quale da sempre fissavano termini e contenuti e valori, i medici sono stati coinvolti loro malgrado, e travolti, da eventi esterni al loro ambito

pro-fessionale e sociale, da forze sociali nuove, impegnate in una lotta che terre-mota tutta la vecchia società e ne modella un'altra affatto diversa.

Nonostante il tentativo delle corporazioni mediche di tenersi in disparte dai fatti e dai modi della nuova società, sono queste forze nuove, adesso, a definire la nuova medicina, ed i termini in cui essa va realizzata. Ovvero, ad imporre ai medici l'aut-aut del sistema mutualistico.

I medici sono dunque i grandi « protagonisti passivi » della mutua. Il sistema mutualistico è stato da loro di volta in volta combattuto, o subito, o accettato; ma certamente, non è stato voluto da loro.

Per essi, infatti, ha rappresentato uno sconvolgimento profondo, una ride-finizione estranea alla categoria dei termini della loro professione. In molti casi anzi, è snaturato e negato lo stesso contenuto tradizionale della pro-fessione: medici che svolgono le funzioni di funzionario, di ricercatore, di analista clinico. Si tratta di attività paramediche e non mediche: non com-portano infatti il contatto terapeutico diretto con il paziente. Risulta interes-sato a questa « terziarizzazione » professionale il 30% dei medici del cam-pione: dodici su 44.

Una ancor più robusta quota di medici si è dovuta adattare a svolgere un lavoro dipendente; nel nostro campione sono 27 su 44, il 61%, coloro che svolgono una mansione esecutiva (in cliniche universitarie, ospedali, am-ministrazioni).

Ma è per tutti i « convenzionati diretti » con le mutue,4 che i connotati

della libera professione sfumano inesorabilmente, e le caratteristiche impie-gatizie emergono nette e frustranti; nella mutua infatti l'attività del medico viene condizionata dai termini del contratto con l'ente, stipulato secondo criteri burocratici, come fissazione dei livelli di retribuzione per quantità di prestazioni professionali. Queste scelte per compensare, con la possibilità di più elevati guadagni, la perdita della posizione di libero professionista.

Da ciò è in sostanza derivata la pratica professionale galoppante per la quale i medici della mutua vanno tristemente famosi; le grandi quantità di mutuati, di visite, di prescrizioni. Il livello qualitativo delle prestazioni fornite non può non soffrirne grandemente: fretta, approssimazione diagno-stica e terapeutica, mancanza di aggiornamenti professionali al di fuori di quelli di parte forniti dai rappresentanti farmaceutici, questa è la pratica quotidiana.

La prassi mutualistica ha così finito per snaturare la tradizionale figura professionale del medico « missionario »: spingendo ed ancorandolo ad una pratica mercantile di prestazioni abnormi e fortemente deviate rispetto ai fini istituzionali dell'assistenza sanitaria pubblica, e rispetto agli stessi canoni deontologici che presiedono alla professione.

Sono gli stessi medici intervistati a riconoscerlo; 22 di essi ritengono che i medici realmente fedeli ai princìpi deontologici sono meno della metà del totale, e per 14 di essi anzi i « probi » possono essere stimati ad un mas-simo del 25% del totale.

Tab. 2. Stima percentuale dei medici fedeli al codice deontologico

da 0 fino a 25% 14 » 26 » » 50% 8 » 51 » » 75% 6 » 76 » » 100% 12 non rispondono 2 Totale 44

Riaggregando in altro modo le risposte ottenute all'indicatore precedente, ricaviamo un'altra interessante informazione: nel globale, il 51,3% dei medici è ritenuto « realmente fedele », il 35,1% presenterebbe « solo una parvenza di applicazione », ed infine il 13,6% disapplicherebbe « apertamente » i prin-cìpi deontologici.

È un giudizio amaro, e severo: se si considera che è pronunciato da dei medici, e che, dalla retorica medica « missionaria », il « decalogo » deonto-logico è tenuto come summa dei princìpi fondamentali, costitutivi della professione.

Così, nel momento in cui ai paurosi vuoti organizzativi degli enti mutua-listici si aggiunge l'instaurazione da parte dei medici di una prassi professio-nale qualitativamente povera, mercantile, e « galoppante », inevitabilmente tra i mutuati si allargano gli atteggiamenti di malcontento, di sfiducia e di protesta, sia verso la mutua, sia verso i medici mutualistici.

I medici rispondono, da un lato, accusando i mutuati di essere « igno-ranti, incostanti, arroganti » (definizioni raccolte testualmente nelle inter-viste), dall'altro lato ribaltando interamente sul sistema mutualistico la re-sponsabilità della spersonalizzazione e commercializzazione del rapporto me-dico-malato: venuta meno la libera scelta reciproca, ed intermediato lo scam-bio (prima diretto) tra assistenza ed onorario, il rapporto, essi dicono, pre-cipita in una reciproca reificazione. Così, per il mutuato, il medico è un fornitore di ricette a richiesta; per il medico, il mutuato diventa un « porgi-tore di tessera » per il quale la mutua paga una quota.

Un rapporto, quindi, quello tra medico e malato, burrascoso, invelenito, con una valutazione reciproca sostanzialmente negativa. La frattura, tra i due termini del rapporto, si presenta netta, incolmabile.

Ma naturalmente l'esistenza di questa frattura non può essere semplice-mente attribuita al sistema mutualistico. Essa ha una radice più profonda e complessa, che va ricercata piuttosto nella differenziazione dei ruoli e delle reciproche aspettative tra medico e malato.

Il rapporto medico-malato

Il ruolo del medico e quello del malato sono necessariamente complementari; ma, altrettanto necessariamente, non sono interscambiabili. Da un lato, il medico che si ammala cessa di recitare, per il periodo della malattia, il ruolo di medico ed assume la qualifica esclusiva di malato; dall'altro lato, il paziente (nel momento in cui accetta di porsi, di fronte al medico ed alla malattia, solo in quanto tale) può vivere solo il continuum « uomo malato-uomo sano », mentre resta invece escluso da ogni forma di partecipazione per quanto concerne il ruolo del « curante ».

Inoltre, i due termini del rapporto non stanno allo stesso livello di valu-tazione sociale: il ruolo del medico si pone sempre come positivo, quello del malato come negativo.

L'ammalato vive infatti tale ruolo suo malgrado, ritraendone esperienze di sofferenza fisica e psichica, di ansia, di frustrazione, di disadattamento; la sua specifica aspirazione è proprio quella di negare il suo ruolo contingente (quello di malato) attraverso la guarigione. A tale scopo si rivolge, « disar-mato », con istintiva soggezione, al medico, tecnico monopolista della salute.

Inversamente e reciprocamente, il medico ricava da questo rapporto la sua ragion d'essere professionale; ne ottiene soddisfazione professionale, pre-stigio sociale, gratitudine del malato.

Così il medico si pone come il termine predominante del rapporto, nel quale si crea un canale unidirezionale di passaggio dei contenuti: dal medico al malato.

Non si tratta già più di autorità professionale, ma di autorità tout-court. Un esempio di come questa autorità può essere tradotta nel concreto, lo rin-tracciamo nel fenomeno della propaganda politica « a tappeto » cui non pochi medici sottopongono i loro pazienti in periodo elettorale. Questa prassi è confermata da 28 dei 44 intervistati a Catania: il 64%.

La « frattura » quindi è la garanzia stessa della continuità di ruolo per il medico, e non la conseguenza della introduzione della mutua. Quest'ultima anzi ha gettato le basi per un riavvicinamento dei termini della frattura, introducendo il concetto programmatico della partecipazione dei cittadini alla gestione della salute, il cui primo passo consiste nella acquisizione dell'assi-stenza come un diritto del cittadino.

Questo è potenzialmente un vero attentato alla definizione tradizionale dei ruoli che abbiamo dato: il malato non si pone più solo come tale di fronte al medico, ma resta un cittadino, cosciente del diritto che ha alla presta-zione, un cittadino che chiede di poter gestire la salute di tutti, regolando in senso limitativo la deroga assoluta tradizionalmente fattane ai medici.

L'acquisizione dell'assistenza sanitaria come diritto raschia la patina della « elargizione di sapiente bontà » su cui si fonda tradizionalmente l'autorità professionale ed il prestigio del medico, e a cui deve farsi risalire la « frat-tura di intenti » tra medico e paziente. Parecchi dei medici intervistati percepscono e denunciano esplicitamente questo fenomeno: « abbiamo perso prestigio perché oggi l'assistito considera un diritto la prestazione sanitaria », dichiarano. I medici sentono di perdere posizioni nel momento in cui « l'assi-stito beneficiato » diventa « lavoratore avente diritto ».

La maggioranza dei medici rifiuta di confrontarsi con questa concezione dell'assistenza sanitaria: chiede semplicemente che venga abbandonata. Che si opponga una chiusura intransigente ad ogni forma e proposta di parteci-pazione del « profano » cittadino alla gestione della salute pubblica.

« La medicina ai medici ! », è lo slogan barricadiero di quella che è la più organizzata battaglia conservatrice combattuta oggi in Italia da un ceto professionale.

Combattuta non solo contro la mutua,, ma, con ancora maggior violenza, contro la riforma sanitaria, che dovrebbe consentire l'evoluzione della mutua nella direzione della medicina sociale: per troppi medici, l'unico modo sod-disfacente di « superare » la mutua, è dimenticarla.

Così, le misure auspicate dalla maggioranza dei nostri intervistati per ovviare alla crisi della mutua vanno dalla abolizione del « terzo pagante » (lo Stato), al ripristino della libera professione, alla « dignità » del paga-mento diretto, al « ritorno » ad un atteggiapaga-mento di « fiducia e rispetto » da parte « dell'assistito ». Se a questa richiesta aggiungiamo quella, di segno corporativo, del numero chiuso nelle Facoltà di Medicina (auspicato dai due terzi degli intervistati), accompagnato da « un tirocinio professionale molto più selettivo », avremo chiaro il modello di riferimento professionale cui questi medici si rifanno: in breve, la riproposizione mitizzante di « rapporti

professionali ormai travolti dal progredire dell'organizzazione sociale ».5

Ma non si tratta solo di questo. Dietro il dato professionale, emerge chia-ramente quello sociale. L'abolizione del sistema mutualistico, ed il ripristino della libera professione vengono visti dal medico come riconquista della pro-pria indipendenza ed autodeterminazione professionale, ed insieme come rein-tegrazione delle gratificazioni di ruolo e scongiurarnento della minaccia di caduta di classe, un riconoscimento della propria stabile collocazione nella classe media-superiore.

La collocazione di classe dei medici

Quello che a livello professionale è già per i medici un dato di fatto (la burocratizzazione, lo svolgimento di mansioni esecutive), non trova ancora una corrispondente traduzione a livello di dinamica di classe (la « proletariz-zazione »), se non sotto specie di tendenza.

Questo rallentamento del processo di adattamento del sociale al profes-sionale è, in parte, dovuto alla continua battaglia condotta dai medici a difesa della loro definizione di classe. Inoltre, sono ancora ben saldi gli elementi della continuità di classe: la categoria medica si colloca ancora univocamente all'interno della media borghesia.

a) Innanzitutto, il ruolo sociale che il medico continua a giocare: egli,

nella sua attività professionale, funge da meccanismo di controllo della conservazione e ricostituzione della forza-lavoro. La sua è un'attività di « com-plemento indispensabile » del ciclo di produzione, pur non avendo egli una funzione di protagonista all'interno di esso. Egli è un « produttore di ser-vizi »; già in base al suo ruolo professionale egli è quindi un componente

della « classe media », che è, nella accezione che al termine dà Sylos Labini,6

la classe dei « produttori di servizi », contrapposta ai « produttori di ric-chezza ».

b) Nel momento in cui la funzione del medico rispetto al processo di

produzione (e quindi anche la sua posizione nel rapporto tra le classi) viene precisata, si stabilisce « l'importanza » sociale del medico, e di conseguenza la gratificazione e la retribuzione economica da attribuire al ruolo. Queste « ricompense », elevate, finiscono per essere anche « descrittive » della ap-partenenza ad una classe, se non dirigente, senz'altro superiore.

I medici godono di un reddito medio più alto di ogni altro gruppo

pro-fessionale; 7 ed ai medici italiani in particolare spettava nel 1970 il reddito

più elevato tra tutti i medici europei,8 aggirandosi attorno al milione di

lire mensili in media. Nello stesso periodo, il reddito nazionale annuo per componente della popolazione attiva era in Italia di lire 2.171.000; i medici, con i loro 12 milioni l'anno, si muovono attorno ad una cifra quasi sei volte superiore. In altri termini, i sanitari italiani, pari al 4,2 per mille della popolazione attiva, si dividevano nel 1969-1970 il 24,3 per mille dell'intero reddito nazionale.

La stima di un milione di lire al mese al 1970 risulta valida anche per i medici catanesi; però, per quanto riguarda la Provincia di Catania, il red-dito medio annuo per componente della popolazione attiva scende a 1.730.000 lire. I medici catanesi guadagnavano sette volte tanto-, essi, che al 1970 costituivano l'8,3 per mille della popolazione attiva della provincia, assorbi-vano il 57,6 per mille dell'intero ammontare del reddito provinciale.

c) Dalla ricerca condotta tra i medici di Catania, si possono trarre inte-ressanti informazioni per quanto riguarda la posizione di classe dei medici catanesi: sia attraverso la provenienza di classe che dichiarano, sia attraverso l'autocollocazione che essi prefigurano.

Un indicatore sicuro della provenienza sociale è la professione del padre. Le modalità adoperate nella codifica dell'indicatore all'interno del questionario adoperato sono state scelte in modo da rendere confrontabili i dati con altre

ricerche precedenti: sono infatti quelle adottate sia ne I laureati in Italia,9

sia nel IV Rapporto sulla situazione sociale del Paese del CENSIS. 10

Abbia-mo in tal Abbia-modo potuto costruire una tabella di confronto:

Tab. 3. Confronto tra le modalità di « professione del padre » in tre ricerche diverse I laureati IV Rapporto Ricerca sui medici

in Italia CENSIS di Catania

professione del padre 1960-61 1967-68 1973-74

imprenditore, libero professionista 19,4% 10,1% 32,6% dirigente, impiegato 40,2% 42,6% 32,6% lavoratore in proprio, coadiuvante 32,7% 26,2% 25,5% lavoratore dipendente 7,7% 21,1% 9,3% Totale 100,0% 100,0% 100,0%

È indicativo che la nostra modalità « lavoratori dipendenti » ha una fre-quenza di casi pari a meno della metà della corrispondente modalità nella